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Gay.it
13 01 2015

«Non parlare con me. Se parli con me la gente penserà che sono frocio». Questa è stata una delle frasi che, quando ero adolescente, mi sono sentito dire più volte in classe, nei corridoi, nei bagni della mia scuola. A volte ciò succedeva di fronte gli insegnanti stessi, che si limitavano a invitare al silenzio. A volte imbarazzati, incapaci di reagire e di dire l’unica cosa possibile. Ciò mi umiliava due volte, come essere umano e come studente. E la mia vita è andava avanti così per diversi anni, fino a quando le cose si sono normalizzate. Ho fatto coming out e quel corredo di insulti e di parole acuminate si è dissolto nel nulla. La gente ha paura delle cose che addita come sbagliate e quando queste si palesano con un volto, un nome e il coraggio di dire «sì, è così. E allora?» certe persone scappano via. Come sempre succede ai codardi. Ma questa è, appunto, una storia vecchia. Almeno per quello che mi riguarda.

bullismo scuolaQualche anno fa insegnavo in una scuola di un quartiere popolare di Roma, fuori raccordo. Una scuola ritenuta difficile. Moltissimi migranti, bambini/e i cui genitori si alzano alle quattro e tornano a casa col buio. Persone umili e oneste, ma a causa delle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti, spesso assenti. Quei bambini e quelle bambine, in non pochi casi, sono lasciati a loro stessi e lo vedi dai loro volti, dal loro sguardo, quanta rabbia può fare vivere in un mondo che ti descrive come corpo estraneo, ostile, e ti tratta come un reietto. In quella scuola qualcuno ebbe la brillante idea di fare un profilo falso su Facebook con il mio nome, intervallato da un bell’insulto a sfondo omofobico. “Dario er frocio Accolla” mi chiese l’amicizia. Sprofondai in un malessere che pensavo di aver archiviato più di venti anni prima, ma evidentemente certe ferite erano ancora lì, per quanto piccole o lontane. Il sostegno di colleghi e colleghe e delle mie classi stesse mi diede il coraggio necessario. Una volta un bulletto di un metro e novanta, quasi sedicenne, venne perché voleva picchiarmi, a sentir lui. Perché ero frocio. Mi vide da lontano e mi raggiunse. Una mia allieva, nigeriana e bellissima, si frappose tra noi. «Embè? Qualche problema?» e il tipo scappò via. Come sempre succede ai codardi, appunto.

L’altro pomeriggio, durante l’ultima ora di lezione, un mio alunno mi ha detto che i suoi compagni di classe lo insultano dandogli del “gay”. Capirete da soli le ragioni per cui ho fatto coming out…
«Non c’è niente di male, ad essere gay» gli ho detto.

«Ok, ma a me dà fastidio!»
«E allora impareremo due cose» ho detto alla mia classe «la prima è che non si dice “gay” per insultare nessuno e la seconda è che se dite questo potreste offendere anche altre persone. Magari avete un prof omosessuale e non lo sapete. Oppure lo sapete, e fate finta di nulla…».
E quando i loro occhi si sono cercati, forse vedendosi scoperti, ho sorriso e sono andato avanti con le mie parole.
«Ho già detto che usare la parola “ebreo” come offesa non fa male solo a chi la subisce, ma a tutte le persone che sono ebree. Ebbene usare “gay” come parolaccia, non dà fastidio solo al vostro compagno, ma rischia di offendere anche me».
Ne è seguita una discussione sul rispetto reciproco, sulla pacifica convivenza e per premiarli ho mandato tutti e tutte a giocare in giardino qualche minuto prima.

Quanto accaduto quel pomeriggio, nella mia aula, è una tappa di un percorso lungo, che si sovrappone a una vita intera. Credo sia un atto di onestà intellettuale dare un nome alla propria identità, soprattutto di fronte a casi di discriminazione, in un contesto così delicato come quello scolastico. Fare coming out ci rende forti, aiuta ad incontrarsi, a capire che il mostro descritto da chi ne ha paura e scappa via quando lo vede, è solo un essere umano. Forse è per questo che i soliti noti non vogliono che se ne parli a scuola: per non essere scoperti di fronte alla loro vigliaccheria.

Ai miei tempi mi avrebbe fatto piacere che un prof avesse detto ai miei compagni quel «non c’è nulla di male nell’essere gay, non ha senso usare quella parola come insulto». Quel pomeriggio, un po’ grigio e un po’ gelido, ho sanato quella ferita fatta al bambino che ero trent’anni fa. E, lo credo davvero, non solo a lui.

Le persone e la dignità
12 01 2015

La Russia ha vietato alle persone affette da un disordine della personalità o dell’identità di genere come transessuali e transgender di guidare, in quanto considerate affette da disturbi mentali che li rendono più a rischio di incidenti stradali. Sulla lista delle categorie che non potranno portare l’aiuto anche esibizionisti, feticisti, voyeur, giocatori compulsivi e cleptomani. Il provvedimento è stato emanato il 29 dicembre dal premier Dmitri Medvedev.

Gli psichiatri e gli avvocati per i diritti umani russi hanno condannato la decisione del governo definendola discriminatoria, convinti che, fra l’altro, le persone potrebbero rinunciare a cercare un aiuto psichiatrico per paura di perdere la propria licenza di guida. Ma l’associazione dei conducenti professionisti sostiene invece la mossa. Il capo del gruppo Alexander Kotov ha detto: «Abbiamo troppe morti sulla strada, e credo che rafforzare i requisiti medici sia pienamente giustificato”.

Dopo l’adozione nel 2013 di una controversa legge federale che vieta la “propaganda” dell’omosessualità tra i minori – di fatto rendendo impossibile qualunque manifestazione in difesa dei diritti dei gay – la Russia di Vladimir Putin sembra insomma aver estratto dal cilindro un ennesimo provvedimento che riflette l’intolleranza delle autorità di Mosca nei confronti delle minoranze sessuali. E persino un membro del Consiglio per i diritti umani del Cremlino, Ielena Masiuk, non nasconde di non vedere nessuna ragione per vietare a “feticisti, cleptomani o transessuali” di guidare l’auto. “Penso – ha precisato – che si tratti di una violazione dei diritti dei cittadini russi”.
Anche l’associazione dei giuristi russi per i diritti dell’uomo si è scagliata contro il decreto definendolo anticostituzionale, e Maria Bast – una legale dell’organizzazione moscovita e lei stessa transessuale – ha denunciato che questo provvedimento “discriminatorio” potrebbe indurre molte persone che si trovano nelle condizioni indicate dal decreto a evitare di ricorrere a un aiuto medico per paura di vedersi ritirare la patente di guida. Dura infine anche la reazione del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, che ha bollato il provvedimento come “ridicolo e illegale” chiedendo a Mosca di modificarlo “immediatamente”.

Bimbo nato da due mamme, legale anche in Italia

  • Mercoledì, 07 Gennaio 2015 14:20 ,
  • Pubblicato in Flash news

UNAR
07 01 2015

La Corte d’Appello di Torino ha ordinato la trascrizione del certificato di nascita di un bambino nato da due donne in Spagna. Una “storica decisione” la definisce il portale di studi giuridicisulla famiglia e l’identità di genere Articolo29.it che commenta oggi la notizia: “Nella specie una donna italiana ed una spagnola avevano avuto un bambino a Barcellona: la donna italiana aveva trasferito il proprio ovulo alla spagnola che, dopo fecondazione con seme proveniente da un donatore, aveva portato a termine la gravidanza. La Corte ha sancito che il bambino, dunque, è figlio di due madri anche per la legge italiana.

Si tratta del primo caso per il nostro Paese: in agosto il Tribunale per i minori di Roma aveva consentito ad una co-madre di adottare il figlio della compagna, oggi vi è un passo avanti col riconoscimento della doppia maternità sin dalla nascita. La Corte ha ribaltato la decisione del tribunale di primo grado che aveva ritenuto la contrarietà della trascrizione all’ordine pubblico, poiché ha ritenuto che nella specie vi è il preminente interesse del minore a mantenere uno stabile rapporto con entrambe le madri. L’interesse del bambino deve essere riconosciuto a maggior ragione tenuto conto che le due donne, sposate in Spagna, sono attualmente divorziate e che senza la trascrizione dell’atto di nascita il bambino, affidato dal Tribunale di Barcellona ad entrambe le madri,non sarebbe italiano e non potrebbe venire in Italia con la mamma italiana”.

Corriere della Sera
23 12 2014

La Fda proporrà di cancellare il divieto totale, ma l'aspirante donatore non dovrà aver avuto rapporti sessuali per 12 mesi

di Redazione Online

Negli Stati Uniti la Food and Drug Administration (Fda), massima autorità statunitense in prodotti alimentari e farmaceutici, raccomanderà di porre fine al divieto a vita imposto a uomini omosessuali e bisessuali di donare il sangue. Ma soltanto se saranno stati casti per un anno.

I primi anni dell'Aids
La politica con restrizione assoluta è in vigore da 31 anni, sull'onda dell'allarme per l'Aids: un maschio che, dal 1977 a oggi, abbia avuto rapporti omosessuali è escluso dalla donazione. Da tempo molti gruppi medici e attivisti per i diritti degli omosessuali sottolineano come, vista la celerità e l'affidabilità dei test, non sia più giustificata. La Fda aveva emanato quella norma per i gruppi statisticamente più esposti all'immunodeficienza: oltre ai maschi omosessuali, le prostitute e i tossicodipendenti che fanno uso di droghe per via endovenosa.

La castità forzata e la legge italiana
Adesso il divieto assoluto verrebbe sostituito con una nuova politica che però impedirebbe comunque le donazioni a uomini che abbiano avuto rapporti sessuali con altri uomini negli ultimi 12 mesi. La nuova regolamentazione porterebbe gli Stati Uniti al passo con altri Paesi tra i quali l'Australia, il Giappone e il Regno Unito (mentre in Italia, più genericamente, viene escluso temporaneamente dalle donazioni chiunque - uomo o donna - abbia avuto, negli ultimi 4 mesi, un rapporto a rischio), ma non soddisfa ancora pienamente le ong come l'American Civil Liberties Union, che ritiene che la norma impedisca «agli uomini che formano una coppia solida e con comportamenti sessuali monogami, di donare il sangue. Questa proposta non riconosce la differenza tra pratiche sessuali ad alto rischio e sesso protetto», e che sottolinea come il richiedere un anno di castità a un uomo omosessuale prima di una donazione non rappresenti, quindi, un cambiamento di politica significativo.

Tempistiche da definire
La proposta per il cambio delle linee guida era atteso per inizio dicembre, ma ora dovrebbe arrivare a inizio 2015. Il vice direttore dell'Fda Peter Marks non ha fornito una tempistica per il completamento del processo ma ha affermato: «Ci impegniamo a lavorare il più velocemente possibile su questo argomento».

Corriere della Sera
22 12 2014

Una commedia che insegna, tra lacrime e risate, che l'unione fa la forza

di Stefania Ulivi

Nelle nostre sale è arrivato sull’onda della nomination ai Golden Globes come miglior commedia. Non era difficile prevedere, dopo la proiezione a Cannes e la standing ovation condita da applausi, lacrime e risate, la marcia trionfale di Pride di Matthew Warchus. Ovunque successi. Anche da noi le reazioni sono in linea. Nella prima settimana di programmazione la media per copia è stata altissima, 5.850 euro, superando la corazzata AG & G e il distributore italiano, Teodora, ha deciso di triplicare le copie in sala. «Ovunque troviamo lo stesso entusiasmo» ci ha confermato nella videointervista che trovate qui sopra Andrew Scott, interprete di uno dei personaggi chiave, Gethin, gestore della libreria gay londinese che è il quartier generale del gruppo LGSM (Lesbians and Gay Support the Miners) che va in sostegno ai minatori di un paesino del Galles, non troppo distante dal suo amato/odiato paese natale. La vicenda, com’è noto, è vera, seppur incredibile. Nell’estate 1984, in piena era Thatcher, mentre i minatori sono impegnati in uno sciopero fino alle estreme conseguenze, un gruppo di attivisti gay decide di raccogliere fondi in loro favore. Innescando una catena di effetti imprevedibili.

Lo sceneggiatore Beresford confessa che i suoi connazionali lo hanno stupito. «Nei cinema in Gran Bretagna la gente applaude a scena aperta, ride, si commuove. Eppure noi non siamo sanguigni come voi italiani, siamo un popolo anemico…». Tutti si dicono convinti che il segreto del successo sia il bisogno di solidarietà sempre più diffuso. «Non è un film per gay, o per persone impegnate politicamente. È per tutti, non siamo così diversi come vogliono farci credere», dice Andrew Scott. E Beresford rilancia: «La riposta in un momento di crisi come questo è la solidarietà, trovare un terreno comune che unisca, non divida».

Ma la ragione del successo di Pride sta soprattutto nel tono leggero e profondo con cui tutto questo viene raccontato. Una commedia sentimentale che insegna, tra lacrime e risate, che l’unione fa la forza. Per questo fa sorridere scoprire che in Usa la censura abbia deciso di vietarlo ai minori di 17 anni. Ancor più paradossale scoprire che lo abbia fatto in riferimento a due scene. Una, esilarante, in cui Imelda Staunton e le altre signore gallesi in là con l’età ospiti di uno degli attivisti gay passano in rassegna, ridendo fino alle lacrime, riviste porno e allegri sex toys. Nell’altra si intravedono un paio di frequentatori di un locale in lattice abbigliati. Inutile osservare che in tv o in rete qualunque adolescente può trovare, senza neanche fare la fatica di entrare in un cinema, scene assai più ardite e, certo, meno spiritose.

L’impressione, purtroppo, è che l’unica motivazione sia che i protagonisti di Pride sono gay.

Eppure se l’avessero guardato senza paraocchi, i signori della censura Usa dovrebbero ammettere che è un film per famiglie (provato per voi: visto insieme a figlio quindicenne con gioia e allegria reciproca, scusate se è poco. Gli è piaciuto cisì tanto che ci è tornato con gli amici) popolato di personaggi fantastici: uomini e donne, etero e gay, giovani e vecchi, estroversi e malmostosi, timidi e sfacciati, arditi e fifoni, ballerini provetti e repressi imbranati. Gente agli antipodi che, come spesso accade nella reatà, poteva non incontrasi mai e che, invece, proprio incontrandosi ha fatto la storia. (All’insegna della mescolanza anche le ottime scelte musicali con Billy Bragg e Pete Seeger che incrociano Bronsky Beat, Queen e Culture Club).

Un film animato, tra l’altro, anche da personaggi femminili sublimi. Le indomite anziane gallesi citate prima. La giovanissima Steph, la lesbica più tenera e simpatica vista al cinema. La casalinga che deve arrendersi all’evidenza: molti dei maschi per cui prepara i pasti sono mammolette al suo confronto (si prenderà una laurea e finirà in parlamento, cronaca vera ad altre latitudini). La madre, che seppur con sedici anni di ritardo, lascerà che la paura non la tenga più lontana dal figli omosessuale.

Il regista, Matthew Warchus (che ha da poco sostituito Kevin Spacey alla guida dell’Old Vic), dice che è una storia d’amore. Ha ragione. Lasciate che i ragazzini vedano Pride. Poi raccontateci com’è andata.

 

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