Globalist
25 07 2014
Più leggo, prima mi integro: è lo slogan de La casa del giovane la Madonnina per creare una biblioteca per stranieri. Hanno aderito già cinque case editrici.
"Più leggo, prima mi integro": con questo slogan "La casa del giovane la Madonnina" di Milano, al quartiere Gallaratese, ha lanciato una raccolta di libri per creare una piccola biblioteca per i minori stranieri che accoglie. Sono già cinque le case editrici che hanno aderito (Interlinea, Astragalo, Piemme, Babalibri e Terre di mezzo), oltre a numerosi cittadini.
A settembre, poi, con alcune librerie prenderà il via il "libro sospeso": i clienti potranno comprare un libro per la casa del giovane. "Ospitiamo 82 ragazzi, tra i 14 e i 18 anni -racconta Elena Crestani, direttrice della Madonnina-. Sono adolescenti che stanno studiando l'italiano e seguendo corsi di formazione professionale. Crediamo che i libri possano essere uno strumento importante per imparare la nostra lingua e per capire meglio la nuova cultura in cui ora vivono".
Nella struttura di via Falck sono ospitati ragazzi provenienti soprattutto da Egitto, Marocco, Albania, Kosovo e Bangladesh. "Dopo un primo periodo di ambientamento e osservazione, per ogni ragazzo viene steso un progetto personalizzato, in base alle sue aspettative, esigenze e capacità -aggiunge Elena Crestani-. Oltre a imparare l'italiano, li aiutiamo a conseguire la licenza media e poi una formazione professionale. Sono giovani emigrati quasi sempre per cercare un lavoro. E noi cerchiamo di creare le condizioni perché possano realizzare i loro obiettivi".
Dopo le amenità profuse su Mario Balotelli per la sua insolente reazione su Instagram all’ennesimo commento razzista, oggi “Libero” ha dato il via a una nuova campagna di squadrismo 2.0 contro il rapper romano Amir Issaa (nel senso di: nato e cresciuto a Roma, se – porca puttana- dovesse essere necessario precisare.) Amir sarebbe reo di “incitamento all’odio e alla violenza” per il video qui sotto, in cui compare anche il deputato PD Khalid Chaouki, quello che si era barricato insieme ai profughi e migranti nel cosidetto “Centro di accoglienza” a Lampedusa.
Per squadrismo 2.0. intendo quella pratica per cui una testata piuttosto visibile o ben ramificata (giornale o blog noto) inquadra il bersaglio e apre le danze alla diffusione sui social media di messaggi d’odio che vanno dal più gentile “torna in Africa!” agli auspici e alle minacce di morte esplicite, che in questo caso sono valanga.
Sinora il meccanismo dello hate-speech propagato in rete non si è ancora tradotto in violenza fisica organizzata (qualcuno però si è sucididato), ma non è detto che questo rito di sfogo collettivo debba restare per sempre confinato alla realtà virtuale. Chi si serve di questo strumento, oltre a scatenare una indubitabile violenza simbolico-verbale, in ogni caso espone una o più persone con nome e cognome che esistono in carne e ossa a una schiera di nemici anonimi, di cui magari qualcuno possiede qualche mazza o spranga e avrebbe piacere di usarla non solo nelle vicinanze di uno stadio. Questo è naturalmente più facile che avvenga nel caso in cui il bersaglio non sia superfamoso e dunque superprotetto. Ma – sempre naturalmente- questo non è un problema dell’incendiario che si è semplicemente avvalso della sacrosanta libertà d’opinione.
Non mi pare casuale che l’attacco in questione avvenga sulla scia della questione Balotelli, secondo me parecchio sottovalutata da molte persone senza dubbio non razziste, ma qui dovrei fare un discorso diverso (rimando, per chi non l’avesse visto, a un divertente articolo di Quit the Doner) e assai più lungo.
Qui invece il problema mi pare risaltare in modo adamantino. Il problema – per “Libero” e per una grossa pancia assai più gonfia di flatulenze tossiche – è il semplice fatto che gli italiani non “etnici” esistono e sono tanti. Peggio: che hanno coscienza di sé, coscienza dei loro diritti negati o ostacolati con ogni cavillo e mezzuccio sporco (inclusi i costi vergognosi per le pratiche di cittadinaza che partono da 200 euro a capoccia). Coscienza di dover lottare per il proprio riconoscimento, coscienza – in questo caso – di come vorrebbero fosse l’Italia, per loro, ma non soltanto.
Questo è un rap: genere per definizione veicolo di rabbia, ricettacolo di turpiloquio, esaltazione della violenza più disparata e talvolta più schifosa (tipo omofobica, biecamente maschilista, persino nazi), articolato in un sottogenere che si chiama gangsta-rap – nonostante il nome dica tutto, passato come global mainstream beccandosi solo le intermittenti accuse di essere un pelo diseducativo. Solo Jovanotti, con rispetto parlando e per quel che ne sappia, ha sviluppato una versione molto nostrana dove “esiste solo una grande chiesa che passa da CHE GUEVARA e arriva fino a MADRE TERESA passando da MALCOM X attraverso GANDHI e SAN PATRIGNANO…”.
Insomma Amir in questa canzone non dice “volemose bene” o “vogliateci bene, siamo tanto bravi e carucci, come in un poster Benetton” e ha ottime ragioni per non farlo. Rivendica l’assalto al diritto (anche del futuro), prognostica casini se non cambia lo stato delle cose (il ché è diverso dal minacciare o incitare alla rivolta, cosa che tra l’altro, ogni sorta di musicisti anche superaffermati fanno), nomina con disprezzo una parte degli italiani che (gli) fa schifo.
Vale a dire: esprime, con il proprio linguaggio musicale, quella che si chiamava una coscienza politica anche se questa non si esplicita in invito alla militanza e tantomeno sovrastruttura ideologica. E questo, a mio avviso, è utile non solo per loro, i G2, la seconda generazione di immigrati (ossimoro che dovrebbe allappare i denti).
Ius Music (testo)
I miei fratelli sono afro fieri, maghreb e cinesi, filippini con i piedi qua e il sangue da altri paesi, chi ha la madre che lavora nelle case di ignoranti che abbandonano le loro sole in braccio alle badanti. Gente stupida rimasta ancora al medioevo, li sveglio di notte sono l’incubo dell’uomo nero e se il futuro è il nostro lo vogliamo in esclusiva, stanchi di elemosinare diritti e metterci in fila, Da Palermo a Torino scoppierà un casino, se l’Europa è un altra storia se Roma non è Berlino, è la paura di qualcosa che ormai vive qua vicino e non ti salverai in Padania non esiste in nessun libro, Non sono un G2 Italiano col trattino, una Fiat uno col bazooka sul tettino è la storia di un normale cittadino impazzito era clandestino adesso è un assassino.
Questa è Ius Music, Ius Music
Questa è Ius Music, Ius Music
Questa è Ius Music, Ius Music
Non c’è frontiera quando la mia gente parla
Questa è Ius Music, Ius Music
Questa è Ius Music, Ius Music
Questa è Ius Music, Ius Music
Orfano di quest’Italia un superstite resto a galla
La mia non è una razza la mia è una tribù quelli sempre al centro del mirino è questa la mia crew, la mia gente stanca di essere accusata di essere considerata il pericolo dentro casa
amici laureati fermati da uno con la terza media umiliati e maltrattati, e non c’è scusa quando l’ignoranza parla se qua l’essere Italiano è solamente sulla carta, Se ti senti fuori luogo in questa situazione, e diventi uno straniero nella tua nazione, stessa lingua stessa rabbia stesso cibo, siamo nella stessa merda non sono io il tuo nemico, siamo scacchi nella stessa battaglia noi orfani superstiti fratelli d’Italia, oltre i muri le frontiere e i confini Balotelli faccio gol e sono tutti felici.
Ps. Siete mai passati da un campo di calcio dell’oratorio? Quelli dove vanno i ragazzini di tutti colori, alcuni che corrono dietro al pallone in Salwar Kamiz, approdati freschi dal Pakistan? (copyright: oratorio del centro di Gallarate) Se sì, magari vi sarete resi conto che un’ apertura decente allo Ius Soli e alla naturalizzazione di chi in Italia vive e cresce, sarebbe un’ottima risposta al coro di lamenti sul declino del calcio italiano che ci hanno rintronato in questi giorni. Non che questo sia prioritario. Più interessante sarebbe invece immaginare che nei prossimi quattro anni Balotelli mettesse “la testa apposto”, diventasse fortissimo ma poi decidesse: “fanculo, gioco per il Ghana!” O Stephan El Sharawy…
Helena Janeczek
Redattore Sociale
19 06 2014
La denuncia nel rapporto di Cittadini del mondo: i migranti, quasi tutti titolari di protezione internazionale vivono senza assistenza in uno stabile occupato vicino al raccordo anulare di Roma. Difficile l’accesso ai servizi anche sanitari. “Luogo simbolo della mancata integrazione”
Milleduecento persone, quasi tutte richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, che vivono senza servizi e assistenza in uno stabile abbandonato a sud di Roma, a poca distanza dal Grande raccordo anulare. Selam significa "palazzo dei fantasmi", dice Deslane, eritreo, che lì vive da anni insieme a tanti altri migranti, arrivati nel nostro paese per chiedere asilo politico e oggi sono “invisibili” alle istituzioni.
La storia dello stabile dei rifugiati, uno dei luoghi simbolo della mancata accoglienza nel nostro paese, è oggi raccontata nel rapporto “Palazzo Selam, la città invisibile” realizzato dall’organizzazione di volontariato “Cittadini del mondo”, che dal 2006 ha attivato uno sportello socio sanitario presso l’edificio occupato per far fronte a una situazione di abbandono quasi totale. Il documento denuncia in particolare le condizioni di vita all’interno di questo palazzone, fantasma nei fatti, ma in realtà ben visibile a tutti i cittadini romani che quotidianamente percorrono il raccordo di Roma. Quella di Selam, spiegano, è una strana storia di occupazione, “prima legale poi divenuta illegale e quindi completamente abbandonata a se stessa insieme all’edificio che negli anni è diventato sempre più fatiscente”.
L’occupazione del palazzo, che prima era sede di una facoltà dell’università Tor Vergata, nasce dallo sgombero di un’altra famosa occupazione romana, quella dell’Hotel Africa. Nel 2006 le 400 persone che vivevano lì divise in gruppi più piccoli occuparono altre strutture nella periferia della capitale e nacquero così il centro di via Scorticabove a San Basilio, dove attualmente vivono circa 120 sudanesi, e Selam Palace. Le 250 persone entrate nell’ex facoltà di lettere e filosofia furono immediatamente sgomberate e portate in un tendone adibito a centro di accoglienza di fortuna. Tuttavia le proteste dei rifugiati furono tali che l’amministrazione fu costretta a trovar loro una sistemazione negli ultimi due piani del Palazzo Selam, mentre il resto della struttura fu murata. Nel 2007 furono destinati fondi per il trasferimento degli ospiti nelle strutture di accoglienza, ma dopo il rifiuto dei migranti di spostarsi l’occupazione divenne illegale, l’amministrazione smise di pagare le utenze e di occuparsi di qualunque questione legata al palazzo. Questo fu l’inizio del degrado strutturale dell’edificio mentre al suo interno continuavano ad insediarsi nuovi gruppi di persone, al punto che ad oggi vi abitano circa 1200 persone.
“Per gli abitanti essere completamente abbandonati dalle istituzioni ha significato tra le altre cose non poter prendere la residenza nel luogo di reale domicilio e quindi di non poter usufruire dei servizi pubblici vicini come la scuola o come il sistema sanitario – spiega l’associazione -. Grazie all’intervento di cittadini del mondo e dell’Unhcr e solo dopo 6 anni dall’occupazione è stato possibile sbloccare la situazione, ma a oggi tutto ciò è nuovamente messo in discussione dal decreto Lupi che non consente di prendere le residenze in luoghi occupati abusivamente”.
Il report denuncia la difficoltà di accesso ai servizi territoriali, sociosanitari e sociali: “spesso la burocrazia non prevede complesse situazioni famigliari con la conseguenza che pratiche importanti rimangono bloccate negando l’accesso a servizi fondamentali, come nel caso dell’esenzione per la mensa scolastica. Gli operatori di tali servizi pubblici – aggiungono - non sono formati per accogliere questo tipo di richieste e spesso per stupidi errori, ai rifugiati politici è precluso l’accesso ad un servizio, un esempio è il non riconoscere il cedolino di richiedente asilo come documento” .
Quello che desta maggiore preoccupazione è “che il 95 per cento delle persone assistite dai volontari dell’associazione è titolare di un tipo di protezione internazionale – sottolinea ancora Cittadini nel mondo - il 76 per cento di queste persone vive in Italia da più di 5 anni, il 21 per cento da più di un anno e solo il 3 per cento da meno di un anno. C’è di fatto la mancata integrazione dei rifugiati politici sul territorio e l’assenza di politiche volte ad una seconda accoglienza che permetta il graduale inserimento dei migranti nel tessuto sociale”. L’unica differenza la fa il fattore umano: l’intervento degli operatori o delle associazioni. “Queste ultime si pongono come interfaccia tra l’utente e i serviziterritoriali, venendo a colmare di fatto, le profonde lacune dell’accoglienza italiana”.
Nel report si spiega inoltre, che negli ultimi anni il palazzo è diventato meta di migranti che in Italia non vogliono restare: eludendo i controlli alla frontiera, arrivano qui per riprendersi dal viaggio e continuare il cammino verso altre mete europee. Ma il continuo arrivo di nuove persone complica ancora di più la situazione di degrado dello stabile, in cui le condizioni igieniche sono pressoché disumane.
Su RS, l'agenzia di Redattore sociale, tutti i dati del rapporto "Palazzo Selam, la città invisibile"