Non è un film quello che scorre intorno

  • Mercoledì, 26 Agosto 2015 09:02 ,
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Global Project
26 08 2015

Una marea umana al confine tra Macedonia e Grecia
Migliaia di migranti da settimane stanno arrivando in massa al confine tra la Grecia e la Macedonia per fuggire verso l'Europa del Nord. Dopo essersi imbarcati in territorio turco, arrivano sulle isole greche e da qui si dirigono verso il nord dei Balcani. La scorsa settimana è stata particolarmente caotica per lo stato macedone. La piccola cittadina di Gevgelija, al confine con il territorio greco, si è trovata alle prese con migliaia di uomini e donne che cercano la salvezza in Occidente scappando dalla guerra in Medio Oriente. I pochi e vecchi treni lungo la linea Salonicco-Skopje venivano letteralmente presi d'assalto dai profughi, che si accavalcavano gli uni sopra gli altri e entravano dai finestrini pur di salire sulle poche carrozze disponibili. Di fronte alla grande presenza di migranti e alla fortissima pressione ai suoi confini, la Macedonia ha così deciso di dichiarare lo stato d'emergenza, chiudere il confine e inviare l'esercito. 

Tra la Grecia e la Macedonia, nella cosiddetta “terra di nessuno”, ormai da settimane sono sorti accampamenti e tendopoli dove intere famiglie aspettano nell'attesa di attraversare il confine e prendere il treno per la Serbia e poi continuare verso l'Ungheria ovvero nell'Europa della libera circolazione. Più passano i giorni più però la tensione sale, mancano vestiti, acqua e cibo.

C'è chi addirittura cerca di guadagnare sulla miseria, vendendo panini e bibite a prezzi salatissimi. Ci sono per fortuna anche i volontari delle ONG e delle associazioni macedoni che offrono prima assistenza ai migranti. Dopo la dichiarazione dello stato d'emergenza, lo scorso venerdì tutto il mondo ha assistito alla brutalità della polizia macedone. Di fronte a migliaia di persone, di cui tantissimi bambini anche molto piccoli, che cercavano di superare il confine anche buttandosi sulle reti del filo spinato, la polizia ha sparato lacrimogeni e bombe urticanti. Nonostante le pesanti cariche, qualche centinaio di persone sono riuscite ad aggirare il blocco della polizia mentre tanti genitori letteralmente buttavano i figli oltre il filo spinato per farli proseguire il viaggio, sperando che qualcuno li porti in salvo. La scena più raccapricciante è stata quella di un poliziotto che manganellava un uomo con in braccio il figlioletto di 4 o 5 anni.

Dopo questa giornata di sangue con decine di feriti, il governo macedone ha prima deciso di far passare solo donne e bambini mentre due giorni fa, non riuscendo più a gestire la situazione con i suoi pochi mezzi, ha aperto il confine a tutti. I migranti hanno raggiunto così il sud della Serbia dove sono stati caricati su circa 70 autobus e portati a Belgrado. Circa 7 mila persone sono entrate in Serbia nella notte tra sabato e domenica. Il numero ovviamente continuerà a crescere giorno dopo giorno perché le persone continuano ad arrivare prima dalla Grecia e poi dalla Macedonia.

La Croce Rossa che opera nel campo di Presevo, all'estremo sud dello stato serbo, dichiara che le scorte di acqua e cibo bastano solo per un giorno ancora e chiedono un disperato aiuto. In questo campo i profughi ottengono dal governo di Belgrado un permesso temporaneo, valido 72 ore che consente loro da arrivare al nord e continuare il viaggio verso l'Ungheria. Qui però, il governo guidato dal nazionalista Orban sta accelerando la costruzione di un reticolato di 175 km, proprio per impedire a queste persone di raggiungere l'Europa di Schengen.

Chi sono i migranti che attraversano i paesi balcanici e percorrono a piedi o con mezzi di fortuna migliaia di chilometri? Si tratta di persone provenienti in maggioranza dalla Siria ma anche dall'Afghanistan, Iraq e Pakistan. Sono della classe media e altamente istruiti. Quasi tutti conoscono l'inglese o il francese, tra di loro tanti sono avvocati, dottori, ingegneri o studenti. Il loro scopo non è chiaramente di restare nei Balcani ma di arrivare quanto prima in Germania o nei paesi scandinavi. Scappano da una guerra che ha trasformato in macerie la Siria dopo anni di aspri combattimenti, dal terrore dei miliziani dell'ISIS e non saranno certamente i manganelli della polizia macedone o i muri ungheresi a fermarli. Tanti di loro prima della guerra avevano un buon lavoro, una casa e una vita dignitosa che ora cercano in qualche paese europeo che voglia accoglierli. Sanno già che una volta arrivati alle porte dell'Ungheria, dovranno pagare 1500 euro a qualche trafficante di uomini per attraversare la frontiera clandestinamente.

Per il momento la situazione ai confini è tornata tranquilla dopo le scene di vergogna mondiale della settimana scorsa. I profughi passano, vengono assistiti e poi proseguono oltre. Siamo solo all'inizio però, altri migranti stanno arrivando e altri ancora continueranno ad arrivare mettendo in allarme gli altri paesi vicini. La Bulgaria si è dichiarata pronta a contenere l'ondata migratoria mettendo in allerta le forze speciali. Il primo ministro croato, il socialdemocratico Milanovic ha invece dichiarato che il suo paese è pronto ad accogliere i profughi in base a quelle che sono le proprie possibilità. “Non si tratta di sacchi di patate ma di persone disperate che non possiamo attendere con i manganelli in mano come successo in Macedonia.” Al di là delle posizione dei vari stati, sarà difficile fermare decine di migliaia di persone disposte anche a morire pur di raggiungere una vita degna in qualche angolo d'Europa.

di Marko Urukalo

Huffington Post
26 08 2015

È nata nel 2004 per porre fine all'estrema frammentazione della sinistra ellenica, in contrapposizione a centrodestra e centrosinistra, "entrambi figli del neoliberismo". Il Pasok come Neo Democratia. A tale principio non è mai venuta meno. In greco significa "coalizione della sinistra radicale".

È diventata un partito unico soltanto dopo un lungo e farraginoso processo interno. E, soprattutto, alle elezioni di gennaio - rompendo con quel bipolarismo corrotto e screditato - ha rappresentato agli occhi dei greci l'unica alternativa credibile per uscire dai memorandum e dall'austerity. Grazie alla contaminazione coi movimenti, anche più radicali, e a significative pratiche di autorganizzazione e mutualismo dal basso (mense popolari, farmacie e ambulatori gratuiti, cooperative socio-lavorative, scuole popolari, riallacci delle utenze per i bisognosi) supplendo alle manchevolezze dello Stato, ha incarnato la speranza di cambiamento.

La forza di Syriza: un partito radicato socialmente, vicino ai movimenti, e coerente. Ecco, quella Syriza, presa come modello da molte sinistre europee, va a pezzi. In frantumi. La fine di un'esperienza, almeno quella conosciuta finora. Si apre per il partito una seconda fase, da scoprire. Dopo la pace punitiva inflitta ad Alexis Tsipras all'Eurogruppo del 12 luglio scorso, siamo ad un'altra schiacciante vittoria delle Istituzioni: la scissione di Syriza rientra, infatti, nei piani originari della Troika che ora ha da gioire.

Sarebbe riduttivo banalizzare il tutto come una divisione interna tra "duri e puri" e "moderati". Le cose, spesso e volentieri, sono più complesse. In Italia si tende purtroppo a banalizzare, tifare ed etichettare. Alexis Tsipras da nuovo Che Guevara è diventato, per qualcuno, un "traditore"; altri che prima lo definivano un "populista euroscettico" ora lo elogiano come politico responsabile. Tante parole, pochi ragionamenti e consapevolezza dei fatti. Andiamo con ordine.

Tsipras non è passato al soldo della Bilderberg né nel campo dei nemici, ma sicuramente - come lui stesso ammette - ha commesso gravi errori durante i 5 mesi di trattativa con l'Eurogruppo. Innanzitutto ha sottovalutato i rapporti di forza con quell'Europa che ha gettato (per suo merito, va detto) definitivamente la maschera e mostrato il proprio crudele volto; in qualche momento il leader ellenico ha ipotizzato, e sognato, che la piccola Grecia potesse cambiare l'Europa. Che Davide potesse sconfiggere Golia.

Una sottovalutazione dovuta dalla mancata consapevolezza del ruolo del Pse nella partita. Convinto che Francia e Italia, Hollande e Renzi, dopo la vittoria referendaria dell'OXI ad Atene, avessero sostenuto la sua posizione all'interno dell'Eurogruppo rompendo il proprio isolamento. Non è avvenuto, anzi. Il Pse si è schierato con Angela Merkel invitando la Grecia a rientrare nei ranghi. Infine, l'errore più grande: non aver mai ipotizzato un piano B. L'accusa mossa dall'ex ministro delle Finanze, dimissionario, Yannis Varoufakis il quale, in una recente intervista al giornale Journal du Dimanche oltre a criticare Tsipras, bacchetta Hollande:

"La logica di Schäuble è semplice: la disciplina è imposta alle nazioni in deficit. La Grecia non è poi così importante. Il motivo per cui l'Eurogruppo, la Troika, il Fondo monetario internazionale hanno speso così tanto tempo per imporre la propria volontà su una piccola nazione come la nostra, è che siamo un laboratorio di austerità. Ciò è stato sperimentato in Grecia, ma l'obiettivo è ovviamente quello di infliggerlo alla Francia, per il suo modello sociale, il suo diritto del lavoro".

Insomma, punire la Grecia per educare la Francia e l'Italia. I veri obiettivi.

Chiudendo l'accordo all'Eurogruppo e il recente piano di salvataggio, Tsipras ha eluso il programma elettorale di Salonicco deludendo le aspettative di quel popolo che si era schierato al referendum, col 63 per cento, contro un nuovo, ennesimo, memorandum. Ha dovuto ingoiare la cicuta e snaturare i suoi piani originari partendo da una fondamentale premessa: la maggioranza dei greci - sondaggi alla mano - vuole ancora rimanere nell'eurozona e nella moneta unica.

La sua partita è in chiave europeista, ad essa non vede vie di fuga, e adesso punta all'alleggerimento del debito e a politiche per tutelare i cittadini più deboli all'interno della cornice del memorandum. Cosa ardua. Quasi un'impresa. Ci riuscirà? Del sano riformismo sociale che si posizionerebbe sul crinale scivoloso lungo cui cercare di modificare da dentro l'Unione europea. Prospettiva che guarda alla possibilità di costruire un asse con altri Stati, in particolare con la Spagna di Podemos, l'Irlanda dello Sinn Fein e la Gran Bretagna di Corbyn. Si sarebbe persa una battaglia il 12 luglio, non la guerra.

Le divergenze in Syriza sono sul piano strategico. La minoranza di Panagiotis Lafazanis ha deciso di andarsene per fondare Unità Popolare pensando di rompere con l'Europa: "Non possiamo lasciare orfani i greci che non vogliono quest'Europa". La Grexit come piano B da giocarsi, mentre Tsipras avrebbe tradito il popolo ellenico. Una prospettiva no euro che guarda con simpatia al ritorno alla dracma.

Il vero tema - che interroga tutti noi - è quindi l'Europa e la sua capacità di modificarla dal suo interno o meno. Intanto si palesa, in Grecia, una terza fazione. Quella del segretario dimissionario del partito, Tasos Koronakis (così anche Varoufakis, per intenderci), che critica Tsipras ma non ha seguito la scissione di Lafazanis. Una visione europeista, ma più intransigente rispetto a quella di Tsipras.

E ora? Chi vincerà le elezioni? Proprio sull'Huffington Post, la direttrice Lucia Annunziata scriveva giustamente qualche giorno fa:

"Tsipras ha manovrato la leva elettorale con spericolatezza, sapienza, furbizia e cinismo. In pochi mesi ha vinto nelle urne con un programma di sfida all'Europa, poi ha fatto un referendum per avere dalla sua parte di nuovo i cittadini nel "no" alle condizioni poste dall'Europa, e oggi, dopo aver ottenuto un accordo con i creditori, va di nuovo alle urne per chiedere al popolo di esprimersi con lui o contro di lui. Una vera e propria partita a scacchi, una sorta di permanente guerra di posizione per via di ballottaggio. Su abilità e coraggio, nulla da dire".

Abilità e coraggio. Ma anche furbizia, decisionismo e strategia. Tsipras ha bruciato tutti sul tempo. Dando le dimissioni già in agosto, Lafazanis - seguito comunque da pezzi da 90 del partito come lo storico partigiano Manolis Glezos - è stato costretto ad anticipare i tempi della scissione. Neanche le forze contendenti (Neo Demokratia e Alba Dorata) sembrano pronte per una competizione elettorale, ancora alle prese con vicissitudini interne. Si voterà quasi certamente il 27 settembre, quel giorno dovrebbe essere rieletto Alexis Tsipras con l'Unità Popolare di Lafazanis - sostenuta da alcuni movimenti - data nei primi sondaggi tra il 5 e l'8 per cento.

Rivincerà Tsipras, un leader a cui i greci non vedono alternativa. Rivincerà Syriza, una Syriza 2.0, diversa da quella conosciuta finora. Perché la Syriza di "lotta e di governo" è durata soltanto 6 mesi al potere. Da gennaio a luglio. Ed è una sconfitta per tutti, che dovrebbe far riflettere. E una vittoria della Troika.

di Giacomo Russo Spena

 

Undici melanconici punti sul divenire della situazione greca

  • Martedì, 25 Agosto 2015 11:36 ,
  • Pubblicato in Flash news

Communianet
25 08 2015

1. Avevamo capito che Syriza, vinte le elezioni in Grecia, avesse come parola d’ordine un vigoroso “no” all’austerità; che avrebbe quindi categoricamente respinto tutte le condizioni antisociali, regressive, minacciose dei più elementari principi dell’aspirazione all’uguaglianza e a una vita accettabile per gli strati popolari, poste per il loro prestito dalle varie autorità finanziarie e dalle loro coperture europee. Molti allora si rallegravano per la possibilità che emergesse finalmente, in Europa, un orientamento politico del tutto diverso dal consenso reazionario in cui tutti gli Stati, da trent’anni, mantengono le rispettive opinioni pubbliche, spontaneamente o con la forza.

2. Naturalmente, era già possibile trovare non pochi argomenti per mitigare questa speranza. Non foss’altro, il termine molto infelice di “austerità”, che lasciava intendere che avremmo potuto ottenere il contrario (che poi, cosa sarebbe? Il “benessere”?) senza grandi cambiamenti. In un momento in cui tutto sembrava indicare che gli avversari, la gente al potere e i loro mandanti dell’economia selvaggia mondializzata, non avevano la minima intenzione di cambiare alcunché, anzi intendevano consolidare e aggravare la tendenza dominante, di cui sono i gestori e da cui traggono benefici. Si avvertiva anche il pericolo che rappresentava l’accettazione, per arrivare al potere, di regole immutabili: elezioni, maggioranze incerte, scarso controllo sull’apparato statale, ancor meno sulle potenze finanziarie, tentazione organizzata del compromesso corruttore. In breve era chiaro come il margine di manovra fosse molto ristretto. Infine, si vedeva che Syriza non avesse davvero, con le masse, legami politici saldi e organizzati: il suo era un successo d’opinione, versatile per definizione, e soprattutto incontrollato, senza garanzia contro l’assalto, interno ed esterno, degli opportunismi secondo cui pervenire al potere e restarvi è l’unica regola. Per tutti questi motivi io appartenevo al campo degli scettici.

3. Debbo confessare però che se i cinque mesi di “trattative” senza che il governo Tsipras prendesse una qualche iniziativa spettacolare, erano stati scoraggianti e avevano rafforzato il mio argomentato pessimismo, la decisione di ricorrere al referendum e, più ancora, il suo eccellente risultato (un “no” franco e massiccio ai creditori) si potevano invece interpretare come l'apertura, finalmente, di una fase politica assolutamente nuova. Sembrava che all’ordine del giorno vi fosse una vera avventura, in una ritrovata dialettica tra lo Stato e il suo popolo. Ho testimoniato io stesso su queste colonne [di Libération] questa viva speranza.

4. Possiamo dire che non se ne è fatto niente e che la mia è stata una valutazione sbagliata.

5. Come abbiamo immaginato, a quanto pare a torto, che potesse accadere? Semplicemente, pensando che il governo greco e Alexis Tsipras scegliessero una nuova tappa della loro politica decidendo di ricavare le conseguenze solo e soltanto del referendum. Il che significava dire: ormai c’è un mandato popolare imperativo per rifiutare, categoricamente - del resto, in conformità con il nocciolo duro del programma di Syriza – le misure richieste dai creditori. E questo andava detto non solo senza dichiarare che la Grecia lasciava l’Europa ma, assolutamente al contrario, dichiarando esplicitamente e con forza che sarebbe rimasta in Europa – come vuole la maggioranza dei greci. E che le decisioni greche d’ora in poi, prese dallo Stato sotto l’autorità e la sorveglianza di un popolo mobilitato, avrebbe fornito, a tutti i popoli e a tutti i governi, l’esempio di un nuovo e libero modo di stare in Europa.

6. Era possibile, sulla scia del referendum, rinviare la palla nel campo degli eurocrati, in questi termini: “noi stiamo in Europa e nell’euro, ma abbiamo ricevuto dal nostro popolo il mandato per il rifiuto categorico delle vostre condizioni. Le trattative vanno riprese senza ripetere il grave errore di queste condizioni che, il referendum lo dimostra, lavorano contro l’Europa dei popoli e non per essa”. Questa doveva essere la solenne dichiarazione la sera del referendum.

7. La politica esiste solo se si sostituisce al problema posto dagli avversari un altro problema. L’avversario dice: “o mi ubbidite, oppure lasciate l’Europa”. È lui e solo lui a creare e brandire il Grexit. Il governo greco non doveva in alcun modo rispondere recitando lo stesso spartito degli europei, con la cattiva mamma tedesca, il gentile ma pavido papà francese e il monello ragazzo greco. Sceneggiata in cui, purtroppo, sembra che alla fine Tsipras si sia infilato. Perché non rispondere instancabilmente: “il Grexit non è nel nostro orizzonte. Non se ne parla neanche. Il nostro problema è: o voi cambiate le vostre condizioni dopo la trattativa, o noi inauguriamo in Europa, da cui voi non avete alcun modo di espellerci, assumendocene tutte le implicazioni, un altro modo di affrontare la crisi, un altro modo al quale proponiamo che si ricolleghino se ne sono capaci tutti i governi e tutte le forze politiche disponibili nell’intera Europa”?

8. In altri termini: probabilmente non c’era, quanto alla questione monetaria, un piano B immediatamente praticabile (e ancora non è del tutto sicuro), ma c’era, e bisognava portarlo avanti senza cedimenti, un problema politico B, irriducibile al problema “accettate, oppure è il Grexit!”. Ma non è stato questo l’atteggiamento di Tsipras e del gruppo che lo consiglia e lo appoggia. Hanno accettato di recitare la parte dello scolaro capriccioso, ma che farà progressi, nell’opera teatrale montata dal serraglio capitalista europeo. Si sono lentamente ma sicuramente posti nei termini del problema decisi dall’avversario, continuando a farlo giorno dopo giorno, facendo credere solo che fosse un bene che ci siano loro al governo piuttosto che gli altri partiti greci (altri partiti con i quali ben presto governeranno!). In realtà, se le cose stanno come dicono loro stessi che stiano, andarsene sarebbe più dignitoso, preparando infinitamente meglio il futuro. Questo tipo di capitolazione è peggiore della molle e abietta acquiescenza dei precedenti governi, perché indebolisce ancora di più l’idea, già molto sofferente in Europa, di una reale indipendenza politica, e questo in cambio di guadagni insignificanti, se non al prezzo di un aggravamento sensibile della situazione popolare.

9. In tutta questa faccenda, il referendum, e solo questo, creava uno spartiacque. Il governo aveva fatto appello al popolo. Il popolo aveva risposto positivamente, attendendo che il governo la mettesse agli atti. Era un momento unico. Ma Alexis Tsipras ha “risposto” dicendo… che avrebbe continuato a fare come prima. Ha rifiutato ogni coerenza, nelle concrete decisioni politiche, con ciò che lui stesso aveva organizzato. Un simile atteggiamento non è nemmeno etichettabile come di destra o di sinistra: Tsipras e i suoi consiglieri si sono dimostrati incapaci di fare ciò che sono riusciti a fare non dico grandi rivoluzionari, ma conservatori come de Gaulle o Churchill. Non hanno voluto o non sono riusciti a prendere – il che, questo è vero, accade di rado – una vera decisione politica: quella che crea una nuova possibilità, di cui occorre esplorare le conseguenze, mobilitando, ben al di là delle sole autorità politiche, tutti coloro che sono presi dall’urgenza dell’agire. Non hanno adottato nei confronti dei burocrati europei lo stile di Mirabeau e dei deputati del terzo stato nel 1789, cui il re aveva ingiunto di sciogliersi: “Noi siamo, come voi, in Europa e nell’euro. Al contrario di voi, siamo portatori, per volontà popolare, di un’altra visione sia dell’Europa sia dell’euro. Se volete il Grexit, ditelo chiaramente, e quindi provate ad infliggercelo con la forza!”.

10. Per farla breve, l’errore di Tsipras e del suo gruppo, a mio avviso, è semplicemente di non aver fatto politica quando, miracolosamente, e forse per poche ore (la sera del referendum?) farla dipendeva da loro. Dopo questo cedimento, temo che torneremo all’ordinario tran tran. La Grecia non significherà più niente per nessuno, pagherà quel che può, la gente sarà un po’ più demoralizzata e miserabile, e si dimenticherà tutto questo episodio nel grande caos del capitale planetario.

11. Se c’è una lezione da trarre dai grandi momenti della storia, è che l’occasione politica è rara, e che non ritorna. Dopo il XIX secolo, si può definire così la socialdemocrazia: mai cogliere nella pratica l'occasione rara di produrre una possibilità politica nuova. Anzi, al contrario, lavorare con accanimento a fare come se questa occasione non fosse mai esistita. Alexis Tsipras e la sua squadra governativa sono i nuovi socialdemocratici, di cui il capital-parlamentarismo ha grande bisogno visto il costante logorìo e la debolezza dei vecchi dirigenti? Se cosi fosse, se per l’ordine stabilito e per la sua salvaguardia da sinistra fosse solo il momento del ricambio, non parliamone più. Se invece nuove peripezie, inclusa la strutturazione e l’ascesa in forze della frazione di Syriza che si oppone all‘attuale andamento delle cose, dimostreranno che la ricerca di una nuova strada politica su scala europea, se non mondiale, è ancora viva in Grecia, ce ne rallegreremo senza riserve.

*Fonte: http://www.liberation.fr/monde/2015/08/20/onze-points-melancoliques-sur-.... Traduzione italiana di Titti Pierini su http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=a... rivista da noi.

Essere Sinistra.com
24 08 2015

[Prima di partecipare alla Festa della Rosa di Frangy-en-Bresse, Yanis Varoufakis concede una breve intervista al Journal du Dimanche – JDD. Ecco la traduzione dell’intervista di Cécile Amar]

Come interpreta le dimissioni di Alexis Tsipras?

Il 12 luglio, contro il mio parere e quello di molti altri membri del governo e del partito, Alexis Tsipras ha deciso di accettare le misure di austerità proposte dallEurogruppo nel vertice europeo. Che vanno in contrasto con tutta la filosofia di Syriza. La sua maggioranza si è ribellata. La sua conclusione è stata semplice: se vuole ripulire il partito, ha bisogno di nuove elezioni.

Lei sarà candidato?

No, non voglio essere un candidato a nome di Syriza. Syriza ora sta adottando la dottrina irrazionale alla cui mi sono opposto per cinque anni: estendere ulteriormente la crisi e sostenere che si è risolta, pur mantenendo un debito impagabile . Sono stato estromesso perché io stesso mi opponevo.

E’ proprio contro questa logica che avevo già rotto con Papandreou. Alexis Tsipras aveva scelto me perché gli si opponeva. Ora che ha accettato la logica che respingo, non posso essere candidato.

Al momento che questo piano è stato messo a punto, Hollande ha detto che la Grecia si sarebbe salvata. Aveva torto?

(Ride). Credo che Francois Hollande sia profondamente, sostanzialmente bloccato. Nicolas Sarkozy ha già detto nel 2010 che la Grecia è stata salvata. Nel 2012, la Grecia è stata salvata. E ora, siamo ancora salvi! Questa è una tecnica per nascondere la polvere sotto il tappeto facendo finta che non ci sia più. L’unica cosa fatta, il 12 luglio, è stato infliggere un grande schiaffo alla democrazia europea. La storia giudicherà severamente quello che è successo quel giorno e soprattutto i nostri leader che continuano questa farsa.

Perché dice che l’obiettivo dei creditori e di Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco, è in realtà la Francia?

La logica di Schäuble è semplice: la disciplina è imposta alle nazioni in deficit. La Grecia non è poi così importante. Il motivo per cui l’Eurogruppo, la troika, il Fondo monetario internazionale hanno speso così tanto tempo per imporre la propria volontà su una piccola nazione come la nostra, è che siamo un laboratorio di austerità. Ciò è stato sperimentato in Grecia, ma l’obiettivo è ovviamente quello di infliggerlo alla Francia, per il suo modello sociale, il suo diritto del lavoro.

“Nei vertici europei, la Francia non ha alcuna autorità”
Mentre era ministro, come si comportava la Francia?

All’interno dei vertici europei, in seno all’Eurogruppo, ho sentito che il governo francese non aveva alcuna autorità per difendere o addirittura presentare semplicemente il proprio punto di vista e perchè venga tenuto in conto nel processo di negoziazione. Sono cresciuto con l’Illuminismo, l’idea che anche la Francia è stato fondamentale nella creazione dell’Unione europea. Nell’avere tutto questo in mente, il silenzio dei francesi, sia di Michel Sapin all’interno dell’Eurogruppo, il fatto che una posizione diversa francese non è mai stata assunta ha provocato in me una grande tristezza.

Vuole lanciare un movimento europeo contro l’austerity?

A Frangy, lancerò una rete progressista europea. Nei giorni terribili della dittatura greca, i nostri genitori e nonni erano in Germania, Austria, Canada, Australia, per la solidarietà espressa verso la sofferenza greca. Non vengo in Francia per chiedere solidarietà alla Grecia. Ma i problemi che ha di fronte la Francia sono uguali come altrove. I francesi e i cittadini di altri paesi sono preoccupati per quello che ho da dire, perché sono preoccupati per lo stato della democrazia, l’economia, le prospettive future.

Se lei fosse il primo ministro in Grecia o Arnaud Montebourg fosse presidente della Repubblica in Francia, sarebbe davvero diverso?

Non è una questione di persone. Sono sicuro che ci sono persone valide nel governo francese e altrove. I cittadini devono riappropriarsi del cammino europeo. Se i tedeschi, i francesi, gli italiani, gli olandesi, gli spagnoli diventassero consapevoli della totale mancanza di responsabilità e opacità dei loro capi nei confronti dell’elettorato, si sarebbero già svegliati e chiederebbero che vada in modo diverso. Dobbiamo rilanciare il dialogo e ripristinare ciò che è stato perso completamente: la democrazia.

Dinamo Press
24 08 2015

Al confine tra Grecia e Macedonia fitto lancio di lacrimogeni e granate assordanti sui migranti in fuga da Siria, Iraq e Afghanistan. Le barriere di filo spinato sono state sfondate e in molti hanno aggirato il cordone delle forze di polizia

In questo momento, tra il villaggio greco di Idomeni e la città macedone di Gevgelija, migliaia di migranti stanno cercando di forzare il blocco delle forze dell’ordine che gli impedisce di entrare in Macedonia. Queste persone, di cui la maggior parte provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan, sono da giorni ammassate al confine che separa i due Stati, in attesa di poter passare e arrivare poi, tramite la Serbia, in Ungheria e quindi nell’Unione Europea.

Tra loro e la Macedonia li separa un fitto cordone di forze dell’ordine: appena i migranti chiedono a gran voce di poter passare e raggiungere il Nord Europa – “Non vogliamo stare in Macedonia, fateci andare via”, ripete stremato un signore a cui nessuno darà ascolto – la polizia carica con i manganelli, usa le granate stordenti, lancia lacrimogeni in mezzo alla folla. Non importa se quelle davanti a loro sono persone, non importa se ci sono donne incinte, persone anziane, bambini di pochi mesi: l’unica cosa che conta è rimandare indietro quella massa informe vista solo come un enorme problema.

A chi si trova in questo momento tra Grecia e Macedonia, non è riconosciuta nemmeno un briciolo di quella dignità di cui si parla nella Dichiarazione universale dei diritti umani in cui, almeno teoricamente, si riconosce l’Unione Europea. Chi si trova in questo momento tra Grecia e Macedonia non è visto nemmeno come persona, ma solo come un problema, un fastidio da mandare indietro.

La paranoia degli stati è arrivata a un punto tale che l’Ungheria, primo paese europeo raggiungibile attraverso la rotta dei Balcani, sta costruendo un muro al confine con la Serbia per impedire ai migranti di entrare nel proprio paese. In realtà, l’Ungheria non è il primo Stato membro dell’Unione che sta iniziando a delimitare i propri confini: pure la Bulgaria sta costruendo un muro al confine con la Turchia, così come l’ha già costruito la Grecia durante il governo Papandreou nel 2011.

La risposta a guerra, morte e disperazione data dagli Stati europei è quella dei muri e dei respingimenti: le popolazioni e i governi si strappano i capelli e fanno la voce grossa di fronte alla minaccia dell’Is ma intanto lasciano morire le sue vittime. Quest’ultime sono da compatire finché sono lontane dagli occhi e compaiono solo in qualche video sul giornale, ma sono da odiare, uccidere e respingere qualora si azzardino a cercare riparo all’interno della civile Europa.

Attualmente tra Idomeni e Gevgelija molti dei migranti sono riusciti a forzare il blocco e sembra che ne siano passati attualmente duemila. La polizia ha risposto con un fitto lancio di lacrimogeni e granate assordanti, provocando il panico tra tutti quanti: molti sono i bambini che si sono persi nella confusione e che non riescono a ritrovare i loro genitori. Tanti sono rimasti feriti duranti gli scontri e nemmeno un dottore è andato a controllare le condizioni di chi si è fatto o si è sentito male. È in corso un’emergenza umanitaria e agli Stati – nessuno escluso – non importa nulla. O meglio, importa: ma solo finché non tocca i propri preziosissimi confini.

di Natascia Grbic

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