Giampiero Finocchiaro, Il Messaggero
Una riflessione sull'ennesima polemica, innescata stavolta dal tema dell'educazione gender, va fatta. Chi lavora come educatore nella scuola ha il dovere di prendere una posizione ragionata piuttosto che schierarsi per motivi di contrapposizione ideologica. ...
Il Fatto Quotidiano
23 09 2015
Ebbene sì, mi avete scoperto. Io sono una delle streghe che diffonde il Gender. A parte riunirci in notturna per un Sabba, sacrificando fanciulli sull’altare dedicato al diavolo, poi ho da confidarvi qual è il curriculum di una come me.
Le streghe del Gender insegnano a figli e figlie a pretendere l’uguaglianza in ogni campo. So che è un’indecenza ma dovrete perdonarmi se, inizialmente, oserò essere un po’ restia al pentimento di fronte alle vostre pacate ed equilibratissime accuse.
Per prima cosa non siamo rimaste stupite quando bimbi e bimbe, ciascun@ per proprio conto, hanno cominciato a curiosare all’altezza dei propri genitali. Non abbiamo pensato che si trattasse di una mostruosità, giacché la sessualità non ci sembrava elemento da censurare, e non abbiamo compreso che sarebbe stato meglio far vergognare e sentire molto in colpa, fino alla fine dei loro giorni, quelle creature. Non abbiamo mai censurato quei figli neanche quando hanno chiesto di giocare a fare il pistolero, essendo femmina, o la parrucchiera, essendo maschio.
Poi non ci siamo opposte alle loro richieste quando hanno dichiarato di voler intraprendere studi non adeguati – adesso lo capisco – al loro genere. Maschi che si realizzano studiando materie umanistiche e femmine che si laureano in ingegneria. Abbiamo perfino osato pagare la scuola guida per fare prendere la patente anche alle figlie femmine, e già, capisco che questo potrà sconvolgervi, anche se so che non è questa la più cattiva azione che abbiamo compiuto.
Abbiamo risposto con chiarezza alle domande dei nostri figli a proposito di sessualità. Non ci è sembrato scandaloso informarli sui metodi per evitare il contagio di malattie sessualmente trasmissibili o una gravidanza indesiderata. Pensate che qualcuna di noi ha perfino insegnato a figli e figlie come si srotola correttamente un preservativo senza romperlo. Chissà perché ma eravamo convinte che le corrette informazioni e la conoscenza fossero il principale strumento per saperli in grado di difendersi da soli.
Abbiamo sempre cresciuto i nostri figli senza pensare a una educazione divisa tra maschi e femmine. Non abbiamo inibito i maschi che lavano i piatti, puliscono la propria stanza e si fanno il bucato o le femmine che smanettano con motori e giochi d’ingegno, piccolo chimico, futuro da pilota di jet supersonici o da camionista, chi lo sa. Non ci è sembrato opportuno neppure trattarli malissimo, né da malati e né da depravati, quando ci hanno spiegato di preferire persone dello stesso sesso per farci l’amore.
Se un figlio ha sempre desiderato essere donna, siamo spiacenti ma, non siamo riuscite a gettarlo nell’immondizia o, peggio, a consegnarlo alle terapie curative di qualche prete tanto volenteroso. Ci siamo sempre dette che l’obiettivo era vedere figli e figlie felici, a prescindere da tutto. Abbiamo trattato figli maschi e figlie femmine allo stesso modo perché avevamo quest’idea malsana di voler dare a entrambi uguali possibilità e prospettive.
Abbiamo investito risorse per farli studiare. Abbiamo fatto sacrifici per farli proseguire. Abbiamo dimenticato quell’usanza per cui le femmine dovevano soltanto diventare donne da marito e gli uomini mariti responsabili delle donne. Non abbiamo insistito per vederli sposati e non abbiamo imposto alcun rito che non fosse a loro congeniale. Non abbiamo insistito neppure affinché diventassero genitori perché pensavamo – lo so, ora me ne vergogno – che per essere una “vera” donna non bisognasse fare figli e per essere un “vero” uomo non bisognasse dimostrare di avere lo spermatozoo più virile della contea.
Per sentirci supportate in queste nostre bieche intenzioni abbiamo chiesto alla scuola di essere all’altezza del proprio compito: basta col monopolio e la violenta colonizzazione culturale con libri in cui figlio, padre e madre, lui falegname, lei casalinga e il figlio che apprezza i sacrifici del genitore ma putacaso se ne frega di quelli della genitrice. Abbiamo preteso che si parlasse anche di molte religioni e non soltanto di una, perché abbiamo sperato, così facendo, che i nostri figli, a prescindere dalle convinzioni di ciascun@, fossero in grado di poter ricevere le informazioni adeguate così da poter scegliere.
Abbiamo preteso che non si discriminasse in base al sesso in nessun posto, sui banchi di scuola o nei posti di lavoro, abbiamo preteso che figli e figlie, con i propri partner, fossero pronti a condividere in tutto e per tutto il ruolo genitoriale. Non abbiamo sgridato una figlia perché osava leggere un quotidiano e non abbiamo sgridato un figlio perché non voleva avere nulla a che fare con gli eserciti e le guerre.
Pensate – ed è davvero imperdonabile – che abbiamo insistito affinché le figlie si sentissero importanti al di là del proprio aspetto fisico e i nostri figli ben oltre la lunghezza del loro pene. Abbiamo intrapreso con loro un cammino difficile, tra tante obiezioni e tanti saggi consigli. Avremmo dovuto smettere, lo so, ma più che altro ci premeva dare ai nostri figli e alle nostre figlie possibilità che forse alcune tra noi non hanno mai avuto. Quella di essere accettat* in ogni caso, di avere il diritto di opporci ai ruoli di genere a noi imposti sulla base di quel che avevamo in mezzo alle cosce.
È brutto – sapete? – essere giudicat* per il tuo sesso biologico e non per quel che rappresenti in tutta la tua straordinaria differenza, assieme alla libertà di scegliere il genere che ti senti addosso, perché pensavamo che differenza volesse dire “libertà”, “ricchezza” e non “lavaggio del cervello”. Figuratevi che abbiamo pensato che fossero antiabortisti, razzisti, omofobi e catto/integralisti a voler fare il lavaggio del cervello ai nostri figli e alle nostre figlie. Invece no, ce ne rendiamo conto, ora, dopo settimane di tortura, qui in presenza dei cortesi giudici dell’inquisizione, dobbiamo lasciare la mente dei fanciulli tanto sgombra da poter fare spazio alle verità che le vostre solennità vorranno loro imporre.
Ps: quando vorrete espormi in pubblica piazza per mostrare al mondo quale mostruosità abbia generato il “Gender” abbiate cura di imbruttirmi e tenere chiodi appuntiti sotto i piedi affinché la mia espressione sia afflitta ed infelice.
In fede
Eretica
Comune - info
21 09 2015
Nei giorni del delirio contro i fantasmi del Gender e mentre Roma (19 e 20 settembre) ospita il più grande incontro annuale nazionale dedicato all’educazione alle differenze e all’affettività (di cui Comune è media partner), offriamo questo saggio di Lea Melandri: spiega come e perché possiamo portare l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita di ogni giorno, nella sua interezza e fragilità, consapevoli che le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale sono venute meno. Qualsiasi esperienza di cambiamento, cioè la costruzione di una società senza relazioni di dominio, deve allora fare prima luce su un terreno che resta per lo più confinato in una “naturalità”: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte. Ma per muoversi in questo terreno occorre che insegnanti ed educatori abbiano acquisito capacità di cura e conoscenza di sé e sperimentato una dimensione collettiva. Siamo pronti per questo cambiamento antropologico epocale?
di Lea Melandri*
L”educazione di genere”, di cui oggi si parla molto, anche dietro la spinta dei dati allarmanti sulla violenza maschile contro le donne, specie in ambito domestico, se non vuole restare nell’ambito di una generico invito al rispetto reciproco – il “politicamente corretto” – deve avere il coraggio di andare alla radice di un dominio del tutto particolare, quale è quello di un sesso sull’altro, intrecciato e confuso con le relazioni più intime. Nel momento in cui si scopre che la vita personale, il corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, sono sempre stati dentro la storia e la cultura, e che è importante cominciare a sottrarli alla “naturalizzazione” che hanno subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere. Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e, partendo da lì, interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato.
Quella che in più occasioni ho definito “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili” , la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi.
A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, di un senso compiuto, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso. Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte.
ami
Ci sono domande, emozioni, vissuti che si affacciano nell’infanzia e che, per non aver trovato risposte o parole per essere detti, sembrano aver fatto naufragio.
“Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente (…). Prendere tutto tra le braccia. Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allentamento, di separazione (…). Non è la stessa cosa dire che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. È per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte quelle parole censurate nella mia infanzia”.
(Francoise Lefèvre, Il Piccolo Principe Cannibale, Franco Muzzio Editore, Padova 1993)
I corpi, la sessualità, gli stereotipi di genere, i sentimenti, la relazione con l’altro, il diverso, hanno nella scuola il loro teatro primo – insieme alla famiglia -, ma anche il loro inquadramento secondo norme di ordine e disciplina. Restano perciò il “sottobanco”, anche se segnalano vistosamente la loro presenza, i loro interrogativi, la loro vitalità.
Oggi la scuola incontra una forte concorrenza nei media: lì il corpo, la vita intima, le “viscere”, sono, al contrario, sovraesposte, benché collocate in una posizione regressiva – esibizionismo e voyeurismo – che non le sprivatizza né le fa oggetto di riflessione. Come tornare a fare esperienza di vissuti, pensieri, passioni così squadernati all’esterno, così ridotti a chiacchiera? Come far sì che il “narrare di sé” diventi nella scuola un momento formativo? È indispensabile, per questo, che l’insegnante abbia acquisito egli stesso famigliarità col mondo interno, l’abitudine all’autocoscienza – cura e conoscenza di sé -, così come è importante la dimensione collettiva.
Siamo qui su un terreno che non è la “lezione” dalla cattedra, parlo di laboratori, che potrebbero utilmente accompagnarla: sperimentazione di nuovi processi formativi, oggi resi necessari dal fatto che sono venute meno le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale. Tocca alla scuola dare risposta a questo cambiamento antropologico, portando l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita compresa nella sua interezza. Se non lo farà, saranno le nuove tecnologie informative, i social network, il mercato, la pubblicità a prenderne il posto. Quello che già in parte, purtroppo avviene.