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Dopo quel discorso, l'Istria fu messa a ferro e fuoco. Venti anni dopo quel discorso le truppe di Mussolini invasero Dalmazia, Slovenia e Montenegro, dando inizio a nuove stragi in nome della civiltà italiana. ...

Vedi alla voce "Porrajmos"

  • Giovedì, 30 Gennaio 2014 09:47 ,
  • Pubblicato in Flash news
Corriere delle migrazioni
30 01 2014

Per il regime fascista, quella che fu etichettata come “questione zingari” prese le mosse da un dato concreto: il movimento di carovane di rom e sinti all’interno del Regno era una condizione percepita come un pericolo. Tale preoccupazione si legava alla caratterizzazione dello “zingaro” diffusa culturalmente: il soggetto necessariamente straniero e sicuramente asociale dedito al nomadismo e ad una vita di espedienti; una situazione descritta come generalizzata e che veniva associata all’appartenenza etnica e non a scelte individuali.

Questa percezione diffusa dello “zingaro” come un pericolo sociale, non si rivela un fattore nato con l’avvento del fascismo in Italia; si tratta in realtà di un pregiudizio secolare (rom e sinti sono presenti in Italia almeno dal XV secolo) il cui peso a livello popolare può essere immediatamente percepito sfogliando le pagine de «La Domenica del Corriere» dei primi anni del Novecento, sulle cui copertine tornano con insistenza le immagini degli “zingari ladri”, “zingari ladri di bambini”, “zingari portatori di malattie”, “zingari primitivi”, “zingari nomadi” e dunque soggetti pericolosi in quanto gruppo genericamente caratterizzato da tutti questi elementi insieme.

Con il fascismo, pur dovendo ricordare che già tra XVI e XVIII secolo anche molti Stati pre-unitari avevano elaborato una propria legislazione antizingara, la percezione diffusa a livello popolare trovava piena espressione in specifiche leggi che questa volta accomunarono la totalità del territorio nazionale.

Dalle ricerche svolte all’interno del progetto europeo Memors (che ha dato vita al primo museo virtuale del Porrajmos in Italia, visitabile con le sue testimonianze ed i suoi documenti all’indirizzo www.porrajmos.it) è stato possibile definire quattro periodi di riferimento per la ricostruzione dell’intera vicenda del Porrajmos italiano: dal 1922 al 1938 i respingimenti e l’allontanamento forzato di rom e sinti stranieri (o presunti tali) dal territorio italiano; dal 1938 al 1940 gli ordini di pulizia etnica ai danni di tutti i sinti e rom presenti nelle regioni di confine e dunque anche dal Trentino; dal 1940 al 1943 l’ordine di arresto di tutti i rom e sinti (di cittadinanza straniera o italiana) e la creazione di specifici campi di concentramento fascisti a loro riservati sul territorio italiano; dal 1943 al 1945 l’arresto di sinti e rom (di cittadinanza straniera o italiana) da parte della Repubblica Sociale Italiana e la deportazione verso i campi di concentramento nazisti.

Respingimenti alla frontiera ed espulsioni

Il 19 febbraio 1926 una circolare inviata ai prefetti precisava di respingere gli “zingari”, qualsiasi fosse la loro provenienza ed anche in caso di documenti validi per l’ingresso in Italia. L’8 agosto di quello stesso anno il Ministero degli Interni precisava che l’obiettivo da perseguire era l’epurazione del territorio nazionale dalla presenza di carovane di “zingari”, di cui era superfluo ricordare la pericolosità nei riguardi della sicurezza e dell’igiene pubblica.

L’attenzione veniva quindi rivolta immediatamente verso le frontiere, dalle quali non permettere l’ingresso di rom e sinti, ma con l’ordine del mese di agosto l’obiettivo diventava quello di espellere anche quegli “zingari” di cittadinanza straniera che fossero già presenti nel Regno. Si cominciava una politica di espulsione verso qualsiasi rom o sinto potesse essere individuato come soggetto privo di cittadinanza italiana; in realtà la pratica dell’allontanamento veniva eseguita con scarsa attenzione alla reale provenienza dei soggetti fermati: far attraversare forzatamente la frontiera diventò un’ottima soluzione per ripulire i territori dagli “zingari”, di qualsiasi cittadinanza essi fossero.

La pulizia etnica alle frontiere

La “questione zingari” diveniva uno dei problemi fondamentali da risolvere, in particolare nelle zone di frontiera, per prima cosa ad est, ma poi anche a settentrione.

La convinzione espressa anche da Benito Mussolini che ebrei e rom fossero spie attive contro lo Stato, portava ad ordinare un sempre più stretto controllo sui confini e l’Istria divenne il banco di prova di questa politica antizingara. Il 17 gennaio 1938 Arturo Bocchini ordinava di contare e categorizzare tutti i rom istriani dividendoli tra soggetti con precedenti penali non pericolosi, soggetti senza precedenti penali e pericolosi e soggetti pericolosi. Il prefetto istriano Cimoroni rispondeva con delle liste di nomi dettagliatissime e tra febbraio e maggio 1938 l’ordine emanato da Arturo Bocchini il 17 gennaio 1938 avviava la pulizia etnica dell’Istria nei confronti dei rom e sinti: questi furono imbarcati sui traghetti e portati verso il confino in decine di paesi sardi, tra le province di Nuoro e Sassari. Arrivarono in Sardegna almeno 80 persone che poi furono disperse nelle campagne e controllate dai carabinieri.

In quello stesso anno la medesima pratica di allontanamento venne adottata per i sinti trentini, colpevoli anch’essi di rappresentare una popolazione considerata pericolosa a livello ereditario e dunque spostati al confino in Sardegna per motivi di sicurezza dello Stato; le famiglie Gabrielli (o Gabrieli), Hollenreiner, Eisenfeld ed Held furono anch’esse confinate sull’isola.

L’internamento nei campi di concentramento fascisti riservati agli “zingari” (1940-1943)

Il 1940 si apriva con un articolo di Guido Landra, il giovane antropologo in seguito direttore dell’ufficio Demografia e Razza presso il Ministero degli Interni, che inseriva la questione zingari nell’ambito del meticciato, considerato come un pericolo a livello razziale:
Non avendo alcun dato per l’Italia, ci limiteremo a riportare alcune osservazioni compiute da Römer in Sassonia per incarico dell’Ufficio Politico Razziale del Partito Nazionalsocialista. Come scrive questo autore, indipendentemente dagli ebrei e dai loro meticci, vivono in Germania numerosi individui razzialmente molto diversi dal popolo tedesco. In primo luogo, bisogna tenere presente gli zingari che vivono talora in bande e talora invece dispersi in mezzo al resto del popolo. [...] Questo autore ricorda come in una località della Sassonia, accanto a tipi che rappresentavano il tipico aspetto levantino, mongoloide e negroide, ma di cui era impossibile stabilire con esattezza l’origine, vivevano tre famiglie razzialmente ben identificate. La prima di queste famiglie, che potrebbe essere confusa con una comune famiglia di povera gente, comprende invece degli zingari che vivono in maniera del tutto asociale, senza alcun mestiere preciso.

Il problema risultava di chiaro stampo razziale e l’assimilazione non poteva quindi rappresentare una soluzione percorribile:
Questi esempi mostrano quindi come in Europa esista tuttora un grave problema dei meticci che non si limita a quello degli ebrei e che non si può esaurire tentando l’assimilazione degli individui della prima o anche della seconda generazione. [...] Ricordiamo il pericolo dell’incrocio con gli zingari, dei quali sono note le tendenze al vagabondaggio e al ladroneccio. [...] Come si sa, gli zingari sono particolarmente numerosi nell’Europa dell’est e in Spagna, tuttavia la loro presenza negli altri paesi desta serie preoccupazioni, soprattutto per l’incertezza che si ha circa il loro numero effettivo.

Lo studioso presentava inoltre una serie d’immagini che utilizzava per indicare le varie caratteristiche zingaresche e per riferirsi ad una purezza razziale originaria, ormai contaminata e pericolosa per la società civile:

Essi [gli zingari] si presentano dolicocefali, con viso allungato, colorito bruno, naso leggermente convesso, occhio a mandorla quando sono soltanto di razza orientale, altrimenti presentano anche leggermente i caratteri delle razze europee con cui si sono mescolati. Come si comprende facilmente, un esame antropologico superficiale, farebbe confondere la razza orientale con la mediterranea, da essa così diversa psichicamente. [...] Si tratta di individui asociali differentissimi dal punto di vista psichico dalle popolazioni europee. Data l’assoluta mancanza di senso morale di questi eterni randagi, si comprende come essi possano facilmente unirsi con gli strati inferiori delle popolazioni che incontrano peggiorandone sotto ogni punto di vista le qualità psichiche e fisiche.

All’articolo di Landra seguiva l’ordine emanato da Arturo Bocchini l’11 settembre 1940 che ribadiva il fermo proposito di combattere la “piaga zingara” attraverso il rastrellamento, l’arresto ed il concentramento di tutti i rom e sinti anche di cittadinanza italiana, per poi rinchiuderli in luoghi preposti. Si trattava di un giro di vite fondamentale: l’essere definito “zingaro” annullava in pratica qualsiasi riferimento alla cittadinanza italiana. I prefetti furono particolarmente solerti nell’adempiere agli arresti ed il regime cominciò a predisporre una rete di campi di concentramento riservati agli “zingari” sul territorio italiano. Il primo luogo individuato fu un ex tabacchificio presso Bojano (provincia di Campobasso): tra il 1940 ed il 1941 vi giunsero 58 rom e sinti provenienti da tutto il territorio nazionale, ma la richiesta dell’edificio utilizzato come luogo di concentramento per inserirvi la lavorazione della ginestra, portò i progetti di prigionia rivolti a rom e sinti verso il vicino paese di Agnone (oggi provincia di Isernia) presso il quale vennero spostati i 58 individui presenti a Bojano, a cui si aggiunsero altri cento internati che risultano censiti nelle liste del campo all’inizio del 1943. Agnone diventava il luogo specifico d’internamento fascista riservato agli “zingari”, ma nelle varie province, i centinaia di rom e sinti arrestati portarono spesso a soluzioni temporanee individuate a livello locale: nascevano perciò campi di concentramento per rom e sinti anche a Berra (Ferrara), Prignano sulla Secchia (Modena), Torino di Sangro (Chieti), Chieti, Fontecchio negli Abruzzi (Chieti); nel 1942 un altro campo di concentramento voluto a livello centrale iniziava la sua attività a Tossicia (Teramo), sorto appositamente per imprigionare i rom provenienti da Postumia e permettere al prefetto Berti di affermare che l’Istria era finalmente libera da “zingari”.

A fianco dei nuovi siti d’internamento, anche le carceri diventavano luoghi di attesa per la deportazione nei campi fascisti per “zingari”, infatti molti dei deportati partirono dalle carceri di tutta Italia che tra 1940 e 1943 risultavano invase da rom e sinti arrestati ed in transito (è il caso dei detenuti di Cento in provincia di Ferrara) verso Agnone.

In occasione del Giorno della memoria 2013, il progetto Memors in collaborazione con le istituzioni locali, ha finalmente scoperto tre targhe a Prignano sulla Secchia, Tossicia ed Agnone che ricordano i nomi dei rom e dei sinti nei luoghi del loro internamento, avvenuto per volere del regime fascista tra il 1940 ed il 1943; è una iniziativa importante perché in quei luoghi la memoria era già dissolta: nessuno dei paesani ricordava ciò che era avvenuto tra 1940 e 1943, mentre gli edifici sono oggi utilizzati per attività di vario tipo, ad Agnone per esempio, l’ex convento di San Bernardino è diventato una casa di cura per anziani.

La deportazione dall’Italia verso i campi del Terzo Reich (1943-1945)

L’armistizio e le nuove alleanze italiane portarono al collasso dei campi di concentramento fascisti nelle zone del meridione ed i sinti e rom internati riuscirono a scappare.

Nelle ricerche avviate dall’anno 2000, la storia di rom e sinti nel periodo nazifascista in Italia presentava un vuoto legato alle vicende della persecuzione organizzata dalla Repubblica Sociale Italiana. Era il periodo dei feroci rastrellamenti nelle zone controllate dalla Rsi, ai quali seguì la deportazione verso i campi di concentramento e sterminio del Terzo Reich di tutti i soggetti considerati oppositori del regime per motivi razziali o politici. Fino all’avvio del progetto Memors non si era trovata evidenza di deportazioni di rom e sinti verso i campi nazisti, eppure la “questione zingari” rappresentava nel Terzo Reich un elemento specifico che una unità d’igiene razziale trattò affiancandola alla “questione ebraica” fino alla liquidazione totale dei rom e sinti di Auschwitz-Birkenau nella notte tra 1 e 2 agosto del 1944.

Le testimonianze dirette ed indirette raccolte con il progetto hanno permesso di colmare questa lacuna: i nomi di rom e sinti sarebbero stati irrintracciabili senza l’aiuto dei testimoni, perché i cognomi da individuare erano Gabrielli, Held, Suffer, Bianchi, Levakovich, Pavan e molti altri che senza la ricostruzione degli alberi genealogici non sarebbero apparsi necessariamente appartenenti a rom e sinti. Dunque sui convogli diretti dall’Italia verso Dachau, Buchenwald, Mauthausen, Ravensbruck c’erano anche rom e sinti arrestati in Italia perché “zingari” e registrati nei campi come “asociali”: la “questione zingari” nazista era stata chiusa con la liquidazione totale del settore di Birkenau loro riservato nell’agosto del 1944 e l’arrivo dei deportati dall’Italia avvenne a cavallo o successivamente tale data.

Luca Bravi

 

Topolino va in Abissinia

  • Venerdì, 24 Gennaio 2014 17:09 ,
  • Pubblicato in Flash news
Igiaba Scego, Collettivo ALMA
24 01 2014

In preparazione della giornata della memoria. Ricordiamoci anche dei crimini commessi dal Colonialismo italiano

Il compositore di Topolino va in Abissinia era un certo Fernando Crivelli, nome d’arte Crivel, uno che per tutto il ventennio fascista alternò canzoni di propaganda a canzoni di intrattenimento. Il motivetto di Crivel faceva parte di una lista copiosa di canzoni che il regime del fascio littorio commissionò agli autori per questioni belliche. Il periodo della guerra in Etiopia, è bene ricordarlo, fu il periodo di maggior consenso per Benito Mussolini. L’industria discografica, come la maggior parte delle industrie italiane, cercò infatti di sfruttare al meglio questa situazione di pura grazia per il Duce.

Le canzoni erano quasi tutte del genere ero(t)ico infatti. Non fu un caso che il regime incrementò proprio quel filone patriottico-esotico caro ai vecchi e nuovi coloniali in camicia nera. Si doveva assecondare il clima imperiale, ma senza dimenticare l’intrattenimento, vera linfa vitale dell’industria discografica. Si cantavano le squadracce, ma anche gli amori per le belle “faccette nere” neosuditte coloniali. Si inneggiava all’eroismo delle truppe, ma allo stesso tempo si presentava al pubblico italico l’immagine bucolica di una casetta nelle radure boscagliose dell’Africa Orientale. I cantanti e soprattutto gli autori facevano salti mortali per accontentare tutti. Il regime aveva comandato temi, parole, istanze e i parolieri pur non avendo nulla da dire su tuqul, ascari, battaglie campali lo dovevano dire in fretta e sempre stando attenti ad assecondare chi aveva in mano lo scettro del comando.

Crivel era tra i tanti autori che si barcamenava tra i diktat del regime e un’anima da cantante dalle belle aspirazioni.

Fernando Crivelli. era stato l’autore di hit come Maramao perché sei morto? Reso famoso dal trio Lescano o L’ora del Campari. Ma fu paradossalmente Topolino va in Abissinia il suo maggior successo. Infatti secondo stime già note agli esperti di musica leggera italiana fu proprio Topolino va in Abissinia la canzone più venduta del ventennio, più di Faccetta nera e Giovinezza.

La canzone è datata 1935. Per uno strano caso del destino quello fu anche l’anno in cui Walt Disney visitò l’Italia insieme alla moglie Lillian. Furono ricevuti dal Papa e il 20 Luglio di quell’anno da Benito Mussolini in persona. Quello però non era il primo incontro tra i due. Walt e Benito si erano già visti nel 1932.

Si è favoleggiato molto su questi due incontri. E poi in generale si è detto un po’ di tutto su Walt Disney. Ogni anno c’è una tesi nuova: Walt Disney fascista, Walt Disney nazista, Walt Disney razzista, Walt Disney antisemita, Walt Disney Maccartista e persino Walt Disney comunista, anzi no stalinista.

Questa non è la sede adatta per capire quale sia stata la vera anima di Mr Disney. Ma una cosa è certa i due, Benito e Walt, si piacquero davvero molto. La visita fu definita dallo staff di Disney piacevole e cordiale. Non è poi certo un caso che nel momento in cui il duce (anni dopo, esattamente nel 1938) decise di boicottare i fumetti d’oltreoceano, risparmiò proprio il topo americano. Flash Gordon, l’Agente X9, l’Uomo Mascherato, Jim della Giungla furono condannati a morte, senza appello, Topolino non solo fu risparmiato, ma fu anche portato sugli allori.

Le biografie del Duce concordano quasi tutte nel dire che Topolino fu salvato perché piaceva molto al figlio Romano. Sta di fatto che fu risparmiato anche in Germania. Goebbels regalò ben diciotto film di Topolino ad Adolf Hitler. Il topo godeva della stima del Fuhrer.

Il testo di Topolino va in Abissinia è atroce.

Un gruppo di soldati si trova in Africa Orientale, tutti pronti a menar le mani e a cacciare il Negus Hailé Selassié dalla sua Etiopia. In questa bolgia guerresca appare Topolino, vestito da soldato provetto.

Viene annunciato in questo modo: “è il più bel tipo di militare che sia sbarcato nell’Africa Orientale”. Poi a Topolino vengono poste le domande di rito. I due militari di alto grado vogliono sapere a quale distretto appartiene il topo. Lui con la sua vocina acida e irritante risponde “nessun distretto, sono volontario”. Una camicia nera in poche parole. I militari che lo stanno interrogando sono assai impressionati. Bofonchiano, se la ridono di gusto, felici di aver trovato un militare così perfetto ed onesto, vanto del Duce e del futuro impero. Gli chiedono naturalmente se è armato. Lì Topolino da il meglio di se e dice “mi sono armato da solo. Ho la spada, il fucile, una mitragliatrice sulle spalle e mezzo litro di gas asfissiante”. MEZZO LITRO DI GAS ASFISSIANTE?? davvero Topolino? Quello che l’Italia non ha ammesso per decenni, l’uso dei gas nella guerra in Etiopia, è candidamente svelato in una crudelissima canzone per bambini.

Topolino è fomentato. Vuole menare le mani. Vuole uccidere. Vuole imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Topolino dichiara che “appena vedo il negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il negus non gli basta a Topolino. Lui vuole massacrare tutti. Ed ha un motivo ben preciso che spiega ai suoi comandanti: “ho molto premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma la mamma di Topolino non è l’unica ad avere necessità di pelli. Topolino infatti aggiunge: “a mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “me la vedrò da solo con quei cioccolatini”.

E purtroppo l’ha fatto.

Giovanni Tizian, L'Espresso
9 gennaio 2014

Con la crisi che ha impoverito la piccola borghesia creando sacche di insofferenza diffusa, i manipoli neri del nuovo millennio escono dalle catacombe e sognano la riscossa elettorale. Cavalcando lo spettro populista che oggi si aggira in tutta Europa.

Se rischiamo di perdere la Memoria

  • Venerdì, 20 Dicembre 2013 12:40 ,
  • Pubblicato in Flash news

MicroMega
20 12 2013

Può chiudere i battenti, per mancanza di fondi, il Museo storico della Liberazione di via Tasso a Roma. Negli anni preso di mira dai neofascisti. Si chiedono soldi al ministero dell’Istruzione per il 2014, intanto è partita la campagna di azionariato popolare e organizzata una serata di finanziamento il prossimo 21 dicembre.

Rischia la chiusura. Per mancanza di fondi. Eppure è un patrimonio politico, storico e culturale per la nostra Memoria. Quasi 15mila visite solo nel 2013, tra cui moltissimi studenti. “Siamo in attesa che arrivino i soldi dal ministero dell’Istruzione, altrimenti sarà dura andare avanti”, è il grido d’allarme giunto dal Museo storico della Liberazione di Roma, a Via Tasso. Nel cuore della Capitale.

Istituito con la legge 227 del 14 aprile 1957, l’attuale stabile – di proprietà statale – venne utilizzato nei mesi dell’occupazione nazista di Roma (11 settembre 1943 – 4 giugno 1944) come carcere dal Comando della Polizia di sicurezza. Divenne tristemente famoso come luogo di reclusione e tortura da parte delle SS per oltre 2000 antifascisti, molti dei quali caddero poi fucilati a Forte Bravetta e alle Fosse Ardeatine.

Le celle di detenzione, che allora occupavano l’intero edificio mentre adesso soltanto due dei quattro appartamenti destinati a museo, sono ancora come furono lasciate dai tedeschi in fuga. Ora sono dedicate alla memoria di coloro che vi furono detenuti, e ricordano le più drammatiche e significative vicende nazionali e romane dell’occupazione.

Dal 1980 il Museo ha incrementato le attività arrivando al culmine dei 15mila visitatori di quest’anno. “L’80 per cento è composto da studenti – spiega il presidente Antonio Parisella – Abbiamo intensificato il lavoro con le scuole e i giovani vengono in gita o a consultare i nostri archivi storico-documentaristici. Negli ultimi tempi abbiamo avuto la presenza anche di turisti europei”.

Le iniziative promosse dal Museo – comunemente detto – di via Tasso sono moltissime e vanno oltre le ricorrenze del 25 aprile o del 27 gennaio. Di grande valore l’archivio storico, l’aula didattica e la biblioteca: documenti originali, cimeli, giornali e manifesti, volantini, scritti e materiali iconografici relativi all'occupazione nazifascista e alla lotta che valse alla città di Roma la medaglia d’oro al valor militare durante la Seconda guerra mondiale.

“La biblioteca – si legge sul sito del Museo – si è arricchita, nel tempo, anche di opere generali e particolari relative al fascismo, al nazismo, all’antifascismo del ventennio, alla Resistenza in Italia e in Europa, all’antisemitismo, alla deportazione, all’internamento e al lavoro coatto. Nella fase più recente, nell’ambito del Museo sono state realizzate diverse iniziative di ricerca storico-documentaria volte ad arricchire la documentazione e ad ampliare le conoscenze. Inoltre, il Museo ha avviato contatti in Italia ed in Europa per collegarsi con analoghe istituzioni e luoghi di memoria”.

Per tale prezioso lavoro, negli anni lo stabile è stato preso di mira da gruppi di neofascisti: nella notte tra il 22 e il 23 novembre 1999 fu oggetto di un attentato esplosivo di natura antisemita. Recentemente è stato invece “sporcato” con le scritte ingiuriose "Olocausto propaganda sionista" e "27/01: ho perso la memoria". Accanto, una croce celtica.

A mettere in pericolo la sopravvivenza dello stabile di Via Tasso, più che i neofascisti, è la mannaia sui fondi. Il mese scorso si è rischiato il commissariamento per l’impossibilità di chiudere i bilanci del 2013. Dopo una forte mobilitazione, sono giunti i finanziamenti della Regione Lazio, 25mila euro, e del Comune, 10mila. La vicenda è arrivata in Parlamento con un’interrogazione parlamentare del deputato Pd Emanuele Fiano al Ministro dei beni culturali e al Ministro dell’Economia.

Anche Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, non ha fatto mancare il suo sostegno. “Il Museo della Liberazione di via Tasso – dichiarava in una nota il 5 dicembre – è un patrimonio di tutti quei cittadini che si riconoscono nei valori della libertà, della democrazia e dell’antifascismo. Un luogo e una realtà che siamo tutti chiamati a tutelare per far sì che, attraverso le generazioni, viva il ricordo dei crimini del regime ma soprattutto il coraggio e l’eroismo di chi, a rischio della propria vita, strenuamente vi si oppose”.

Chiuso il bilancio del 2013 e superata la paura del commissariamento, il problema si è spostato sul 2014. I soldi non ci sono. “Il personale è volontario ma non abbiamo le risorse per la spese di funzionamento come luce, condominio, pulizie, manutenzioni, riscaldamento” afferma Parisella. Al Museo servirebbero 30-40mila euro. Dal ministero dell’Istruzione si conferma la volontà di stanziare i fondi: resta il dilemma della legge di Stabilità e dei forti tagli subiti dal dicastero di viale Trastevere. “Ridiscuteremo i finanziamenti a gennaio” fanno sapere. Nessuna certezza, né tempi.

Intanto è stato lanciato un progetto di azionariato popolare per salvare il Museo con cui già sono stati raccolti 6mila euro. Lo storico Sandro Portelli ha pubblicizzato tale campagna scrivendo una lettera uscita su il manifesto: “In un'Italia che eleva coi soldi pubblici monumenti a Rodolfo Graziani, inetto massacratore fascista, l'emergenza di via Tasso dunque è una figura dell'emergenza generale. Aiutare questa straordinaria istituzione a superare anche questa emergenza, e magari cercare di metterla al sicuro da emergenze future, è compito imprescindibile di tutte le istituzioni, e richiamo immediato alla coscienza di tutti noi come cittadini”.

Proprio il 21 dicembre, una grande serata di finanziamento: “Libertango” una maratona di tango popolare, dalle 18 alle 6 del mattino, intervallata da spettacoli teatrali. Allo spazio autogestito Intifada, con la partecipazione di decine di artisti e la presenza dell’assessore alla Cultura di Roma, Flavia Barca. Mobilitazione per il Museo di via Tasso, un bene comune, e per la Memoria di tutti noi.

Giacomo Russo Spena

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