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Dove sta Corcolle

  • Martedì, 30 Settembre 2014 10:22 ,
  • Pubblicato in DINAMO PRESS
Giardini di CorcolleAntonello Sotgia, Dinamo Press
29 Settembre 2014

Perché la scelta di fare di Roma una città diffusa è servita ai signori della rendita. Un tempo abusivi oggi proprietari sempre tenuti lontano dal poter decidere di che fare della città e dei propri diritti.

Corriere della Sera
29 09 2014

Sempre più numerosi gli stranieri nelle scuole italiane. Uniti in classe, separati al pomeriggio: secondo un sondaggio di Skuola.net, a frenare sono i genitori italiani

di Antonella De Gregorio

I ragazzi non conoscono barriere. Non puntano a isolarsi, creare gruppi chiusi. Non quanto gli adulti, almeno. Lo rivela un’indagine realizzata da Skuola.net per Corriere Scuola, che indaga come gli studenti italiani vedono i compagni stranieri e viceversa. Gli studenti che hanno risposto al sondaggio, un migliaio circa (divisi proporzionalmente in maniera analoga alla popolazione scolastica: 10% stranieri e 90% italiani), hanno permesso di scattare una fotografia di ragazzi che tendono a integrarsi e a frequentarsi fuori dalla scuola, a far amicizia tra di loro, senza distinzioni o chiusure in gruppi etnici. A fare resistenza, sarebbero piuttosto i genitori. Il 65% dei ragazzi afferma infatti che «i compagni stranieri sono uguali a tutti gli altri», il 75% degli stranieri dice di «voler fare amicizia con tutti», indistintamente. Ma sono le risposte relative agli scambi di visite per «fare i compiti insieme» a mostrare i muri che dividono: le occasioni di scambio capitano «spesso» al 12,9% dei ragazzi italiani, qualche volta al 44,9%, mai al 33,7%. E 8,5 italiani e 10 stranieri ogni 100 rispondono decisamente «no, perché i miei genitori non vogliono». In generale, i rapporti tra le due popolazioni sondate sono buoni per la maggioranza (72,7% è la risposta degli italiani; 61,6% dicono gli stranieri. Solo il 4,2% afferma che la diversità dei compagni crea diffidenza; il 30,5% riconosce la diversità, ma - dicono anche - «la cosa non mi condiziona».

Prove di integrazione
E però la cronaca parla di classi dove a far notizia è l’unica bambina con passaporto italiano che siede tra i banchi. E altre in cui il primo giorno di lezione i bambini si ritrovano divisi: stranieri in una stanza, italiani in un’altra. Scuole dove su dieci alunni, 8 non conoscono (o parlano poco) l’italiano. E poi ci sono avamposti del «meticciato» dove il numero di stranieri cresce anno dopo anno e gli italiani ritirano i figli e li iscrivono altrove. Succede a Padova; a Pratola Peligna, piccolo comune dell’Abruzzo; a Bologna; a Milano. Prove monche di integrazione, nelle scuole di un Paese dove siedono tra i banchi 850mila alunni di 190 nazionalità diverse, due volte più di dieci anni fa. E dove le sforbiciate alle spese hanno ferito anche il tessuto sottilissimo e delicato della formazione degli insegnanti e dell’orientamento dei ragazzi e delle famiglie.

Tagli
Sono spariti gli insegnanti di Italiano Lingua2, per esempio. Gli enti locali hanno sempre meno risorse e sono costretti a tagliare le ore di alfabetizzazione. Volatilizzate le ore di compresenza, che nelle classi a tempo pieno permettevano di fare recupero, lavorare a gruppi. Si toglie, mentre il numero di alunni stranieri aumenta: altri 30mila, nel 2014/2015, che vanno a gonfiare le statistiche. E che compariranno nel prossimo numero del rapporto annuale Miur-Ismu sugli «alunni con cittadinanza non italiana», che verrà pubblicato in marzo. «Erano 786.630 all’ultima rilevazione, l’8,8% della popolazione scolastica; oggi sono il 9,6%» conferma Vinicio Ongini, uno fra i massimi esperti di multiculturalità nella scuola italiana. Che aiuta a leggere tra i numeri: «Aumentano i nati in Italia: sono il 50%, spesso hanno fatto l’asilo o le elementari con i bimbi italiani e parlano l’italiano come e meglio di loro; calano - al 4% - i “neoentrati”, il segmento più critico: arrivano di solito per ricongiungimenti familiari, non conoscono la lingua e il più delle volte hanno un’età critica per la socializzazione».

L’Osservatorio
Per seguirne l’inserimento, per studiare le criticità, suggerire politiche scolastiche e nuove modalità di didattica e verificarne l’attuazione, è stato da poco costituito l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri. «In realtà ri-costituito - precisa Ongini - Nato nel 2006, con il governo Prodi, dal 2008 non veniva più convocato. Si ripromette di unire periodicamente intorno a un tavolo, ma anche di far dialogare a distanza, rappresentanti di alti uffici governativi, grandi associazioni internazionali e dirigenti scolastici delle scuole più multiculturali d’Italia, da Milano, a Roma, Trieste, Prato, Ancona. Realtà «ad alto impatto» (dove, cioè, la presenza di alunni con cittadinanza non italiana supera il 50%). Non sono moltissime, circa 450, concentrate per lo più al centro-nord (e 4 quelle dove la percentuale di stranieri è del 90%). Sono però la dimostrazione che non ha funzionato la famosa circolare Gelmini del 2010 che voleva imporre un tetto di presenza straniera del 30%. E rischiano di diventare enclave di gioventù di origine immigrata, isolate rispetto alla realtà degli autoctoni e lontane dall’idea di una multietnicità equilibrata, nonché dall’obiettivo di una piena integrazione.

Razzismo «istituzionale»
Il meccanismo che produce un’alta concentrazione di stranieri nelle classi, con inevitabili ripercussioni nella didattica, l’ha attentamente studiato Ivana Bolognesi, docente di Pedagogia all’Università di Bologna ed esperta di intercultura. Quando viene meno una politica capace di regolare flussi migratori molto consistenti, di disseminare l’arrivo dei nuclei familiari in tutti i centri abitati circostanti alle zone produttive, si creano forme di «razzismo istituzionale», spiega. Un razzismo «senza attori, che non agisce direttamente sull’immigrato, ma che produce la separazione e la ghettizzazione degli immigrati: gli italiani se ne vanno, mettendosi al sicuro in “scuole di italiani”». È successo a Padova, nella scuola materna Il Quadrifoglio, diventata un caso nazionale dopo la denuncia della mamma dell’unica bimba italiana tra 65 piccoli, figli di arabi, indiani, bengalesi, nigeriani, cinesi, rumeni e moldavi. E prima è successo a Luzzara (Reggio Emilia): 20 bambini in una prima elementare, tutti di origine straniera. O a Milano, in via Paravia, 18 iscritti, ma al primo giorno gli italiani si sono ritirati e si sono presentati 12 alunni in tutto. Nascono classi-ghetto, dove l’integrazione degli alunni stranieri diventa un miraggio e l’apprendimento degli allievi italiani rischia di subire un notevole rallentamento. Che fare? «Tocca a enti locali e istituzioni intervenire e gestire le iscrizioni, evitare concentrazioni di “conflittualità” e promuovere progetti volti all’integrazione tra gruppi culturali differenti. La scuola non può fare tutto», dice Bolognesi. «E va monitorato lo spostamento di famiglie italiane da una zona all’altra della città, non per la presenza di stranieri ma per degrado ambientale, disinvestimento delle politiche sociali-abitative». Le scuole, insomma, sono la punta dell’iceberg di un disagio che ha radici più ampie. Ma è in classe che si condensa la paura della diversità, che si avverte la minaccia per la propria lingua, la religione, i riferimenti culturali. La propria identità. «La scuola deve essere in grado di attivare al suo interno la partecipazione e il confronto tra genitori, riflettere sul dialogo come principio educativo indispensabile alla costruzione di processi di confronto e di scambi, di gestione dei conflitti, di superamento del reciproco “etnocentrismo”». E, sostiene la pedagogista «svolgere un ruolo propositivo, fatto di scelte educative e didattiche che possono rendere la qualità dell’offerta formativa elevata per tutti».

Cina: per i matrimoni misti, incentivi dal governo centrale

  • Martedì, 02 Settembre 2014 13:25 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO

Il Manifesto
02 09 2014

L’importanza dell’integrazione nella Cina con­tem­po­ra­nea, ha par­to­rito una misura che ten­derà a favo­rire le «cop­pie miste». Gli appar­te­nenti alle etnie uighure e mon­gole, quando si spo­se­ranno con un una o un mem­bro dell’etnia han, quella domi­nante in Cina (gli han sono quelli che gene­ral­mente defi­niamo «cinesi»), otter­ranno degli incen­tivi eco­no­mici, sotto forma di sus­sidi sani­tari e per l’educazione dei figli.

Il pro­getto pilota, stando a quanto pub­bli­cato nei giorni scorsi dal Finan­cial Times, dovrebbe par­tire nella con­tea di Cher­chen, nella zona meri­dio­nale della regione auto­noma dello Xin­jiang.

Per le nuove cop­pie spo­sate il governo met­terà a dispo­si­zione 10mila Rmb, poco più di un migliaio di euro, una cifra molto più alta delle entrate annuali di un con­ta­dino di quelle zone (il red­dito medio annuo nell’intera regione è poco più di 7mila Rmb). «La Con­tea di Cher­chen ha parec­chie mino­ranze con le pro­prie cre­denze reli­giose, ma attra­verso i matri­moni misti con l’etnia han, pos­siamo raf­for­zare l’unità etnica», ha com­men­tato un fun­zio­na­rio cinese al Finan­cial Times.

L’obiettivo di Pechino è quello di pla­care le spinte auto­no­mi­ste e indi­pen­den­ti­ste, ren­dendo meno forte la dif­fe­renza cul­tu­rale e degli stili di vita tra gli uighuri, l’etnia ori­gi­na­ria e un tempo mag­gio­ri­ta­ria dell’area, e i cinesi han.

Nell’ultimo anno ci sono stati nume­rosi atten­tati, il Par­tito ha com­ple­ta­mente mili­ta­riz­zato la zona, arre­stando e con­dan­nando a morte decine di «ter­ro­ri­sti». I movi­menti auto­no­mi­sti, stando alle indi­ca­zioni di Pechino, sareb­bero arri­vati anche ad orga­niz­zare l’attentato di alcuni mesi fa, pro­prio di fronte alla foto di Mao nella Tia­nan­men, creando un panico peri­co­loso tra i fun­zio­nari. La regione spesso è com­ple­ta­mente chiusa, a gior­na­li­sti e turisti.

Gli uighuri anche nelle altre città cinesi sono spesso al cen­tro di feno­meni ed epi­so­dio di raz­zi­smo. Gra­zie alla cam­pa­gna «Go West», il governo ha deciso di inve­stire nelle aree occi­den­tali, dive­nute il ful­cro della nuova ondata di urba­niz­za­zione e diven­tando il perno delle poten­ziali nuove vie della Seta che Pechino sta tes­sendo nel sem­pre più com­pli­cato gioco diplo­ma­tico internazionale.

Anche in que­sto caso, come per Hong Kong, il Par­tito vuole assi­cu­rarsi una peri­fe­ria sotto con­trollo, capace di «armo­niz­zarsi» in modo auto­nomo e non per forza gra­zie ai mili­tari e alle con­danne a morte di pre­sunti terroristi.

All'indomani dei funerali di Michael Brown, il diciottenne nero ucciso da un poliziotto bianco in Missouri, questi dati fanno riflettere sul futuro di un'America sempre più multicolore, dove però le tensioni razziali non si sono affatto spente. ...

Napoli, il campo 2.0

  • Mercoledì, 20 Agosto 2014 13:43 ,
  • Pubblicato in Flash news

Corriere delle migrazioni
20 08 2014

Un progetto di inserimento sociale, o un altro ghetto? Un’esperienza di “superamento dei campi nomadi”, o un ennesimo campo magari un po’ più “ecologico” del solito? Una proposta innovativa e sperimentale, o la solita zuppa, riscaldata con un po’ di retorica?

Sono questi gli interrogativi che suscita il programma di riqualificazione dell’insediamento rom di Via Cupa Perillo a Napoli, messo in campo dalla giunta De Magistris: e l’impressione è che la posta in gioco di questo dibattito, molto acceso nel capoluogo campano, vada ben al di là dei confini partenopei. Ma per capirci qualcosa, sarà bene procedere con ordine.

Il campo di Cupa Perillo
Cominciamo con qualche notizia sul campo. Via Cupa Perillo si trova nel quartiere Scampia. Si tratta di uno degli insediamenti più noti della città: vi abitano un centinaio di famiglie (circa 400 persone) suddivise in 5 insediamenti minori. I nuclei provengono per lo più dalla ex Jugoslavia, ma molti bambini sono nati in Italia, e sono “napoletani” a tutti gli effetti: il campo esiste da molti anni, un’intera generazione è nata e cresciuta lì, e definirlo “abusivo” oggi suona un po’ come beffa.

Come accade di frequente con i campi “abusivi”, Cupa Perillo è da sempre oggetto di polemiche: negli anni passati, in particolare, i “vicini di casa” si erano lamentati della spazzatura, spesso smaltita con il fuoco da alcune famiglie del campo, e non solo del campo. Una situazione pericolosa per la salute, dovuta per lo più alle carenze nel servizio comunale di raccolta dei rifiuti. Ma questa è un’altra storia, un’altra polemica, e ci porterebbe lontano.

La “riqualificazione” del campo: una piccola storia
Naturalmente, per “risolvere” il (presunto) “problema”, molti chiedevano di sgomberare l’insediamento, e di allontanare senza troppi complimenti i rom che vi risiedevano da decenni. L’amministrazione comunale (per fortuna, verrebbe da dire) decise di seguire altre strade, e già dal 2008 avviò un progetto di “riqualificazione” del campo. Ma proprio qui, come si suol dire, casca l’asino.

Nella prima stesura, infatti, il progetto prevedeva la costruzione di circa 70 “moduli abitativi” (leggi: container di lamiera), in grado di ospitare grosso modo 350 persone: meno degli abitanti effettivi. Che fine avrebbero fatto tutti gli altri? E si può definire “riqualificazione” un intervento che obbliga decine di famiglie ad abitare in container di metallo, gelidi d’inverno e roventi d’estate?

Il progetto, naturalmente, non ha mancato di suscitare contestazioni, soprattutto da parte degli stessi rom. Ma, nel pieno del dibattito cittadino, tutto finì per bloccarsi: nel 2009 si scoprì infatti che una parte dell’area interessata non era di proprietà del Comune, ma di un privato cittadino, che non voleva saperne di mettere a disposizione il suo terreno. Così, tra contenzioni e ricorsi, tutto si fermò.

La vicenda si riapre nell’aprile 2011, quando il Comune decide di “rimodulare” il progetto, e di costruire il “villaggio” in un’area più piccola (corrispondente ai terreni di proprietà pubblica). Nel frattempo, però, ci sono le elezioni e la vecchia Giunta viene sostituita dalla nuova, guidata da De Magistris. Il nuovo assessore al welfare viene sollecitato e incalzato da rom e associazioni: il progetto non va bene, va ripensato tutto da cima a fondo. Insomma, fermate l’autobus, vogliamo scendere…

L’Amministrazione prende atto, sospende l’avanzamento dei lavori e avvia un percorso di “progettazione partecipata”, per il quale viene persino coinvolta l’Università. Finalmente, vien da pensare, un intervento sui rom si fa con i rom e insieme ai rom.

Il progetto definitivo…
Sono passati più di tre anni dall’avvio del percorso di “progettazione partecipata”, e alla fine si è arrivati al progetto definitivo, approvato dal Consiglio comunale partenopeo nel mese di maggio.

Rispetto al disegno originario, ci sono diverse novità di natura – per così dire – “ecologica”. Il nuovo villaggio sarà dotato di pannelli fotovoltaici per la fornitura di energia elettrica; le unità abitative non saranno più container, ma vere e proprie “casette”, costruite con materiali bio-edilizi altamente riciclabili. Accanto agli edifici, saranno allestite delle aree verdi a disposizione degli abitanti. Un progetto “ambientalista”, o almeno così sembra. Ma non è tutto oro quel che luccica.

… e le polemiche
Questo progetto, infatti, non piace a molte famiglie rom che ne sarebbero beneficiarie. E non piace alle associazioni che hanno pazientemente seguito le vicende di Cupa Perillo. Il perché ce lo spiega Francesca Saudino, avvocatessa, dirigente nazionale di OsservAzione e agguerrita sostenitrice dei diritti dei rom: «Si spendono sette milioni di euro», dice Saudino, «per costruire un villaggio per soli rom. Quei soldi vengono in gran parte dall’Unione Europea, e le indicazioni europee ci dicono che gli insediamenti monoetnici sono un errore».

Dove sta l’«errore»? E perché gli insediamenti “monoetnici” sono sbagliati? «Qui in Italia ne abbiamo avuto la prova», ci spiega ancora Francesca Saudino. «Le politiche nazionali in materia di rom e sinti hanno privilegiato i campi nomadi, insediamenti monoetnici appunto. Tutte le leggi regionali che hanno creato i campi parlavano di integrazione sociale, ma di fatto si sono costruiti dei ghetti: sarebbe ora di voltar pagina, dopo più di venti anni di fallimenti. E invece si finisce per fare un altro campo: con abitazioni più dignitose, ma pur sempre un campo. Un campo di case, come lo chiamano i rom…».

Le case “per soli rom”
«Le case per soli rom», aggiunge Marco Marino in un articolo pubblicato sulla rivista Gli Asini, «sono ripensate con tettoie, verande e garage improvvisati, ai balconi hanno fioriere ed improbabili false anfore greche. Ma ci sono anche, per poter lavorare, residui di automobili smontate, e carretti per la raccolta del ferro vecchio. I rom stessi vogliono andare via dal “campo di case” perché vivere lì è fortemente discriminante. Quando si cerca un lavoro, quella zona è sinonimo di rom, ed è difficile trovare un impiego se sulla carta di identità c’è quell’indirizzo».

E poi, dice ancora Marino, le “case per soli rom” creano diffidenza e barriere con la popolazione circostante: «c’è sempre un’ auto della polizia fuori al villaggio, e se è successo qualcosa in città si pensa sia stato un rom, e tutte le case indistintamente vengono perquisite. L’insediamento monoetnico crea un forte controllo sociale e di polizia».

Detto in altri termini, il “villaggio per soli rom” è un po’ come il “villaggio per soli ebrei”: è un ghetto. E i ghetti, per l’appunto, ghettizzano: anche se hanno le fioriere e sono costruiti con materiale bio-edilizio.

Esiste un’alternativa? Giriamo la domanda, ancora una volta, a Francesca Saudino: «l’alternativa esiste eccome», ci spiega, «e sta nella condivisione, nella partecipazione, nel coinvolgimento degli stessi rom nelle politiche che li riguardano. L’alternativa è una vera politica dell’inclusione sociale, che non isoli e non crei nuove marginalità. L’alternativa è il superamento dei campi, come dice anche la Strategia Nazionale di Inclusione, che è pur sempre un documento del governo italiano…».

Che succederà adesso? Le associazioni sono agguerrite e hanno tutta l’intenzione di contestare il progetto. Il Comune, per ora, va avanti. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli

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