Il Fatto Quotidiano
29 05 2013

Lo Stato è responsabile di discriminazione e trattamenti disumani e degradanti per le violenze domestiche e di violazione della vita privata e familiare per i danni psicologici ai figli che vi assistono, se, nonostante le denunce, non prende adeguati provvedimenti per farle cessare. E’ il principio stabilito da una sentenza da poco emessa dalla Corte dei diritti dell’uomo.

Il caso che ha dato origine al pronunciamento dei giudici di Strasburgo è quello di una donna il cui marito, un poliziotto, si ubriacava picchiandola davanti alle figlie adolescenti. Nonostante l’uomo avesse confessato di percuotere la moglie ed avesse anche tentato di soffocarla, le autorità nazionali avevano rifiutato di esaminare la richiesta urgente di divorzio della donna e la Corte d’appello aveva revocato un ordine di protezione che imponeva all’uomo di restare a 500 metri dalla casa familiare e di incontrare moglie e figlie.

La polizia a cui la donna si era rivolta aveva cercato di convincerla a ritirare la denuncia, per evitare al marito di avere la fedina penale sporca con conseguenze anche sulla vita delle figlie, mentre i servizi sociali avevano proposto alla donna di riconciliarsi con il marito, dicendo che non era la prima né la sola ad essere stata oggetto di violenza domestica!

I giudici europei, nella sentenza di condanna, attribuiscono alle autorità un comportamento discriminatorio e teso a scusare le violenze. La Corte, composta da cinque uomini e due donne, ha stabilito che lo Stato si è reso responsabile di violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed in particolare, nei confronti della donna, di violazione della proibizione di trattamenti disumani e degradanti e violazione del divieto di discriminazione di genere e verso le figlie di diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Questo caso giudiziario riguarda una vicenda accaduta nella Repubblica di Moldova, ma i comportamenti tenuti dalle diverse parti in causa potrebbero riferirsi a qualsiasi nazione e le sentenze della Corte europea dei diritti impegnano tutti gli stati che hanno firmato la convenzione (quindi anche l’Italia). Proprio per questo il principio affermato nella sentenza mi sembra una buona notizia.

Altra buona notizia è che il 22 maggio il Parlamento europeo ha approvato la protezione a livello europeo per le vittime di violenza di genere, norma che, dopo essere stata confermata dal Consiglio europeo dei ministri, diverrà esecutiva nel 2015. Il provvedimento – approvato con soli 23 voti contrari, 63 astensioni e ben 602 voti a favore, di cui centinaia di europarlamentari uomini di ogni fede politica – copre le minacce all’integrità fisica e psichica delle persone, comprese le minacce alla libertà personale, alla sicurezza e all’integrità sessuale.

Tale norma di diritto civile completa la direttiva in materia penale sull’ordine di protezione europeo e prevede che le vittime di stalking, molestia o violenza di genere che hanno ottenuto protezione in uno stato membro possano usufruire di una protezione equivalente se si trasferiscono o viaggiano in un altro stato, senza dover adempiere a troppe formalità. E’ infatti previsto un certificato standard multilingue che fornisce tutte le informazioni essenziali e mira a contenere i costi di traduzione, per far sì che non vi siano oneri aggiuntivi per la persona protetta.

Sono passi avanti nella civiltà e risposte valide alla barbarie delle pugnalate, dei roghi, dei pugni, delle parole che feriscono che abbiamo letto in questi giorni

 

La Repubblica
03 04 2013

STRASBURGO - Il numero chiuso per l'accesso a determinate facoltà? Non viola il diritto allo studio. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani nella sentenza emessa oggi nei confronti dell'Italia. Bocciando, di fatto, il ricorso presentato da otto studenti italiani.

Secondo i giudici, che per la prima volta si sono trovati a dover stabilire se il numero chiuso è compatibile con il rispetto al diritto allo studio sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani, la soluzione trovata dal legislatore italiano per regolare l'accesso all'università è ragionevole. E hanno rilevato che tale soluzione non eccede l'ampio margine di discrezione che gli Stati hanno in questo ambito.

A presentare il ricorso a Strasburgo erano stati 8 cittadini italiani. Una di loro ha fallito per 3 volte l'esame per accedere alla facoltà di medicina di Palermo. Altri 6 ricorrenti non hanno superato quello per entrare ad odontoiatria nonostante l'esperienza professionale acquisita come tecnici odontoiatrici o igenisti. L'ottavo ricorrente invece pur avendo passato l'esame è stato escluso dalla facoltà di odontoiatria dopo 8 anni che non dava esami.

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