Nena News
20 05 2015
Due esplosioni hanno colpito ieri gli uffici dell’HDP ad Adana e Mersin. Negli attacchi sei persone sono rimaste ferite (tre in condizioni gravi). Il partito al potere, AKP, promette una “inchiesta”, ma la formazione di sinistra attacca: “la responsabilità politica è del presidente Erdogan”. E intanto il 7 giugno si vota per le parlamentari
Due attacchi bomba hanno colpito ieri le sedi del partito di sinistra pro-curdo HDP ad Adana e Mersin in Turchia. Le esplosioni hanno causato il ferimento di sei persone, tre delle quali sarebbero in serie condizioni. Il più grave degli attacchi è avvenuto nella città meridionale di Adana dove un pacco bomba è esploso vicino agli uffici del Partito Democratico del Popolo (HDP). Secondo le prime ricostruzioni delle forze di sicurezza turche, l’esplosione avvenuta a Mersin sarebbe stata causata da un mazzo di fiori.
Il governo di Ankara ha immediatamente condannato gli attacchi. Il premier Ahmed Davutoglu ha promesso che i responsabili degli attentati saranno assicurati alla giustizia. “Condanno con fermezza quanto avvenuto” ha dichiarato nel corso di un raduno elettorale del suo partito AKP a Karaman. Davutoglu ha poi aggiunto di aver già dato “chiare istruzioni” per investigare sul caso. Il primo ministro ha poi respinto le accuse di diversi esponenti dell’HDP secondo cui dietro gli attentati ci sarebbe l’AKP. “Noi siamo da sempre contro la violenza. Se Dio vuole, arriveremo in pace al 7 giugno [data delle elezioni parlamentari, ndr]”.
Toni diversi quelli usati dal presidente Recep Tayyip Erdogan che ha criticato l’HDP per i suoi legami con il partito dei lavoratori curdi (PKK). Il “sultano”, impegnato in un comizio piena elettorale a Samsun, ha poi aggiunto: “mi appello a tutta la Turchia: turchi, curdi, arabi, circassi, abkhazi. 78 milioni di voi darete la giusta risposta ad un’organizzazione politica [l’HDP, ndr] che è guidata da un gruppo terrorista?”.
Di tutt’altro avviso è stata la risposta della sinistra. Un corteo formato da centinaia di persone ha sfilato ieri sera per via Istiklal (nel centro di Istanbul) al grido di “no al fascismo” esprimendo piena solidarietà alla formazione pro-curda per gli attacchi subiti ai suoi uffici. Il copresidente dell’HDP, Selahattin Dermitas, impegnato in un comizio elettorale a Mersin, ha definito le esplosioni di ieri come “un tentativo di massacrare” i leader del suo partito. Dermitas ha poi accusato Erdogan di essere sostenitore dello Stato Islamico d’Iraq e Siria (Isis): “il presidente di questo Paese chiama l’HDP una organizzazione terroristica, ma non dice una parola sull’Isis. Quelli che collaborano con una gang di stupratori non possono darci lezioni di democrazia”. “Quanto è successo oggi – ha affermato – mira a rendere i curdi nemici dei turchi e quest’ultimi nemici dei primi”.
Nessun gruppo ha finora rivendicato gli attentati di ieri. Secondo il governatore provinciale di Adana, Mustafa Buyuk, l’esplosione è stata “intenzionale”. Tuttavia, non ha fornito alcun dettaglio: “stiamo cercando ancora di capire cosa ha causato l’esposione e quale esplosivo è stato utilizzato” ha riferito laconicamente Buyuk all’agenzia Anadolu. Il capo delle polizia di Mersin, Rahmi Bastug, ha invece rivelato che l’altra esplosione sarebbe avvenuta nella cucina dell’ufficio dell’HDP.
In una dichiarazione ufficiale l’HDP ha accusato “forze oscure sostenute dal partito di governo” che tentano di ostacolare la loro campagna elettorale. “La responsabilità politica – recita un comunicato – è del presidente Erdogan, del premier Davutoglu e degli altri membri dell’esecutivo che hanno reso l’HDP un obiettivo [da attaccare]”. Le accuse sono state immediatamente respinte dal portavoce di Erdogan, Ibrahim Kalin, che le ha definite “inaccettabili” e ha invitato la formazione di sinistra a fornire dei chiarimenti a riguardo.
Gli attacchi di ieri ad Adana e Mersin sono solo gli ultimi di una lunga serie di attentati contro l’HDP. Il partito ha denunciato di aver subito 66 attacchi da quando è iniziata la campagna elettorale lo scorso aprile. Proprio lo scorso mese alcuni uomini armati avevano aperto il fuoco contro la sede del partito ad Ankara senza causare vittime. Il governo Davutoglu condannò allora l’attentato definendolo un colpo alla stabilità e alla democrazia della Turchia.
Il clima si fa dunque sempre più teso in vista delle imminenti parlamentari di giugno. Obiettivo dell’HDP è quello di superarare lo sbarramento del 10%. Una sua buona performance elettorale potrebbe influire negativamente sui piani del partito di governo (AKP) che mira a fare man bassa di seggi parlamentari (sono 550 seggi in totale) per cambiare la costituzione e creare un sistema presidenziale.
Che l’HDP non sia ben visto all’AKP è cosa nota. A inizio mese il vice premier Yalcin Akdogan ha affermato che si sentirà “alla grande” se il partito di sinistra pro-curdo non dovesse farcela a superare la soglia elettorale. Nonostante gli attacchi subiti, ieri Dermitas ha ostentato sicurezza e, rivolgendosi ad Erdogan in tono di sfida, gli ha detto: “abbiamo ricevuto il tuo messaggio. Non ti faremo presidente”.
Il Corriere Della Sera
22 04 2015
Il primo boato è improvviso, quasi inaspettato, perché squarcia la quiete delle ultime ore della giornata. È un rumore secco, senza eco, simile a un grosso fuoco d’artificio che non porta luci e colori, ma morte e distruzione. Esplode quando il sole è quasi nascosto dietro i palazzi della città di Sinjar, in Iraq. Gli ultimi raggi colorano di rosso fuoco le montagne da sempre brulle e oggi disabitate:gli oltre 500.000 Yazidi che abitavano la zona sono scappati a inizio agosto 2014. Gli unici rimasti, da questa parte del fronte, sono i soldati curdi, uomini e donne con le armi in pugno per resistere all’avanzata dello Stato Islamico. I curdi sono arroccati nei sobborghi e sulle alture intorno alla città. Le loro sagome si scorgono in lontananza e quando sentono il primo botto si rifugiano nelle trincee scavate proprio davanti alle case da dove i cecchini vestiti di nero prendono la mira. Le due fazioni sono divise da non più di cinque metri e combattono per ogni centimetro di terra.
Sono le 5.45 e la battaglia, l’ennesima per Sinjar, è appena iniziata e durerà per tutta la notte. I jihadisti vogliono spingere i curdi su per la montagna alta 1460 metri, per cercare di riconquistare quella manciata di case nell’unica conca che porta alla città. Gli uomini di Isis sanno che finché quelle postazioni rimangono in mano curda, il loro controllo di Sinjar è in pericolo. Questo significa mettere a repentaglio le linee tra la Siria e l’altro centro jihadista in Iraq, Mosul. Secondo il Pentagono, nell’ultimo mese, gli uomini del Califfato hanno perso «tra il 25 e il 30 per cento delle zone conquistate in Iraq». Così la montagna è diventata centro nevralgico delle operazioni nel nord del Paese. Gli americani, con i partner della coalizione anti-Isis, bombardano quotidianamente le postazioni nemiche. Mentre i Peshmerga, soldati del Kurdistan iracheno, con le milizie legate al Pkk, il partito dei lavoratori turco, cercano di avanzare via terra.
Quando gli attacchi si intensificano i colpi di mortaio e l’artiglieria pesante esplodono a ripetizione quasi ritmica. Da una parte e dall’altra, senza tregua. Nei pochi momenti di silenzio si sentono colpi di Kalashnikov sulle alture. Spesso Isis non riesce a colpire le case dei curdi, diventate centri logistici . Nella stanza adibita a ufficio il generale Hashem Sitay, a capo dell’Ottava Brigata dei Peshmerga, coordina le offensive via radio o telefono. Il vano dell’unica finestra è senza vetri ed è stato riempito con sacchi di terra per attutire i colpi. La luce si insinua tra le fessure creando un’atmosfera quasi irreale. Ad ogni esplosione il telo di plastica che sigilla il tutto, si riempie di aria come un palloncino per poi tornare leggero pochi secondi dopo.
Nella stanza c’è un via vai senza sosta. Alcuni soldati sono andati in ricognizione, si sono spinti oltre il fronte per capire dove sono posizionati i jihadisti. «I cecchini cambiano continuamente postazione», spiega Rafat Salim Raykoni, a capo dell’Intelligence militare. La situazione è frenetica. Qualcuno cerca di scherzare, altri stanno in silenzio, seduti in un angolo pronti per uscire con il giubbotto antiproiettile e il fucile in mano.
Mohammed Tarek fissa lo schermo del suo telefonino. C’è la fotografia di una donna che sorride. Ha i capelli lunghi neri e una maglietta blu. «Ogni volta prima di andare in battaglia guardo la foto di mia moglie. Così, se muoio, lei sarà l’ultima cosa che ho visto», spiega abbozzando un sorriso. Pochi minuti dopo esce con la sua squadra è il suo turno per combattere. Solo quando un colpo esplode sul generatore a due metri dalla casa, le conversazioni si fermano. Tutti posano i piccoli bicchieri del tè piattino e corrono a esaminare i danni. Il generatore è distrutto, ma nessuno è stato ferito. «Questo è l’importante», sorride il generale.
«La tattica usata dai terroristi è sempre la stessa», spiega il capitano Kowa Spindari. Ogni due o tre giorni da Raqqa, la capitale dello Stato Islamico in Siria, arriva una ventina di persone, per lo più straniere, pronte a farsi esplodere. Non appena cala la notte, vanno al martirio. I kamikaze cercano di attivare il detonatore il più vicino possibile alle linee curde. Spesso sono così imbottiti di droga, per prevenire ripensamenti all’ultimo minuto, che non si fermano nemmeno se feriti. E subito dopo le esplosioni partono dalle retrovie i bombardamenti con l’artiglieria pesante.
«Questa è una guerra sporca», ripete Beritan, scuotendo la testa dai lunghi capelli ricci corvini in una casa semi distrutta e base per le guerrigliere curde a pochi metri dai Peshmerga. La donna, 30 anni, è il secondo comandante dell’Unità di sole donne Yja Star e Ypj. Sotto di lei una sessantina di soldatesse. Oggi è a Sinjar per sconfiggere quello che lei chiama semplicemente il “male”. Negli ultimi otto mesi Beritan e la sua squadra hanno cercato di liberare tutti i civili rimasti intrappolati nella città. «Siamo riuscite a salvare anche alcune ragazze yazide usate come schiave del sesso» aggiunge. Qualcuno è ancora intrappolato ma lei rassicura. «Non ce ne andremo fino a quando non avremmo messo in salvo tutte le famiglie e liberato tutte le donne. Li sconfiggeremo».
Ma per il momento i curdi hanno l’ordine di tenere le postazioni. «Secondo le nostre stime in città ci sono al massimo 150 jihadisti», spiega ancora il generale Satay. Il problema, dice, non è entrare a Sinjar ma tenerla. «Noi in totale siamo quasi 3mila. Per tenere tutta l’area ci vogliono almeno 10mila soldati», aggiunge. Nel frattempo non mollano quella manciata di case che controlla l’unico accesso da nord alla città. «Ci attaccano ogni giorno con tutto quello che hanno, ma noi riusciamo sempre a respingerli».
All’alba i suoni dei colpi di mortaio si fanno meno frequenti, la battaglia sta finendo. E inizia la conta dei feriti. Un peshmerga è stato colpito, «non è grave», spiegano. Mentre almeno dieci jihadisti sono stati uccisi. Ora è il momento di riposare, perché nel pomeriggio si ricomincerà a combattere.
Il Fatto Quotidiano
16 03 2015
E’ stata una battaglia violentissima, combattuta in inferiorità ma con grande tenacia, contro un nemico che vuole distruggere la libertà. L’abbiamo combattuta per tutto il mondo“. Ismet Hasan è il ministro della Difesa del cantone di Kobane. Snocciola numeri di morti e feriti (1.200 caduti per l’Isis, 670 per lo Yekîneyên Parastina35 Gel, l’Unità di Protezione Popolare) come un qualsiasi ministro, con la sola differenza che nelle mani tiene stretta la sua arma e ha gli occhi di chi dietro una scrivania non si è seduto spesso. Coordina la difesa della città, ma è anche responsabile dell’inseguimento delle truppe del Califfato nel deserto siriano. Racconta di scontri e combattimenti senza mai perdere la calma, con alle spalle il figlio che, vigile, gli fa da guardia del corpo.
Entrare a Kobane a pochi giorni dalla liberazione da l’impressione di piombare in un’apocalisse. Si capisce quasi subito che in questa città non è stata combattuta solo una battaglia per il suo controllo: una volta capito che l’assedio sarebbe durato più del previsto, i miliziani dello Stato Islamico, hanno messo in atto una campagna di distruzione totale 1della città e dell’esperienza politica rivoluzionaria di cui è portatrice. Camminando per le strade appena liberate si ha subito la sensazione che Kobane fosse una vivace e popolosa città di confine, con centinaia di negozi a colorare le strade polverose. Le merci sono rimaste intatte al loro posto, solo impolverate malgrado le vetrine e le serrande siano letteralmente esplose a causa dei bombardamenti. Gli edifici rimasti in piedi nonostante il volume di bombe cadute presentano i segni della battaglia: interi piani crollati, automobili scaraventate al secondo piano, fori di proiettile ai lati.
Kobane era una città di 60 mila abitanti, adagiata ai piedi delle colline, con il centro città schiacciato dal prossimo confine. Per mesi ha parlato attraverso il rumore delle bombe e delle mitragliatrici. Kobane è stata testimonianza di un assedio brutale, di uno scontro fra ideologie che si frappongono: da una parte i miliziani jihadisti dell’Isis e dall’altra i guerriglieri curdi, organizzati nelle Ypg. L’assedio è durato 134 giorni, dalla metà di settembre, quando le prime bombe dell’Isis sono cadute in città e i primi rifugiati curdi hanno attraversato il confine, al 26 gennaio quando lo Ypg ha dichiarato ufficialmente che Kobane era stata liberata.
Niente si è salvato dalla furia distruttrice del Califfato. Si cammina tra le macerie facendo attenzione a dove si mettono i piedi, la città è ancora disseminata di bombe inesplose e solo un minimo contatto potrebbe farle brillare. Agli incroci sono appesi teli e tappeti, sono un metodo rudimentale ma efficace per muoversi da una strada all’altra senza essere presi di mira dai cecchini dell’Isis. Le barricate invece sono costruite con le macerie delle abitazioni e con qualsiasi altro mezzo sia stato possibile recuperare: auto, trattori, furgoni e persino autobus. Tutti ovviamente crivellati di proiettili. Il silenzio è rotto dal rombo dei bombardieri della coalizione in cielo e da qualche esplosione o raffica di mitragliatrice che ancora viene sparata entro i confini cittadini. Si attraversano interi quartieri senza incontrare anima viva, solo in lontananza si scorgono alcuni mezzi dello Ypg che si muovono verso il fronte, ormai a qualche decina di chilometri.
5“Saremo sempre grati a chi ha combattuto per noi”
Sono loro, i combattenti dello Ypg, coloro che strenuamente hanno difeso Kobane. Sono per lo più ragazzi, tra i 20 e i 30 anni, indossano la divisa mimetica ma portano scarpe da ginnastica. Sulle loro spalle campeggia l’immancabile Kalashnikov, arma simbolo di tutte le rivolte. Lo personalizzano con adesivi tricolori: rosso, giallo, verde, i colori della Rojava. Hanno le facce tirate, tese ma non lesinano sorrisi e strette di mano. Si concedono anche in foto, però prima mettono bene in mostra l’arma. Sono curdi siriani, ma anche turchi, iraniani, iracheni. Sono venuti da tutte le regioni del Grande Kurdistan per aiutare i loro fratelli assediati, per portare loro solidarietà e competenza. Sono giovani ma hanno sulle spalle tutto il peso di una guerra, di un assedio immane, sono pronti a morire per la loro terra. “Sono venuti curdi da tutto il mondo per aiutare i propri fratelli a difendere Kobane. In città hanno combattuto anche stranieri, persone che hanno lasciato tutto nei loro paesi pur di aiutarci a difendere la libertà e la democrazia nella Rojava. Gli saremo per sempre grati. Ogni qualvolta ci sarà bisogno di combattere per la libertà in altri paesi noi saremo sempre al loro fianco“, aggiunge Ismet Hasan.
Meglio affrontare Isis che scappare in Turchia “E’ un nemico”
I guerriglieri ostentano sicurezza anche quando in lontananza esplodo alcuni colpi di mortaio mentre tutti intorno abbassano la testa e cercano riparo. Alcuni di loro sono a Kobane dall’inizio dell’assedio perché non hanno voluto andarsene, hanno preferito prendere le armi per difendere le loro case piuttosto che cercare rifugio in Turchia, da molti considerata al pari di un nemico. In effetti in questi mesi i curdi asserragliati in città hanno dovuto combattere non solo l’Isis, ma anche con l’esercito turco42, guardiano non sempre imparziale del confine su cui Kobane è appoggiata. Più volte i militari di guardia si sono resi complici dei miliziani del Califfato, come a fine novembre quando un camion che avrebbe dovuto trasportare aiuti umanitari è stato fatto passare dal confine turco per poi rivelarsi un’autobomba dell’Isis che ha provocato morti e feriti tra i combattenti curdi.
Kobane, la furia di Isis contro il confederalismo democratico
Dall’altra parte c’è invece l’Isis, ora solamente Is. Per loro Kobane era solo un’altra piccola città sulla mappa, da conquistare per avere il pieno controllo della frontiera con la Turchia. Forse nemmeno si aspettavano una resistenza così forte, ma quando combatti per la tua terra e la tua casa, per i tuoi figli e con i tuoi figli, puoi immaginare che sarà più dura che altrove. Infatti l’Isis si era rivolto su Kobane solo dopo aver fatto razzia degli arsenali iracheni, potendo così schierare sul campo una potenza di fuoco che, si immaginava, solo un esercito organizzato avrebbe potuto contrastare. In città hanno combattuto tra le file dell’Isis miliziani provenienti da tutto il mondo, ma la maggior parte di loro era di origine cecena, mobilitati soprattutto nella parte est della città. Proprio in questi quartieri si sono svolti i combattimenti più aspri che non hanno lasciato un 32singolo edificio in piedi. Sono state le radio sottratte ai miliziani caduti a confermare la loro presenza in città. Per mesi, gli unici segni visibili dell’Isis sono state le bandiere nere, che sventolavano dagli edifici più alti, e le colonne di fumo che i loro bombardamenti provocavano in centro città. Ora rimangono solo alcuni cadaveri, segno tangibile della battaglia appena conclusa. I guerriglieri dello Ypg e le persone che fanno parte dell’organizzazione clandestina che li supporta non si stancano di ripetere quanto l’Islam propagandato dallo Stato Islamico non sia veritiero, originale, al contrario sarebbe l’Islam curdo quello che varrebbe la pena esportare. Un Islam che parla di uguaglianza di genere, di libertà di culto, di partecipazione: un Islam di pace che insieme all’ideologia politica alla base della rivoluzione in Rojava, il confederalismo democratico, può diventare un pericolo per il Medio Oriente contemporaneo perché scardina tutti quei principi sui cui si fonda la politica mediorientale. Insomma, un precedente pericoloso in un’area dominata da Emiri, Califfi e Generali, segnata dalla negazione di libertà individuali e collettive e dalle molte esecuzioni. Può darsi che anche per questo l’Isis, con l’avvallo di qualche paese dell’area, abbia deliberatamente e ostinatamente provato a radere al suolo Kobane.
Ismet Hasan si guarda intorno e sogna la ricostruzione, ma al momento è impossibile pensare di far rientrare tutti i rifugiati per i semplici motivi che non esistono più le 24abitazioni e le strade sono disseminate di bombe inesplose. Servirà una bonifica, ma soprattutto molto tempo. Anche l’elettricità è totalmente insufficiente per i bisogni di una città e manca l’acqua potabile. Per questi motivi stanno cercando di fermare l’afflusso di coloro che vogliono precipitosamente tornare nelle proprie case, nonostante la battaglia sia finita solo da qualche giorno. Nel prossimo futuro si attendo ancora battaglie e morti, c’è da riconquistare buona parte del territorio perso e le centinaia di villaggi curdi ancora in mano all’Isis.
di Davide Mozzato e Marco Sandi
Foto di Marco Sandi
(Mozzato e Sandi sono parte di una delegazione di Rojava Calling e sono entrati a Kobane il 30 gennaio, 4 giorni dopo la liberazione. Per entrambi era la seconda esperienza sul confine turco-siriano).
Rainews24
03 02 2015
le milizie jihadiste dello stato islamico (isis) sono state "cacciate" quasi del tutto da kobane, città curda-siriana a ridosso della frontiera turca assediata dagli uomini del califfato nero dal settembre scorso. kobane è stata liberata ma questi mesi di violenta offensiva dell'isis hanno messo in fuga decine di migliaia di persone, molte delle quali sono arrivate in turchia.
I profughi nel campo di Mürşitpınar, sul lato turco del confine siriano, molti aspettano solo che la frontiera sia riaperta, per tornare a casa anche se la loro casa potrebbe non esserci più. secondo le cifre ufficiali di ankara, la turchia ospita attualmente nei campi profughi quasi 200mila persone provenienti dall'area di kobane.
Nella zona turca di suruc, ad una decina di chilometri dal confine, c'è la struttura più grande che ospita 35mila rifugiati. comprende sette cliniche mediche, due ospedali e aule per almeno 10mila bambini, provenienti principalmente da kobane.
Stanziati 3,9 milioni lo scorso ottobre la commissione europea ha stanziato 3,9 milioni di euro destinati alle organizzazioni umanitarie. ma per ora le autorità turche non lasciano passare nessuno anche se sono in molti a chiedere di tornare a casa per cominciare la ricostruzione. la città di kobane è liberata, ma i combattimenti proseguono in alcuni dei villaggi limitrofi.
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