Euronomade
02 09 201
Note preliminari sul metodo politico della trasformazione oggi
È ormai alle nostre spalle il luglio greco, con l’entusiasmante vittoria dell’OXI al referendum del 5 luglio e con il famigerato “accordo” di una settimana dopo. La Grecia resta comunque al centro dell’attenzione, non solo per quel che riguarda il dibattito all’interno della “sinistra” internazionale ma anche per gli scenari aperti dalle dimissioni di Tsipras, dalla scissione di Syriza e dall’annuncio di nuove elezioni a fine settembre. Sono scenari complessi, in cui in gioco sono tra l’altro la natura di Syriza e la democrazia interna al partito dopo la nascita di “Unità popolare”, le prospettive politiche ed elettorali di quest’ultima formazione, il rapporto che i movimenti intratterranno con le istituzioni nella nuova congiuntura.
Nessuna scorciatoia auto-consolatoria, nessuna ricetta ideologica derivata dalle categorie e dagli schemi del passato può funzionare di fronte alle contraddizioni del reale, che qui si manifestano con inedita violenza. In questo intervento, non ci proponiamo tuttavia di affrontare direttamente questi temi e queste contraddizioni. Quel che vorremmo tentare, piuttosto, è di formulare alcuni criteri di metodo che possano orientare in questa fase, dal punto di vista di una politica che punta alla trasformazione radicale dell’esistente, il giudizio su una situazione come quella greca, e inevitabilmente su quella europea che in essa si rispecchia.
In questa fase, abbiamo detto: in una fase che continua a essere segnata dalla crisi e da una transizione dall’esito incerto, tanto in Europa quanto su scala globale. La categoria gramsciana di “interregno” è parsa a molti, negli ultimi tempi, particolarmente calzante per descrivere alcuni tratti del nostro presente. I “fenomeni morbosi più svariati”, scriveva notoriamente Gramsci, si verificano nell’Interregno, ovvero in quelle condizioni di “crisi organica” in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Molti aspetti di questa definizione, formulata all’indomani della crisi del ’29, rimangono in effetti validi: la crisi organica, nella prospettiva di Gramsci, era essenzialmente una “crisi di egemonia”, caratterizzata dal distacco delle “grandi masse” dalle “ideologie tradizionali” e dall’incapacità della “classe dominante” di esercitare una funzione “dirigente”, sostituita dal puro esercizio della coercizione e appunto del “dominio”. Non v’è qui un parallelo con la clamorosa crisi di legittimità del “neoliberalismo”, tanto in Europa quanto altrove, e con l’arroganza con cui la sua “razionalità” viene riaffermata dalle “classi dominanti”? Gramsci non escludeva certo che l’Interregno si risolvesse “a favore di una restaurazione del vecchio” – e tuttavia, nella solitudine del carcere di Turi, sottolineava in primo luogo i caratteri di imprevedibilità, apertura e sospensione della “crisi organica”.
Se certo non mancano gli echi sinistri degli anni Trenta nella situazione di oggi in Europa (basti pensare alla “crisi dei rifugiati”), è d’altronde evidente quanto siano grandi le differenze. È in primo luogo il contesto globale al cui interno si distendono i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale a essere profondamente mutato – con un effetto di moltiplicazione e amplificazione dei caratteri di imprevedibilità, apertura e sospensione della crisi. Ricordate quando dopo la crisi del 2008 dicevano in molti che l’ultimo grande Paese “socialista”, la Cina, stava salvando il capitalismo (quello statunitense in particolare) dalla catastrofe? Il terremoto finanziario innescato nei giorni scorsi dal crollo della borsa di Shanghai, ma più in generale la circolazione globale – sia pure con tempi e modi profondamente eterogenei – della crisi cominciata con l’esplosione della bolla dei mutui subprime, mostra una realtà ben diversa.
Da una parte getta ancora una volta luce sul carattere strutturale dell’interdipendenza e sugli elementi di fragilità e vulnerabilità che ne conseguono per le stesse economie dei Paesi di volta in volta presentati come più forti (la “locomotiva americana”, la Germania “campione mondiale delle esportazioni”, l’“irresistibile ascesa” dei Brics e via discorrendo). Dall’altra parte segnala, pur nella luce sinistra di una crisi che investe il principale dei “Paesi emergenti”, le profonde modificazioni che si sono determinate in questi anni nei rapporti tra quelli che un tempo potevano essere individuati a colpo sicuro come i “centri” e le “periferie” del capitalismo mondiale.
È in questo contesto di crisi permanente delle forme del dominio capitalistico su scala globale che devono essere collocate anche l’analisi e l’iniziativa all’interno dello spazio europeo. L’epocale questione delle migrazioni e i focolai di guerra alle frontiere d’Europa sono qui a ricordarcelo in ogni momento. Così come la continua, e continuamente disattesa, promessa di una chimerica “ripresa economica” continentale.
Ma è una crisi evidente anche laddove continuano a registrarsi tassi di “crescita” e “sviluppo” e che, forse, può essere ormai interpretata come forma par excellence della stessa accumulazione di capitale, nel tempo della sua compiuta finanziarizzazione. Un alto grado di incertezza e imprevedibilità, tanto delle dinamiche economiche e sociali quanto della loro articolazione con le forme istituzionali, appare come un carattere distintivo del nostro tempo. Nell’Interregno, in ogni caso, servono a poco le bussole ereditate da epoche trascorse, e ancor più corrosiva risulta l’ironia di Marx su chi si attarda a “prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire”. Partiamo dal presente, dalla necessità di costruire potere nella crisi, un (contro)potere di parte degli sfruttati che possa agire con efficacia per la trasformazione delle nostre vite nel segno della libertà e dell’uguaglianza. Proprio perché, nella loro brutalità, i passaggi estivi della crisi europea hanno chiarito come al centro della scena siano lo squilibrio nei rapporti sociali di forza, il crudo punto di vista di classe che dalla loro dialettica emerge, il carattere cruciale della grande questione delle disuguaglianze e delle illiberalità che ne conseguono.
Tenendo fermo lo sguardo su questi squilibri e sulla violenza dello scontro di classe in atto, disponiamoci dunque collettivamente alla definizione di un metodo che (ce lo ricorda l’etimo greco metà odòs, “attraverso/strada”) non può che coincidere con l’individuazione (se necessario con la violenta apertura) di una via laddove apparentemente non ne esistono – o dove non se ne vedono con le vecchie mappe. “Rigettare la terra mobile e la sabbia per trovare la roccia o l’argilla”, scriveva Descartes nel pieno di un altro Interregno: quel che conta è la via che conduce dalle une alle altre. Il metodo che consente di individuarla è oggi, a tutti gli effetti, un metodo rivoluzionario.
Questa via non può essere lineare, come ben si vede da una pur rapida descrizione di quelle che possiamo definire oggi le coordinate temporali e spaziali dell’azione politica. Sotto il profilo della temporalità, le tendenze di lungo periodo nella trasformazione e riorganizzazione del capitalismo, a lungo analizzate, si confermano nella loro distensione globale, ma si realizzano all’interno di contesti profondamente eterogenei, modificandosi di volta in volta e adattandosi tanto alle “turbolenze” globali quanto alle variabilità “locali”. Le trasformazioni nella composizione e nella natura del lavoro, la maturità della cooperazione sociale, il carattere pervasivo della finanziarizzazione, il rilievo dei dispositivi individuali e collettivi dell’indebitamento, le forme nuove in cui si presenta l’articolazione tra comando capitalistico e dominio politico, il ruolo politico della moneta: queste tendenze, per non citarne che alcune, si sono ulteriormente approfondite negli anni della crisi.
Ma, prese nel loro insieme, non disegnano alcun tracciato lineare di “sviluppo” – tra l’altro per via dell’intreccio strutturale tra sviluppo e crisi che abbiamo precedentemente sottolineato. Vano sarebbe, dunque, attendere il “pieno dispiegamento” di queste stesse tendenze e lo scaturire da esse, novella Minerva, del soggetto (della composizione di classe) capace di rovesciarle in termini rivoluzionari. Non è del resto neppure sul registro messianico dell’“evento” che possiamo fare affidamento: il capitale ha dimostrato di essere una formidabile macchina per la metabolizzazione di “eventi” e per la loro trasformazione in carburante per la sua valorizzazione. È piuttosto disponendosi a lavorare all’interno di una essenziale sconnessione temporale, combinando cioè costruzione e accumulo di forza da un lato e apertura verso l’imprevisto, l’“inattuale” dall’altro, che il problema della costruzione di potere nella crisi può essere definito dal punto di vista del metodo. Qui, se si vuole parlare di “politica dell’evento”, ciò che si deve intendere è l’attitudine a “cogliere l’occasione”, inserendosi in quelle aperture temporali che, nel conflitto e nella rottura, consentono il salto in avanti e l’affermazione di un rapporto di forza più favorevole.
Analogo discorso può essere fatto sotto il profilo della spazialità. La “geometria variabile” dell’azione politica che punta alla trasformazione radicale dell’esistente è oggi imposta dalle forme stesse in cui si è riorganizzato il capitalismo – anche in Europa, dove negli anni della crisi abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione degli spazi economici e politici. La combinazione di elementi di “omogeneità” ed “eterogeneità” tra scala globale, continentale, nazionale e locale è un aspetto che abbiamo altre volte analizzato in profondità – sottolineando la dialettica e le tensioni tra processi di standardizzazione e/o omologazione, da una lato, e la messa in gioco di “differenze” economiche e politiche, sociali e culturali, finanche “antropologiche” tra luoghi e aree diverse, dall’altro.
E ciascuna delle scale che abbiamo nominato, lungi dal presentarsi come fissa e stabile, è investita da specifici fattori di crisi: identificare questi fattori, investire gli spazi di confine e le giunture tra le diverse scale con un’azione politica di rottura e di alternativa costituisce una essenziale priorità di metodo nell’Interregno. Non vi è, a questo proposito, nessun possibile ritorno indietro alle dimensioni, apparentemente più rassicuranti, della sovranità nazionale o del “territorio”, né per via di un mitologico recupero di “sovranità monetaria” né attraverso l’esaltazione di presunte alternative “micro-comunitarie”: l’una e l’altra “soluzione” appaiono destinate a essere travolte dalla violenza di processi che attraversano, lacerano e sincronizzano ogni “scala” spaziale. La nostra opzione per l’Europa (ed è un po’ umiliante, ma forse sempre necessario ribadire che essa non coincide per noi con la dimensione istituzionale dell’Unione né con un qualsivoglia “eurocentrismo”), da questo punto di vista, è un’opzione per il tentativo di costruire uno spazio politico in cui questi processi possano essere efficacemente contrastati: è questa la condizione per rendere espansive e durature le stesse esperienze di lotta e di costruzione di alternativa che si sviluppano nelle dimensioni “locali”. Lo sappiamo – e lo abbiamo dolorosamente verificato negli scorsi mesi: il rapporto di forza è duramente sfavorevole. Occorre lavorare per cambiarlo.
All’interno di queste coordinate temporali e spaziali, si tratta di sviluppare un rinnovato approccio realistico e materialistico alle dinamiche e alle lotte sociali reali, dismettendo ogni feticismo delle identità. E cruciale, da questo punto di vista, diviene la relazione, mai univoca, con i processi politici che le dinamiche e le lotte sociali concorrono a determinare e orientare, essendone al contempo condizionate. Tanto la Grecia quanto la Spagna sono da questo punto di vista laboratori di grande importanza. Proprio una realistica valutazione dei rapporti di forza in Europa dovrebbe del resto indurre alla cautela rispetto all’adozione della coppia binaria “vittoria / sconfitta”, e delle retoriche della “capitolazione” o del “tradimento” a essa correlate, per valutare un’esperienza come quella greca degli ultimi mesi. A noi pare che il criterio fondamentale debba essere piuttosto, coerentemente con quanto abbiamo scritto sulle coordinate temporali e spaziali del metodo politico nell’Interregno, quello dell’accumulazione di forza per costruire processi di governo “contro-egemonico” dentro e contro quel “neoliberalismo reale” di cui non è certo possibile liberarsi per decreto, per costruire magari la caricatura di quello che un tempo fu definito il “socialismo in un Paese solo”.
La natura meramente ideologica (e spesso insopportabilmente settaria) delle posizioni che, all’interno della sinistra più o meno “estrema” e sedicente “marxista”, individuano nel “Grexit” la soluzione emerge qui con chiarezza: e si compendia nella mancata comprensione dei caratteri fondamentali del capitalismo contemporaneo (della “verità effettuale della cosa”, per dirla con Machiavelli), nell’inseguire l’“immaginazione” di uno Stato nazionale che – una volta “conquistato” – possa essere la base e il soggetto fondamentale per la sua trasformazione. Una posizione politicamente radicale, oggi, non può che partire – una volta di più – dal primato delle lotte, da una realistica assunzione dei limiti con cui si scontra l’azione di qualsiasi governo e dal tentativo di pensare e praticare in forme nuove e originali la dialettica tra lotte sociali e azione di governo.
Il neoliberalismo non è né semplicemente un’“ideologia” né un “pacchetto” di politiche macro-economiche: è una “razionalità” che ha trasformato profondamente le forme e i soggetti dell’azione economica e sociale, nonché le stesse istituzioni “pubbliche”, nella misura in cui interpreta alcuni caratteri di fondo del capitalismo contemporaneo. Lottare contro il neoliberalismo – che lo si faccia da un punto di vista “riformista” o “rivoluzionario”, categorie la cui validità va comunque verificata e aggiornata all’interno delle coordinate temporali descritte in precedenza – comporta l’assunzione di una prospettiva quanto meno di medio periodo. E impone di pensare e agire politicamente oltre l’esaurimento della tradizionale politica rappresentativa.
Certo, specifiche elezioni possono giocare un ruolo estremamente importante: ma quel che è definitivamente tramontato è appunto lo schema temporale della rappresentanza, quella delega al governo che svuota di politica il tempo compreso tra un’elezione e l’altra. Lo si è visto benissimo proprio nel caso greco, dove l’azione di governo è risultata dinamica e “potente” quando ha saputo agganciarsi alla proliferazione del tessuto mutualistico e ha sollecitato – senza poterla rappresentare – l’irruzione dell’evento referendario. È un punto fondamentale, da tenere a mente anche per il futuro.
Porre questo problema, evidentemente, significa porre il problema di un profondo rinnovamento della nozione stessa di governo – e in particolare, come si è detto, del rapporto tra governo e lotte, movimenti, processi di mobilitazione, istituti autonomi di contropotere. Significa cioè domandarsi quale sia il livello di esercizio del potere adeguato per riuscire a mettere in discussione le politiche neoliberiste e il paradigma dominante dell’austerity, che si sono tradotti in forma permanente di gestione della crisi in Europa. Qui le coppie binarie “partiti/movimenti” e “istituzionale/anti-istituzionale”, da declinare a seconda dei contesti in termini di “alleanze” o di “antagonismi”, davvero non funzionano più. Né sotto il profilo teorico, né sotto quello pratico. La dimensione globale e inafferrabile, fluida e pervasiva del capitalismo finanziario, la drammatica sproporzione nei rapporti sociali di forza dati, la complessità multifattoriale di ogni processo di decisione politica, tanto più se orientato al cambiamento, interrogano radicalmente sia la condizione dei movimenti sia quella istituzionale. Impongono una riflessione, urgente e immediatamente operativa, sull’“inefficacia” dell’azione dei movimenti sociali quando essa resta auto-referenziale e sui “limiti” dell’azione di governo se rimane esclusivamente circoscritta all’interno delle istituzioni costituite. Sono questioni cruciali, che occorre affrontare con urgenza e al di fuori di ogni tatticismo.
Quel che è certo è che, anche nella valutazione delle formidabili ed essenziali esperienze di mutualismo e auto-organizzazione sociale che si sono diffuse in Grecia come altrove, risulta per noi essenziale un’attitudine maggioritaria, la riformulazione del problema classico del rapporto tra conflitto e consenso: cruciale, qui, non è tanto la misurazione (magari attraverso sondaggi e rilevazioni statistiche) dell’impatto dei conflitti sociali sulla produzione di “opinione pubblica”, che è di per se stessa terreno di scontro permanente, quanto la determinazione politica di costruire maggioranze sociali che possano rendere realistica la costruzione di alternative all’esistente.
È in fondo questa la lezione che ricaviamo dalla riformulazione della categoria di “populismo” da parte di Podemos: se continuiamo a criticarne alcuni presupposti teorici, se riteniamo che un’interpretazione eccessivamente rigida di questa categoria possa facilmente sfociare nel “sovranismo” nazionale, se siamo convinti che la chiusura attorno al partito che il “populismo” agevola possa creare non pochi problemi anche dal punto di vista delle prospettive elettorali, nondimeno riconosciamo l’importanza della riapertura di una prospettiva dichiaratamente maggioritaria. Ed è sul terreno della soggettività politica, della sua costruzione e della sua potenza, che una metodologia politica sovversiva nel tempo dell’Interregno dovrà necessariamente esercitarsi: quel che è certo è che il nostro “popolo” non può che essere “a venire”, prima di tutto nel senso che il soggetto politico della trasformazione ancora non c’è.
È nella sua costruzione, nella lotta necessaria contro i processi di corporativizzazione, frammentazione sociale, individualizzazione estrema che il neoliberalismo reale ha indotto e non cessa di alimentare, che dobbiamo recuperare e aggiornare i caratteri di apertura e innovazione che abbiamo individuato nei dibattiti degli scorsi anni attorno alla categoria di “moltitudine”, a partire dall’inedita e ambivalente relazione che si determina (che può determinarsi) tra singolarità e collettività. In ogni caso, lo ripetiamo, la costruzione di un soggetto politico capace di essere al tempo stesso radicale e maggioritario è oggi una essenziale priorità – a cui lavorare con ogni strumento efficace, sia esso culturale, di opinione, sociale o elettorale.
Questo processo non può che essere, sotto il profilo del metodo, complesso e articolato fin da principio su una molteplicità di livelli. Deve necessariamente coinvolgere attori eterogenei e impegnati in ruoli diversi, facendosi carico del problema della “sincronizzazione” di tempi, linguaggi, comportamenti, “culture”, forme di azione sociale e politica che non possono che essere anch’essi altrettanto eterogenei. Il tema delle coalizioni emerge qui come strategico, ben al di là delle cronache politiche quotidiane e delle prospettive di questa o quella specifica “coalizione”. In gioco non è la riedizione di una politica “frontista” o delle “alleanze”, ma piuttosto la scoperta e la costruzione della forma politica, dello strumento progettuale e organizzativo adeguato alla pratica della rottura e dell’alternativa nelle coordinate temporali e spaziali che abbiamo tentato di definire. La coalizione, in questo senso, non può che essere essa stessa una pratica, da verificare e reinventare continuamente al di là di quelle opposizioni binarie (tra partito e sindacato, tra movimenti e istituzioni, ad esempio) che appaiono oggi un ostacolo dal punto di vista dell’innovazione necessaria per rilanciare una politica della trasformazione radicale. È rispetto a questo orizzonte della coalizione, al suo carattere per natura ibrido, giocato sul confine tra sociale e politico, tra lotta e sperimentazione istituzionale, mutualismo e integrale approccio federativo, che misureremo l’azione degli stessi partiti della sinistra nei prossimi mesi – in Grecia come in Spagna, ma anche in Italia, o in Germania e in Gran Bretagna.
Si capisce bene come la posta in gioco, nei mesi che ci attendono, non sia tanto il proprio posizionamento solipsistico e autocompiaciuto in una diatriba, tutta ideologica e in gran parte sottratta alla nostra disponibilità, sintetizzabile in slogan quali ”Euro sì / Euro no” (senza ovviamente negare che la questione della moneta è e resta fondamentale!) o “uscita a sinistra dall’Unione Europea” (e quella su come lottare a livello transnazionale contro i suoi dispositivi autoritari di governance è una domanda altrettanto cruciale!). La posta in gioco è piuttosto la decisione se stare, insieme a tante e tanti altri nel vivo delle lotte sociali, dentro possibili processi di trasformazione reale che arrivino a investire politicamente, tra l’altro, proprio il terreno della moneta e quello della governance europea. Cominciamo ad affinare le armi, a forgiare gli strumenti necessari a combattere queste battaglie: sotto il cielo dell’Interregno, l’orizzonte rimane aperto.
Beppe Caccia, Sandro Mezzadra
Dinamo Press
01 09 2015
di Dimosthenis Papadatos-Anagnostopoulos*
Pubblichiamo un’interessante e approfondita riflessione di Dimosthenis Papadatos-Anagnostopoulos* che ripercorre alcuni passi ed errori che hanno portato SYRIZA all’esito finale delle trattative, a dover votare il terzo memorandum e alla spaccatura che sta vivendo proprio in questi giorni.
L’articolo è stato pubblicato prima dell’annuncio delle elezioni, dunque alcune cose sono già cambiate (tra queste la partecipazione dell’autore al Comitato Centrale del partito, da cui si è dimesso venerdì scorso). Ciononostante, rimane un testo molto utile a comprendere meglio gli avvenimenti degli ultimi mesi.
Chi non risica, non rosica. Dopo la rilevante approvazione delle assemblee nazionali di Germania, Olanda, Spagna, Austria e Lettonia, la Commissione Europea e l’ESM hanno annunciato l’approvazione del prestito biennale di 86 miliardi di euro alla Grecia. Questo accade solo pochi giorni dopo che il Parlamento ha approvato il terzo memorandum presentato da un governo di sinistra sostenuto dai partiti borghesi e dai media mainstream, ancora una volta dopo un iter parlamentare auto-umiliante e stringente sotto il peso di una decisione dell’Eurogruppo ancora in sospeso.
Dietro l’angolo ci sono un’altra elezione generale e un congresso del partito che era stato deciso dal Comitato Centrale ma è ancora da confermare [dimettendosi Tsipras ha evitato che il congresso si tenesse prima delle prossime elezioni, ndt], che sembrano niente più che un processo per riaffermare il predominio del Primo Ministro Tsipras sul partito e sul sistema politico. Se qualcuno avesse detto a inizio di luglio che saremmo arrivati a questo punto, sarebbe stato accusato di essere fuori dalla realtà. E invece.. siamo proprio qui!
Tutti noi che abbiamo lottato per SYRIZA negli ultimi 11 anni e soprattutto nei 7 anni dell’attacco della crisi, tutti noi che abbiamo sostenuto il primo governo di sinistra in Europa successivo alla Seconda Guerra Mondiale, tutti noi che abbiamo creduto che un simile governo, in fondo un governo di sinistra moderata, sarebbe potuto sopravvivere nelle tenebre neoliberali dell’UE, possiamo dire oggi che siamo nel mezzo di una sconfitta schiacciante. Questa sconfitta dovrebbe essere discussa e registrata come una sconfitta politica, non come un tradimento morale. Cioé, la capitolazione forzata del governo è un fallimento collettivo e rappresenta un inquietante segno dell’intrusione imperialista oltre ogni prerogativa democratica. Ci sono numerose ragioni oggettive e soggettive per questo fallimento – e per quanto riguarda le ultime, ci sono individui nella gerarchia del governo e del partito e nell’area ideologica e politica di SYRIZA, che condividono, anche se non in maniera eguale, questa responsabilità.
La situazione è già chiara: il trauma e le conseguenze di questa sconfitta, sigillata dal terzo Memorandum lascerà una traccia indelebile. SYRIZA non sarà mai più la stessa – e questa particolare “fine” è già un fattore chiave della crisi politica in corso. L’attuale crisi, come continuazione della crisi della rappresentanza del 2007, ha già avuto un impatto su tutte le manifestazioni delle forze politiche di sinistra in Europa nella sfida politica e sociale della fase del terzo Memorandum, che è appena iniziata. Ed è troppo presto per dire come potrebbe risolversi la crisi, figuriamoci per essere ottimisti sul suo esito. Nonostante questo, abbiamo urgentemente bisogno di tirare fuori delle “ipotesi di lavoro” rispetto ai prossimi passi, in modo da poter difendere i giovani e i lavoratori contro il terzo Memorandum, da mantenere lo scontro che il recente referendum ha dimostrato essere vivo – in modo che la sinistra per-il-NO [cioé quella che vuole dare seguito al NO del referendum, ndt] possa immaginare a cosa dovrebbe assomigliare nella nuova fase una sinistra capace di vincere.
Il referendum
L’ovvio punto di partenza di ogni valutazione e pianificazione è l’esito vittorioso di uno scontro di classe che ha assunto una dimensione internazionale il 5 luglio, che dopo solo una settimana è stato capovolto e ridotto all’umiliante accordo del governo con la Troika. Tutti noi che abbiamo combattuto in questa battaglia sappiamo che in termini politici il tempo non è mai sembrato più intenso, che il nostro scontro non è mai stato così genuino e per la sopravvivenza, che la gioia per questa vittoria collettiva non è mai stata più grande. Ma allo stesso tempo sappiamo che i deficit della dirigenza e nella pianificazione non sono mai stati così cruciali per un scontro di classe su questa scala: lasciatemi solo ricordare che fino al mercoledì prima del referendum non sapevamo proprio se il referendum ci sarebbe stato; fino al giovedì ascoltavamo i ministri e i deputati rassicurare l’elettorato che ci sarebbe stato un accordo (alcuni di loro si sono spinti al punto di suggerire di votare SÍ); per un’intera settimana siamo stati testimoni della neutralità dell’emittente pubblica ERT mentre i media borghesi complottavano e il nostro popolo veniva ricattato sui posti di lavoro e alle code dei bancomat senza che noi fossimo in grado di difenderlo. Il governo ha giustamente condannato il colpo di Stato dell’UE. In quei giorni, semplicemente distribuendo volantini ci siamo sentiti come se fossimo membri dell’Unidad Popular mentre Allende era minacciato.
Questo è un punto chiave che dobbiamo considerare: che il referendum, vale a dire il coinvolgimento dei cittadini, è stata una scelta quasi istintiva del governo, nel tentativo di fermare la spirale discendente dei negoziati – una specie di spasmo di sopravvivenza appena prima di affogare; l’interruzione di una tattica continua di compromesso con i vertici e di continue pacificazioni della base (l’accordo è stato una “questione di giorni” per quattro mesi…) e di una tattica che, già dal 20 febbraio, non prevedeva assolutamente alcun ruolo per le masse, e nessun ruolo per SYRIZA come partito.
Dall’(ultra)continuità dello Stato alla capitolazione di classe
Ma se la moneta e il supporto del popolo sono oggi le fonti del potere nelle nostre società, il governo ha sospeso il suo fondamentale vantaggio per cinque mesi, non schierando le masse. Invece, ha chiamato il popolo in prima fila quando la sua tattica era già fallita sotto uno schiacciante rapporto di forza, quando la sua “linea rossa” si era già sbiadita nella “proposta di 47 pagine”, che in sé era difficile da difendere a causa della mancanza di potere. Questa fase si è conclusa con le masse ancora una volta dalla parte del progetto del governo, con l’interpretazione rassegnata del mandato del referendum e con la riunione dei leader dei partiti politici, completamente fuori da qualsiasi procedura del partito.
Ovviamente la responsabilità di queste scelte è diversa per ognuna delle persone coinvolte e può essere chiaramente attribuita ad alcuni noti individui. Allo stesso tempo i documenti costitutivi di SYRIZA avevano previsto che i negoziati non sarebbero stati una discussione amichevole tra partner. Questo tipo di modello di governance non partecipativa, con il partito completamente soggetto al governo, non era l’opzione preferita da tutti. Nonostante ciò, la valutazione della sinistra non può essere limitata a specifici momenti nel tempo o a particolari individui, dovrebbe dipendere da processi più ampi e, in ultimo, dal livello della lotta di classe. Quello che voglio dire è che invece di parlare di “tradimento” e traditori al più alto livello della dirigenza, sarebbe molto più costruttivo sostenere che la borghesia greca ha combattuto una battaglia di sopravvivenza per il SÍ contro un solido blocco internazionale, attivando meccanismi e alleanza al fine di supportare l’obiettivo altrettanto necessario alla sua sopravvivenza di restare nell’Eurozona.
Dall’altro lato e nella misura in cui il ricatto “Memorandum o default disordinato e Grexit” era genuino e veritiero, il governo avrebbe dovuto prepararsi a condizioni rivoluzionarie. In un tentativo di evitare queste condizioni, il piano del governo è stato quindi limitato a spostare il confronto da un livello di potere economico e politico in Grecia e nell’UE a un livello di “salvataggio nazionale” e “comune sentire europeo”. Questo è il motivo per cui alla fine si è ridotto a un tentativo di evitare il peggio scegliendo l’opzione meno orribile.
Questo spostamento e il conseguente ritiro dallo scontro hanno portato: (A) alle ambiguità programmatiche e alla retorica nazional-populista durante la campagna elettorale prima delle elezioni generali del 25 gennaio, (B) alle scelte di Pavlopoulos per la Presidenza della Repubblica, dei politici di ANEL e DIMAR per ministeri chiave, nonché all’assegnazione di “esperti tecnici” appartenenti all’establishment in posizioni chiave nel governo e nel più ampio settore pubblico, e (C) alla celebrazione della “vittoria” dell’accordo del 20 febbraio nonostante il fatto che il governo si impegnava a ripagare “per intero e in tempo” un debito insostenibile e ad astenersi da ogni “cambio unilaterale di politiche e riforme strutturali che avrebbero avuto un effetto opposto sugli obiettivi fiscali, sulla ripresa dell’economia e la stabilità finanziaria in base alla valutazione delle istituzioni” [con istituzioni qui si intende la Troika, ndt].
La crisi politica
Delineare lo sfondo della capitolazione del 12 luglio e del voto del terzo Memorandum il 14 agosto, è importante perché ci permette di fare un passo in avanti da una discussione su piani e pianificazione che domina il discorso pubblico della sinistra e ci aiuta a capire che qualsiasi “piano” richiede una soggettività – una soggettività che SYRIZA ha fallito nel determinare mentre mentre era all’opposizione. Una soggettività che avrebbe avuto una chiara comprensione dei limiti e delle potenzialità delle circostanze, che avrebbe capito che non c’è spazio per una via di mezzo nel mezzo di una crisi e di una feroce lotta di classe senza ritorno e che sarebbe stata in grado di aiutare a disegnare la tattica e la strategia necessarie, invece di sostituire l’una con l’altra.
Non è per niente certo che questa ipotesi avrebbe portato SYRIZA alla vittoria delle elezioni di gennaio e nemmeno che avrebbe permesso a SYRIZA di riequilibrare la pressione di una UE totalitaria che, al di là delle sue rivalità interne, resta unita sulla base della razionalità di classe e dell’austerità estrema. Tuttavia, è assolutamente certo che se la strategia di SYRIZA non fosse stata così esclusivamente centrata sul parlamento, se SYRIZA fosse stata sicura che c’era qualcosa in più della pianificazione e del processo decisionale rispetto alla discussione tecnica superficiale sulla moneta nazionale, se SYRIZA avesse proceduto ad azioni unilaterali sul sistema bancario per fronteggiare la fuga di capitali e sul sistema fiscale per aumentare i fondi necessari per una politica completa che avrebbe sostenuto i gruppi sociali che rappresentava, se non avesse abbandonato le strade, se SYRIZA avesse creduto realmente in quello che predicava rispetto all’UE e all’euro, in breve, se SYRIZA avesse combattuto la battaglia su un reale livello di potere invece di rimanere nel mondo immaginario di una soluzione benefica sia per i lupi che per le pecore, le cose oggi sarebbero diverse.
Invece di quei “se”, abbiamo un governo che assomiglia tristemente e sempre più all’ultima DIMAR [partito di centro-sinistra nato da una scissione del PASOK, ndt], un partito che è sull’orlo di un’irrevocabile spaccatura. Il terzo Memorandum è disegnato con una tale precisione che SYRIZA strangola con le sue mani i gruppi sociali che ha rappresentato fino al 2010, uno ad uno. E fa questo in un contesto di stretto monitoraggio che lascia poco spazio per le manovre. E tutto ciò sta accadendo nonostante ognuno sappia che il programma sia tutt’altro che fattibile e mentre la Grexit continuerà a incombere sulle nostre teste sia come mezzo per disciplinare il governo – e così accelerare la sua mutazione pro-Memorandum –, sia come la possible destinazione finale del nuovo corso.
Limiti, bisogni e possibilità
Oggi c’è poco spazio per l’ottimismo per una serie di ragioni: il fatto che alcune parti della società hanno familiarizzato con la realtà del Memorandum; la magra consolazione che il governo almeno ha portato avanti una lotta; il predominio del Primo Ministro dentro SYRIZA e nel sistema politico; il fatto che perfino le correnti radicali sono intrappolate in una vera e propria impasse; nonché l’aggressiva giustificazione del Memorandum come una strada senza alternative da parte del governo e del partito che ha spinto le cose al limite con l’aiuto della Troika e della borghesia greca. Di conseguenza, la ferita nel corpo del partito che ha sostenuto le proteste di dicembre [2008 successive all’omicidio di Alexis Grigoropoulos, ndt], le proteste nelle piazze e la battaglia contro i Memorandum avrà bisogno di molto tempo e sforzo per guarire – ammesso che sia possibile che guarisca. Ma se questo è vero, allora è anche vero che l’intensa fase politica chiama a riorganizzarsi il prima possibile.
Ovviamente se SYRIZA si trasformerà in DIMAR, se, in altre parole, SYRIZA internalizzerà l’effetto di un colpo di Stato come suo stesso programma, se SYRIZA passerà dal “niente sacrifici per l’euro” al “rimanere al potere, col Memorandum e nell’euro a tutti i costi”, allora SYRIZA morirà nel medio periodo. È anche chiaro che SYRIZA non può continuare a promettere “negoziati più duri”, in un’Unione Europea che ha dimostrato di essere ostile a ogni idea di sovranità popolare. Quindi, per mantenere il discorso che ha costruito in questi anni, soprattutto di fronte alla minaccia reale del partito neo-nazista, SYRIZA ha bisogno di scontrarsi con il Memorandum, la borghesia greca e l’UE. Ha bisogno di qualcosa che non è accaduto quando il rapporto di forza era più favorevole: la nazionalizzazione delle banche sotto il controllo sociale, la pesante tassazione dei capitali, l’ottenimento di una solidarietà politica e concreta da parte della comunità che ha riconosciuto il 12 luglio come un colpo di Stato, l’internazionalizzazione della lotta contro l’UE, le proteste.
Senza dubbio, la sinistra per-il-NO affronterebbe meglio un governo pro-Memorandum guidato da SYRIZA che la marmaglia che ha approfittato del potere fino allo scorso gennaio. Ma allo stesso modo la sinistra per-il-NO deve necessariamente guardare oltre a questo, verso un nuovo cammino attraverso lo sviluppo della soggettività e del piano necessari. Fino ad ora, all’interno di SYRIZA e della sinistra c’è stata solo propaganda, piuttosto che una elaborazione seria per l’alternativa da far funzionare in termini tecnici (cioé bancomat, cambio della valuta dei contratti, gestione dell’inflazione e delle importazioni necessarie) e soprattutto in termini politici e sociali. Questa dovrebbe essere la missione di una sinistra per-il-NO unita che rispetti le diverse strade e i punti di vista soggettivi, mentre assicura le condizioni per una lotta unitaria e qaunto più possibile efficace. Siccome l’ultima alternativa democratica è stata spazzata via dal ricatto della Troika, siccome adesso la lotta è per i bisogni basilari (forniture d’acqua e di energia, casa, democrazia), la nostra comune lotta sarà una lotta per la sopravvivenza: dobbiamo prepararci a questo il prima possibile, ma, soprattutto, dobbiamo vincere.
* Dimosthenis Papadatos-Anagnostopoulos è membro della redazione di RedNotebook e AnalyzeGreece!
Tradotto in inglese da Mary Zambetaki per AnalyzeGreece!, tradotto in italiano da Atene Calling
Dello stesso autore, leggi anche su atenecalling: La politica di SYRIZA: neokynesiana o anti-capitalista?
Dinamo Press
31 08 2015
Il comunicato finale del campeggio di Beyond Europe in Calcidica, Grecia. Una settimana di dibattiti e azioni, culminata il 23 di agosto in una manifestazione al fianco della lotta degli abitanti della Calcidica contro le miniere d'oro della El Dorado Company. Here the English version
Domenica, 23 agosto 2015, circa 2000 persone hanno partecipato a una manifestazione tra le montagne di Skouries. Durante questa manifestazione ci sono stati pesanti scontri tra manifestanti e polizia, dove la polizia ha fatto uso massiccio di gas lacrimogeni e granate assordanti. 78 persone sono state arrestate, di cui 4 sono ancora detenute in custodia.
La manifestazione è stata organizzata dalla piattaforma antiautoritaria contro il capitalismo, Beyond Europe, insieme con i comitati di attivisti dei villaggi locali nella zona di Skouries. Questa marcia di protesta è stata il culmine del campeggio internazionale di Beyond Europe, che ha avuto luogo presso la spiaggia di Ierissos vicino alla zona di Skouries. Al campeggio hanno partecipato 400-500 antiautoritari provenienti da tutta Europa per scambiarsi idee e discutere di analisi e pratiche politiche. Il luogo è stato scelto molto consapevolmente per sostenere le lotte ecologiche e sociali in corso, contro l'estrazione di oro e altri metalli pesanti in Skouries. E, naturalmente, non siamo attivi nel nome di, ma a fianco degli attivisti locali. Da molto tempo ormai, gli attivisti di Beyond Europe sono impegnati nella solidarietà pratica e il supporto per questa lotta. Questa lotta ha un forte impatto per i movimenti sociali in Grecia e di tutta Europa come un’importante prima linea nella lotta contro la riconfigurazione del capitalismo europeo attraverso la Troika sulle spalle dei molti.
Per noi, il campeggio e soprattutto la manifestazione sono stati un successo politico, siamo stati nel posto giusto al momento giusto. Nel gennaio 2015 il partito di sinistra Syriza ha assunto il potere e ha evocato la speranza in molti attivisti di sinistra. Riguardo alla questione della Skouries, Syriza ha interpretato il ruolo del partito di movimento mentre era all’opposizione, ma ha agito in maniera molto diversa dal momento in cui è stato al potere. Poco prima della manifestazione il governo di Alexis Tsipras si è dimesso, solo due giorni dopo l'inizio del campeggio di Beyond Europe e da quando Syriza era venuta a conoscenza della nostra manifestazione. Nel frattempo, il 19 agosto, il ministro dell'energia Panos Skourletis ha ordinato di sospendere l'attività di estrazione in Calcidica, sostenendo che la società abbia violato le clausole contrattuali ambientali.
Attribuiamo l'annuncio di chiudere la miniera alla nostra scelta di organizzare un campeggio qui, ma l'annuncio del governo non ha significato la fine della lotta – e ne abbiamo trovato la giustificazione. Un giorno dopo l'annuncio, durante la nostra passeggiata dal campeggio alla montagna vicino al villaggio Megali Panagia abbiamo potuto vedere che i lavori delle miniere continuavano. Questo è stata solo un’altra espressione della lezione più semplice ma importante nelle questioni del rapporto tra partiti e movimenti: anche se i partiti possono migliorare delle cose piccole all'interno della loro limitata capacità, la possibilità di creare un reale progresso e di emancipazione sta nelle nostre mani. Delegare desideri di cambiamento verso i partiti sarà sempre un vicolo cieco, dal momento che i partiti al potere dovranno sempre lavorare per rappresentare l’interesse nazionale. Siamo d'accordo con Syriza che le miniere della Skouries devono essere chiuse, ma spetta a noi adempiere a tale compito. La nostra azione ha inviato questo messaggio a tutti i partiti che prenderanno il potere nelle ri-elezioni greche nel mese di settembre.
La manifestazione di domenica ha messo di nuovo sul tavolo la lotta importante e vitale di Skouries. Il suo impatto è stato sentito profondamente in tutta la Grecia e non solo. Vediamo questo come un successo politico perché ora, per la prima volta dopo il grande sciopero generale del 2012, una nuova dinamica politica dal basso si sta creando in Grecia. Dopo un periodo di siccità dei movimenti sociali da quell'anno, il sequestro di Syriza al potere sembrava aver paralizzato gran parte di essi a causa della posizione di dover concedere al governo Tsipras del tempo. Il nostro campeggio e la manifestazione sono stati un tentativo di mettere fine a questa siccità e contare sulla nostra arma più forte – l’autorganizzazione e le lotte sociali.
Ieri, come sempre, quando le lotte sociali sono efficaci, la repressione dello Stato ha continuato. Nei diversi anni delle lotte di Skouries, la polizia e i servizi segreti hanno tentato di reprimere fortemente i movimenti locali tramite molestie, arresti e i procedimenti giuridici. Anche ieri, la polizia ha disperso violentemente la manifestazione, ha arrestato 78 persone e ferito molte altre. Una persona ha subito una frattura alla gamba mentre veniva arrestata dai poliziotti. Vanno a lei i nostri auguri per una veloce guarigione e a tutti coloro i quali sono stati malmenati o feriti dai gas. E, naturalmente, siamo solidali con i quattro ancora detenuti, così come tutti gli altri attivisti processati negli ultimi anni. Questo potrebbe essere stato solo un piccolo passo verso una organizzazione anti-autoritaria oltre i confini e contro la tristezza dell’esistente e reale capitalismo, ma in ogni caso è stato un passo. E molto altro deve ancora venire.
Traduzione a cura di dinamopress.it, tratto dal sito di Beyond Europe