Ingenere
19 06 2013
"Le donne sono la prima linea della resistenza", si legge nel documento diffuso dal WWHR (Women for Women's Human Rights), a proposito della rivolta di Gezi Park. Le donne che partecipano sono tante, e sono in prima linea: una delle immagini simbolo della protesta in corso in Turchia ritrae una donna vestita di rosso, investita dagli idranti della polizia. Partendo dalla situazione e delle rivendicazioni che hanno scatenato le proteste (la conservazione di Gezi Park e le proteste di Taksim), il gruppo di femministe che fa capo al WWHR (uno dei 79 componenti della piattaforma di solidarietà per Taksim) ha diffuso un comunicato stampa, in cui chiede anche solidarietà a livello internazionale, e un governo davvero democratico basato sul rispetto della partecipazione, della pace e della libertà. Associazioni femministe e gruppi di donne denunciano i continui tentativi governativi di limitare i diritti delle donne a partire da quelli sessuali e riproduttivi per esempio con l'abolizione dell'aborto, che in Turchia è legale dal 1983 (fino alla decima settimana di gravidanza). Il gruppo Women for Women's Human Rights porta in piazza istanze di parità, definisce il governo Erdogan sessista, oltre che autoritario, denuncia i tentativi di limitare i diritti delle donne, e accusa il governo di sorvolare sul problema della violenza domestica e di proporre norme "morali" con cui imporre ad esempio alle ragazze regole di comportamento in pubblico. Ma si parla anche di lavoro, della continua discriminazione delle donne, incoraggiate a rimanere a fare figli o al massimo ad accettare lavori part time.
(Foto Reuters da Repubblica.it)
Femminismo a Sud
09 01 2013
In questo post vi propongo la lettura dell’articolo di Vandana Shiva: The Connection Between Global Economic Policy and Violence Against Women. Il testo tratta dei recenti stupri di gruppo in India. Vandana Shiva è un’ecofemminista indiana, nota soprattutto per la sua critica ai processi di globalizzazione, appare spesso come voce di riferimento per l’India. Nell’articolo fa risalire l’aumentata violenza degli ultimi tempi con l’avanzata capitalista. Se è difficilmente confutabile questa connessione, per chi non vive nella società indiana, e anzi ci sembra chiara la relazione tra violenza e capitalismo, appaiono però discutibili altri concetti espressi nell’articolo, quali principalmente: l’identificazione della donna con la terra e il richiamo ad un intervento autoritario in difesa della democrazia, quale forma di tutela delle donne come custodi della natura stessa.
Idee che rimandano a un tipo di femminismo essenzialista, in cui le differenze di genere sono il risultato di una specificità intrinseca del maschile e del femminile, una concezione che appare ormai in molti contesti chiaramente frutto di quello stesso patriarcato proprio del capitalismo. Per queste riflessioni vi rimando al post successivo, con le considerazioni che sono state espresse nel collettivo sull’articolo.
La mia traduzione è sicuramente imperfetta, per questo mi scuso in anticipo, le note e le parentesi sono mie. L’articolo originale si trova qui.
Vandana Shiva: la connessione tra politica economica globale e violenza contro le donne
La valorosa e coraggiosa vittima dello stupro di gruppo di Delhi ha esalato l’ultimo respiro il 30 dicembre 2012. Questo articolo è un omaggio a lei e alle altre vittime della violenza contro le donne.
La violenza contro le donne è antica quanto il patriarcato. Ma si è intensificata ed è diventata più pervasiva nel recente passato. Ha assunto forme più brutali, come quella che ha provocato la morte della ragazza vittima di stupro di gruppo a Delhi, e il suicidio della diciassettenne, anch’essa vittima di stupro a Chandigarh.
I casi di stupro e i casi di violenza contro le donne sono aumentati nel corso degli anni. Il National Crime Records Bureau (NCRB) ha riportato 10.068 casi di stupro nel 1990 che sono aumentati a 16.496 nel 2000. Con 24.206 casi nel 2011, i casi di stupro hanno subito un incredibile aumento del 873% dal 1971, quando NCRB ha iniziato a registrarli. E la città di New Delhi è emersa come la capitale dello stupro in India, con una percentuale del 25 % dei casi.
I contributi delle donne
In primo luogo, il modello economico incentrato in maniera miope sulla “crescita” comincia già con una violenza contro le donne, attraverso il disconoscimento del loro contributo all’economia.
Più il governo parla fino alla nausea di “crescita inclusiva”[1] e “inclusione finanziaria”[2], tanto più si esclude il contributo delle donne all’economia e alla società. Secondo modelli economici patriarcali, la produzione per il sostentamento viene valutata come “non-produzione. Così la trasformazione del valore in disvalore, il lavoro in non-lavoro, la conoscenza in non-conoscenza, è raggiunto attraverso la più potente cifra che regola le nostre vite, il costrutto patriarcale del PIL, prodotto interno lordo, che i commentatori hanno cominciato a chiamare il Problema Interno Lordo.
Il movimento per fermare questa violenza deve essere sostenuto finché giustizia sia fatta per ognuna delle nostre figlie e sorelle violate.
E mentre noi intensifichiamo la lotta per la giustizia verso le donne, dobbiamo chiederci anche perché i casi di stupro sono aumentati del 240% dagli anni Novanta, da quando le nuove politiche economiche sono state introdotte. Abbiamo bisogno di esaminare le radici della crescente violenza contro le donne.
Può esserci una connessione tra l’aumento del numero dei violenti, le imposizioni antidemocratiche, le ingiuste e inique politiche economiche e la crescita dei crimini contro le donne?
Credo ci sia.
I sistemi di contabilità economica nazionale utilizzati per il calcolo della crescita del PIL si basano sull’assunto che: se i produttori consumano ciò che essi stessi producono, allora non producono affatto, perché essi fuoriescono dalla frontiera delle possibilità produttive (o curva di trasformazione).
La frontiera delle possibilità produttive è una creazione politica che, nel suo funzionamento, esclude i cicli produttivi rigenerativi e rinnovabili dall’area di produzione stessa. Pertanto, tutte le donne che producono per le loro famiglie, i bambini, la comunità e la società sono trattate come “non produttive” e “economicamente” non attive. Quando le economie sono limitate al mercato, l’autosufficienza economica è percepita come carenza economica. La svalutazione del lavoro delle donne e del lavoro svolto in economie di sussistenza nel Sud del mondo, è l’esito naturale della frontiera delle possibilità produttive costruita dal patriarcato capitalista.
Limitandoci ai valori dell’economia di mercato, come viene definita dal patriarcato capitalista, la frontiera delle possibilità produttive ignora il valore economico nelle due economie vitali necessarie alla sopravvivenza umana ed ecologica. Sono i settori dell’Economia della natura[3] e dell’Economia di sostentamento. Nell’Economia della natura e nell’Economia di sostentamento (o di sussistenza), il valore economico è la misura di come la vita della terra e la vita umana vengono protetti. La sua moneta sono i processi vitali, non il denaro o il prezzo del mercato.
In secondo luogo, un modello di patriarcato capitalista che esclude il lavoro delle donne e la creazione di ricchezza mentale, aggrava la violenza attraverso la rimozione delle donne dai loro mezzi di sussistenza e alienandole dalle risorse naturali, dalle quali dipende la loro sopravvivenza – la loro terra, le loro foreste, la loro acqua, i loro semi e la biodiversità. Le riforme economiche basate sul concetto di crescita illimitata, in un mondo limitato, possono essere mantenute solo dai potenti, arraffando le risorse dei più deboli. Arraffare le risorse è essenziale per la “crescita”, crea una cultura dello stupro – lo stupro della terra, delle economie locali autosufficienti, lo stupro delle donne. L’unico modo in cui questa “crescita” può essere “inclusiva” è attraverso l’inclusione di un numero sempre maggiore di soggetti nel circolo della violenza.
Ho più volte sottolineato che lo stupro della Terra e lo stupro delle donne sono intimamente legati, sia metaforicamente nel plasmare visioni del mondo, sia materialmente nel plasmare la vita quotidiana delle donne stesse. L‘ aggravamento della vulnerabilità economica delle donne le rende più vulnerabili a tutte le forme di violenza, inclusa la violenza sessuale, come abbiamo scoperto nel corso di una serie di incontri pubblici sull’impatto delle riforme economiche sulle donne, organizzata dalla National Commission on Women e la Research Foundation for Science, Technology and Ecology.
Sovversione dell’ordine democratico
In terzo luogo, le riforme economiche portano alla sovversione dell’ordine democratico e alla privatizzazione delle amministrazioni. I sistemi economici influenzano i sistemi politici. Il governo parla di riforme economiche, come se nulla avessero a che fare con la politica e il potere. Si parla di tenere la politica fuori dall’economia, anche quando si impone un modello economico plasmato dalla politica di un particolare genere e di una particolare classe. Le riforme neoliberiste complottano contro la democrazia. Lo abbiamo visto recentemente con le amministrazioni che spingono per delle ‘riforme’ che permettano investimenti esteri diretti nella vendita al dettaglio attraverso i Walmart
Le riforme delle Corporate-driven creano una convergenza o potere economico e politico, l’aggravamento delle disuguaglianze e un crescente allontanamento della classe politica dalla volontà delle persone, che essi sono chiamati a rappresentare. Questo è alla base di quella disconnessione, tra politici e persone, che abbiamo sperimentato durante le proteste sorte da quando c’è stato lo stupro di gruppo a Delhi.
“Una economia di mercificazione crea una cultura della mercificazione, dove tutto ha un prezzo e niente ha valore.”
Peggio ancora, una classe politica alienata ha paura dei propri cittadini. Questo spiega il crescente utilizzo di forze di polizia per schiacciare le proteste non-violente dei cittadini come abbiamo visto a New Delhi. O nella tortura di Soni Sori a Bastar. Oppure, con l’arresto del Dayamani Barla a Jharkhand. O le migliaia di casi contro le comunità che lottano contro la centrale nucleare di Kudankulam. Uno Stato-Azienza privata, rapidamente diventa uno stato di polizia.
È per questo che i politici devono circondarsi di sempre maggiore security , deviando la polizia dalle loro funzioni importanti per proteggere le donne e i semplici cittadini.
In quarto luogo, il modello economico plasmato dal patriarcato capitalista si basa sulla mercificazione di ogni cosa, comprese le donne. Quando ci siamo fermate alla Conferenza Ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Seattle, il nostro slogan era “Il nostro mondo non è in vendita”.
Un'economia di deregolamentazione del commercio, di privatizzazione e mercificazione di semi e prodotti alimentari, terra e acqua, donne e bambini scatenate dalla liberalizzazione economica, degrada i valori sociali, aggrava il peso del patriarcato e intensifica la violenza contro le donne.
I sistemi economici influenzano i valori della cultura e sociale. Una economia di mercificazione crea una cultura della mercificazione, dove tutto ha un prezzo e niente ha valore.
La crescente cultura dello stupro è una ricaduta sociale delle riforme economiche. Abbiamo bisogno di istituzionalizzare controlli sociali delle politiche neo-liberiste, che sono uno strumento centrale del patriarcato nei nostri tempi. Se ci fosse un controllo sociale delle aziende nel nostro settore delle sementi, 270.000 agricoltori non sarebbe stati spinti al suicidio in India, da quando le nuove politiche economiche sono state introdotte. Se ci fosse un controllo sociale della privatizzazione del nostro cibo e dell’agricoltura, non avremmo un indiano su quattro alla fame, una donna su tre malnutrita e un bambino su due sciupato e rachitico a causa della grave malnutrizione. L’India oggi non sarebbe quella Repubblica della fame di cui il dottor Utsa Patnaik ha scritto.
La vittima dello stupro di gruppo a Delhi ha innescato una rivoluzione sociale. Dobbiamo sostenerla, intensificarla, espanderla. Dobbiamo chiedere e ottenere giustizia rapida ed efficace per le donne. Dobbiamo chiedere processi veloci per condannare i responsabili dei crimini contro le donne. Dobbiamo fare in modo che le leggi vengano modificate in modo che la giustizia non sia ambigua per le vittime di violenza sessuale. Dobbiamo continuare a chiedere la lista nera dei politici con precedenti penali.
E mentre facciamo tutto questo, abbiamo bisogno di cambiare il paradigma dominante che ci è imposto in nome della “crescita” e che sta incrementando i crimini contro le donne. Porre fine alla violenza contro le donne comprende l’andare oltre l’economia violenta plasmata dal patriarcato capitalista verso economie pacifiche e non-violente, che rispettino le donne e la Terra.
Vandana Shiva è una fisica, ecofemminista, filosofa, attivista e autrice di più di 20 libri e 500 articoli di giornale. E’ la fondatrice della Research Foundation for Science, Technology and Ecology, e ha promosso una campagna per la biodiversità, la conservazione e i diritti degli agricoltori – vincendo il Right Livelihood Award (Premio Nobel Alternativo) nel 1993.
[1] Per crescita inclusiva, generalmente, si intende la parità di accesso al mercato per tutti i soggetti che, quindi, partecipando al mercato del lavoro parteciperebbero anche ai guadagni.
[2] Per inclusione bancaria, generalmente, si intendono tutte quelle attività bancarie che permettono ai soggetti, non ancora sviluppati economicamente, di entrare, attraverso servizi elementari, nel sistema finanziario con crediti, risparmi, fondi, accoglienza in sede.
[3] Nel concetto di Economia della natura, generalmente, si intende l’interdipendenza di tutti gli elementi in un sistema complesso interagente.
La Stampa
04 01 2013
La denuncia del movimento che non riesce a tenere attiva la pagina su Facebook per colpa degli stalker informatici.
Il social network prende provvedimenti contro due pagine sessiste.
LAURA PREITE
ROMA
«Quello che meno sopportano i nostri avversari, è che non solo siamo giovani ragazze emancipate, ma anche che siamo intelligenti prima di essere carine». Le Femen italiane, federate al movimento femminista ucraino famoso per le proteste a seno nudo, in un sfogo sul loro sito scrivono tutta la rabbia e frustrazione dopo che la pagina che avevano creato su Facebook il 16 ottobre 2011 e che aveva quasi 5 mila likes è stata oscurata. La decisione è stata presa dalle stesse amministratrici dopo l’ultimatum della piattaforma che l’avrebbe altrimenti cancellata. Il motivo? Le troppe segnalazioni da parte di utenti che trovavano i contenuti della pagina offensivi. Questa è una pratica diffusa sulla piattaforma social più famosa al mondo, in particolare per i gruppi femministi. Un miliardo di utenti attivi al mese (secondo dati della società dello scorso ottobre), che si regola su un sistema automatico di segnalazioni.
No ai nudi, nemmeno a fumetti
Giulia ha poco più di vent’anni, fa parte di Femen. Ha tanta grinta e una militanza che non nasce in rete, ma che nella rete vorrebbe trovare forza: «Avevamo due pagine, un gruppo nostro interno di coordinamento e la pagina Femen Italia a cui tutti potevano aderire per essere aggiornati. Avevamo scelto come logo, Valentina (il fumetto inventato da Guido Crepax, ndr) con poi il nostro logo, i due cerchi e le bandiere. Inizialmente pensavamo che era una questione di copyright e invece, Facebook l’ha bloccata dicendo che non era adeguata». La foto ritraeva il fumetto Valentina, con il seno scoperto, un disegno che però viola la policy sui “diritti e doveri degli utenti” che prevede che non ci sia nudo, non importa se si tratta solo di un disegno.
«Avevamo fatto un flashmob online – continua Giulia- chiedendo a tutti quelli che lo volevano di denudarsi e scrivere un messaggio, stando attente ovviamente che i capezzoli non fossero visibili». Infatti, Facebook ha adottato nei confronti delle colleghe ucraine la politica di oscurare o cancellare i capezzoli. Questo doveva bastare a non censurare le foto: «Facebook ha detto che i capezzoli erano comunque in evidenza e andavano rimossi. Qualche tempo dopo le foto sono state tutte rimosse senza dare spiegazioni. In più alle ragazze che avevano postato le foto gli account personali sono stati bloccati. Poi riattivati e bloccati nuovamente».
La procedura prevede che le comunicazioni tra utenti e amministratori della piattaforma passino attraverso messaggi automatici, non si ha un interlocutore fisico, ed è questo l’aspetto più frustrante per chi come Femen usa Facebook per farsi conoscere ed allargare il proprio consenso: «La denuncia è anonima, nel messaggio c’è scritto che il contenuto non rispetta lo spirito di Facebook e deve essere rimosso. Stiamo cercando di mettere delle toppe, ma non ci spieghiamo come alcuni contenuti siano stati rimossi. Avevamo scritto “l’80% delle donne subiscono violenza domestica”, ed è stato anch’esso rimosso. Anche quando si pubblicano articoli anti clericali o contro il patriarcato vengono cancellati, se non succede niente vuol dire che non ha suscitato interesse ».
“Vieni bloccato e non puoi fare nulla, è frustrante”
Le ragazze, Giulia di Milano e Mary, una studentessa che vive a Roma, hanno scritto alla piattaforma per avere una risposta ma non è arrivata: «È frustrante, vieni bloccato e non ti puoi difendere. Ben venga che qualcuno ci critichi, ma se non possiamo sollevare più nessun dibattito?» conclude Giulia. Le fa eco Mary, che ha una certa esperienza di attacchi online, cyberstalking, perché ha collaborato alle pagine internazionali del movimento: «I blocchi sono graduali. Quando Facebook raggiunge un limite di segnalazioni, scatta la prima sanzione, 24 ore di blocco, oppure la sospensione della chat o dei contenuti». Dopo un periodo il suo account è stato riattivato «ma non è che non ho più problemi, da quando vieni bloccata la soglia di tolleranza è più bassa, basta una segnalazione a fermare il profilo». Gli stessi problemi li ha avuti anche sulla pagina italiana del movimento Slutwalk (la marcia delle prostitute) di cui è amministratrice.
Senza uno strumento come Facebook per far conoscere le proprie idee, le Femen si sentono le mani legate: «Non abbiamo ancora manifestato e già ci segnalano. Spesso i giornalisti in tv, non prendono sul serio il movimento, figuriamoci se prendono sul serio noi, che ancora non ci conosce nessuno. Magari cambieremo mezzo, creeremo una mailing list, ma Facebook ti dà una visibilità che nemmeno i giornali riescono a darti».
Quello che denunciano le Femen è anche la permanenza sul social network di pagine con migliaia di followers che postano contenuti pornografici (con capezzoli e parti intime oscurati), violenti, maschilisti ma a cui non succede niente: «Da qui si deduce che la segnalazione sui nostri contenuti non viene fatta da qualcuno che si sente offeso ma da qualcuno che ha un secondo fine, un intento specifico» commenta Mary.
Diversi siti femministi clonati
La censura e il cyberstalking è un comportamento che in rete subiscono un po’ tutti i gruppi femministi che si professano apertamente tali. Sono diversi i siti, da quello dei centri antiviolenza, al Corpo delle donne di Lorella Zanardo che sono stati clonati, con indirizzi simili acquistati con il solo scopo di dirottare gli utenti su siti “non genuini”. E i messaggi hanno tutti lo stesso tono, quello della calunnia: “ci vogliono tutti sottomessi, le nazifemministe, le donne che violentano i bambini”, come racconta una femminista attivissima in rete, ma ora solo con profili anonimi dopo le minacce anche fisiche ricevute: «Ti mangiano, sono degli squali, i loro commenti sono distruttivi. Il loro intento è farsi pubblicare, avere visibilità, quando l’ho capito non li ho più pubblicati. Ora ho due blog, ma lì (i cyberstalker, ndr) non sono mai venuti, sanno che io non farei mai passare un loro commento ». «È fondamentale che in rete ci sia una pluralità di idee – conclude - ma voglio che tutti abbiano i loro spazi. Su Facebook mi sono accorta che riuscire a fare passare queste idee è difficilissimo».
E si ritorna sul social network più utilizzato al mondo (in Italia conta 22 milioni di utenti registrati dati aggiornati ad ottobre) dove c’è un ulteriore problema, quello delle pagine clonate. Per esempio esiste (o meglio esisteva, perché attualmente risulta chiusa dopo la nostra segnalazione) una pagina con 800 mila followers dal titolo “No alla violenza sulle donne” che aveva contenuti di tenore opposto, che era riuscita a soppiantare una genuina e più vecchia con lo stesso nome dell’associazione Nuovi orizzonti di Torino. Poi, ci sono le minacce recapitate come messaggi privati. Gli utenti si possono bloccare, ma la paura rimane.
Da Facebook: nessun problema con la difesa dei diritti delle donne
Da Londra, con cui abbiamo comunicato solo via mail tramite l’ufficio stampa italiano del social network, ci rassicurano sul fatto che le segnalazioni, vengono sempre vagliate da un ufficio multilingue con sede a Dublino. Inoltre, non è ancora attivo in Italia ma all’estero già funziona un “dashboard” di supporto che consente di seguire il percorso delle proprie segnalazioni, questo per rendere più trasparente la procedura. Facebook tiene anche a precisare che non ha nessun problema con contenuti femministi o che supportano i diritti delle donne. In generale le opinioni, anche se discutibili, non violano le regole del sito, a meno di azioni specifiche come l’istigazione all’odio con un bersaglio preciso, la nudità e azioni contro un determinato individuo (che non sia un personaggio pubblico). Nel frattempo, dopo la raccolta di informazioni per questo articolo, e i contatti con Facebook, diverse cose sono successe, tra cui l’oscuramento (non sappiamo se definitivo) della pagina con 800 mila followers “No alla violenza sulle donne” e la modifica della denominazione in “Umorismo dal contenuto controverso”, di un’altra pagina violentemente misogina. Le Femen invece, attendono ancora di sapere se potranno un giorno riattivare tranquillamente il proprio account.