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Giornata contro il Razzismo: lettera al Capo dello Stato

  • Giovedì, 20 Marzo 2014 13:41 ,
  • Pubblicato in Flash news

Associazione 21 luglio
20 03 2014

“È severamente vietato l’ingresso agli Zingari”. Un cartello recante questa scritta è apparso nei giorni scorsi sulla vetrina di una panetteria, a Roma.

Ingresso vietato. Come per gli ebrei nella Germania nazista. Come per i neri, in Sudafrica, durante l’Apartheid.

In occasione della Giornata Mondiale contro il Razzismo, che si celebra domani, l’Associazione 21 luglio ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per esprimere profonda preoccupazione per il livello di conflittualità e ostilità che si registra nei confronti delle comunità rom e sinte e per l’emergenza democratica e civile che attraversa il nostro Paese.

Il cartello anti-rom, comparso sulla vetrina di una panetteria nel quartiere Tuscolano, è stato rimosso dall’esercente grazie all’intervento diretto di alcuni attivisti. In seguito, l’area legale dell’Associazione 21 luglio ha inviato una lettera di diffida all’esercente, per scoraggiare, in futuro, il ripetersi di simili gesti.

Nel 1938 a Berlino, e in seguito in Germania e in molti territori occupati, prendeva il via la cosiddetta “campagna dei cartelli” – si legge nell’appello inviato al Presidente Napolitano -. Davanti alle porte dei negozi si poteva leggere: “In questo locale gli ebrei non sono graditi”, “È vietato l’ingresso ai cani, ai mendicanti, agli ebrei”, “Per ragioni d’igiene è vietato l’accesso ai giudei”.

In un altro angolo del mondo, quindici anni dopo, la politica di segregazione razziale, istituita nel dopoguerra dal governo di etnia bianca del Sudafrica, sanciva una netta separazione tra bianchi e neri nell'accesso a parchi, mezzi pubblici e magazzini. Nei negozi i bianchi dovevano tassativamente essere serviti prima dei neri e sulle porte di alcuni esercizi era esplicitamente dichiarato: “For use by white persons” .

«A Roma “è severamente vietato l’ingresso agli Zingari” come lo era a Berlino per gli ebrei e a Soweto per i neri? Oppure siamo forse così assuefatti a una certa terminologia da ritenerla innocua e non percepire più la gravità di alcune affermazioni?», si chiede l’Associazione 21 luglio, secondo la quale livelli così alti di ostilità verso rom e sinti sono la conseguenza delle politiche discriminatorie e segregative che le istituzioni italiane attuano nei confronti di tali comunità, nonostante i ripetuti richiami delle autorità europee.

«Il popolo rom e sinto rappresenta in Italia la minoranza più discriminata e meno tutelata a causa di perversi processi sociali che rischiano di avvitare le nostre città in una spirale di odio incontrollato e talvolta volutamente sottovalutato – afferma l’Associazione 21 luglio -. 40.000 rom vivono in Italia in condizioni di povertà estrema e di segregazione spaziale e sociale. Circa 140 mila rom e sinti vivono invece in abitazioni convenzionali e conducono una vita di apparente normalità, se tale può chiamarsi un’esistenza in cui spesso è necessario, al di là del proprio status giuridico, nascondere la cultura di origine perché siano garantiti i diritti fondamentali».

La costruzione e la gestione dei “campi nomadi”, spazi nei quali è stata istituzionalizzata la discriminazione e la segregazione su base etnica, le innumerevoli azioni di sgombero che non rispettano le garanzie procedurali previste dalle convenzioni internazionali, le discriminazioni che riguardano i bambini rom e sinti nell’accesso ai servizi socio sanitari o all’educazione/istruzione hanno spinto l’Associazione a promuovere da un anno la campagna denominata “Stop all’Apartheid dei Rom!”, una iniziativa di sensibilizzazione per combattere pregiudizi e stereotipi, per avvicinare la società maggioritaria al mondo rom, per conoscere e lottare contro parole e azioni di incitamento all’odio.

Questo “Stop” – conclude la lettera al Presidente della Repubblica – va gridato con forza e urgenza, soprattutto in occasione dell’imminente Giornata Mondiale contro il Razzismo. Dobbiamo farlo tutti, rappresentanti della società civile e delle istituzioni, con coraggio ma anche con la responsabilità e la consapevolezza di quanti ancora credono che un’Italia multietnica, e quindi anche un’Italia Romanì, sia non solo ineludibile ma anche auspicabile».

Frontiere news
13 03 2014

Re e Zhanxing sono due giovani di seconda generazione, tra ritratto e vivido autoracconto: lo studio e il lavoro, la famiglia e l’amore, le loro aspettative nell’Italia di oggi.

Lui vive con i genitori e la sorella, è fidanzato, frequenta l’università e lavora, spera di trovare nell’arte la propria realizzazione. Lei è laureata, vive sola, è in cerca di una chiara definizione di sé e proverà a trovarla viaggiando lontano verso le proprie origini.

Sono giovani, stanno diventando adulti immaginando di far coincidere il futuro con i propri sogni.

Questo è “Il futuro è troppo grande” di Giusy Buccheri e Michele Citoni.

Il documentario sarà presentato giovedì 13 marzo 2014 in anteprima nazionale al Nuovo Cinema Aquila di Roma (qui l’evento Fb).

L’appuntamento è alle ore 20:00 (una seconda proiezione è prevista alle 22.30) insieme ai registi Giusy Buccheri e Michele Citoni e ai protagonisti del film stesso Romulo Emanuel Salvador e Zhanxing Xu. L’ingresso è gratuito.

Sono più di 100 milioni nel mondo le donne che sono emigrate e che attualmente vivono fuori del loro Paese di origine. Un fiume di donne che attraversa i Paesi del mondo, una massa imponente che ha superato gli uomini di quasi due punti percentuali e che si appresta ad entrare con forza nel tessuto sociale della nazione ospitante. ...

Apriamo le porte delle nostre case ai profughi siriani

Huffington Post
27 02 2014

A tre anni dall'inizio degli scontri in Siria, tutte le speranze che il paese ritorni ad una vita normale sembrano andate perdute.

L'incontro a Ginevra, avvenuto qualche settimana fa, lungi dal trovare un accordo fra le parti, non ha fatto altro che peggiorare, se possibile, la situazione. Quando finiranno i bombardamenti, i morti, le torture, la distruzione, di un intero popolo? Non so quanti se lo chiedano, in Italia o nel mondo. La cosa, in fondo, sembra non interessare più di tanto. I media, nonostante tutto, ci aiutano a dimenticare. È chiaro che se ogni giorno siamo sottoposti a bombardamenti visivi, con foto di distruzione e sangue, anche il nostro cervello incamera queste immagini come "già viste", cioè "normali". Foto di bambini uccisi, ritratti di medici che hanno perso la vita, adulti torturati e violentati, prima e dopo la morte, edifici ed interi quartieri che saltano in aria, non sembrano farci più alcun effetto.

Altra cosa, invece, è avere a che fare con le persone direttamente, cioè con uomini e donne coraggiosi che solo nella fuga, abbandonando casa, lavoro, parenti, amici, lasciandosi alle spalle un vita intera, ritrovano una nuova speranza di vita per sé stessi e per i loro figli. Sono circa 2.500.000 i siriani che hanno trovato rifugio nei campi profughi dei paesi limitrofi, Egitto, Giordania, Libano; in Siria sono rimasti circa nove milioni di sfollati. Ma anche i paesi limitrofi negli ultimi giorni hanno chiuso le frontiere. I numeri comunque sono destinati a salire. Se non si fermano le atrocità, non si fermano i profughi.

Molti di essi partono per l'Europa, diretti verso i paesi del nord, che, almeno fino ad oggi, li hanno accolti: Germania, Svezia, Danimarca. Ma fino a quando?

Uno dei percorsi più utilizzato è quello che passa dall'Italia. I profughi partono dall'Egitto, arrivano in Libia, prendono un battello per l'Italia, arrivano sulle coste della Sicilia. Da lì, la tappa successiva è la stazione Centrale di Milano. Dal 18 ottobre 2013, cioè durante quattro mesi, ne sono passati 1800. Non credo che nessuno di loro si sia fermato a Milano. Dopo i primi giorni, un po' confusi, Milano si è organizzata per l'accoglienza; è l'unica città che ha allestito dei centri per i profughi siriani "di passaggio".

Ufficialmente i profughi siriani non esistono, l'Italia dovrebbe essere solo un "corridoio umanitario", e lo è, di fatto. Quando essi arrivano in stazione centrale c'è sempre qualcuno ad accoglierli, ad aiutarli per trovare un luogo dove restare qualche giorno, in attesa di organizzare la tappa successiva.

E' successo però che lì due centri di accoglienza abbiano spesso esaurito la loro capacità di accoglienza. Come medico in uno di tali centri, ho avuto l'opportunità di conoscere molte delle famiglie che sono transitate da Milano ed ora vivono finalmente in Svezia, dove si sono perfettamente inserite, fin dai primi giorni. Sono stati loro a chiedermi di ospitare per qualche ora una famiglia, in transito per la Svezia, in una giornata di pioggia terribile, in cui sono arrivati a Milano circa cento profughi ed il Comune si stava attivando per trovare loro un luogo dove stare.

Ho pensato al progetto già attuato in Svizzera, dove cento famiglie hanno dato la loro disponibilità ad ospitare in casa loro i profughi siriani. In Svizzera certo non sarà quindi considerato un reato ospitarli nella propria casa, visto che su questo si è costruito un progetto. Perché no? Mi sono detta. Ed è stato tutto facile. La famiglia è arrivata: padre, madre, incinta, con tre bambini. Ho dato loro un stanza dove stare tranquilli e riposare, bagni e docce a disposizione, la signora mi ha aiutato a cucinare per tutti, i bimbi si sono messi al computer con i loro giochi (già espertissimi). Alla sera abbiamo dovuto discutere un po' perché si rifiutavano di andare nel Centro di accoglienza, non si fidavano ed avevano paura di essere identificati, cosa che avrebbe impedito loro di andare in qualsiasi altro paese. Ma tutto è andato per il meglio. So che sono già arrivati a destinazione.

Come esperienza la ripeterei, anche per periodi più lunghi, e la consiglierei. In fondo a Milano sarebbe sufficiente che 30/40 famiglie aprissero le porte della propria casa e sarebbe già una piccola rivoluzione: la famiglia al posto del centro di accoglienza, che fra l'altro, oggi c'è, ma domani non si sa.

Rosamaria Vitale

 

Il Fatto Quotidiano
27 02 2014

Io vi voglio raccontare un’emozione. Sono seduto sulla mia panchina di Testaccio. E’ notte. Avevo bisogno di sedermi qui di fronte alla via dove sono nato. Sono andato via da poco dal Teatro Valle, dove è stato proiettato il film ‘La mia classe’. Un film che ho prodotto insieme ad un gruppo di miei ex allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia e insieme a Valerio Mastandrea.

Quando qualche ora fa arrivo al Valle per presentare il film, chi mi aspetta sussurra “il teatro è pieno”. Io entro. Per un attimo rimango senza fiato. Non c’è un posto libero. Fin su, all’ultimo loggione, attaccato al soffitto. Fa caldo. Inizio a sudare. Devo parlare. Mi danno il microfono in mano. Stasera poi che ho poca voce. E invece le parole escono fluide. Più guardo le persone più mi carico. E parlo di come il film è nato. E parlo di come lo stiamo distribuendo. Concepisco delle frasi che hanno un capo e una coda. Forse non commetto neanche un errore di sintassi. Perché stasera è bello essere qui. Perché stasera è bello fare il lavoro che faccio. Perché stasera è ora di rivendicare con orgoglio una strada impervia scelta e non subita.

E farlo qui, in questo posto, a pochi giorni dal diniego del riconoscimento della Fondazione ha un valore ancora più grande. Che mi carica ancora di più. Che appunto mi emoziona. No, non mi voglio arrendere. Fare un film come questo non conta niente? No, invece conta. Conta oggi più di ieri. E serve. Mi serve. Mi serve sentire il respiro delle persone che sono qui. Mi serve respirare il mio sudore. Mi serve vedere i loro visi attenti durante la proiezione. Mi serve ascoltare quello che dicono. Mi serve capire che questo film lascerà il segno per qualche giorno qualche ora qualche minuto. E farà pensare. E aiuterà a capire che l’integrazione è un problema principalmente di noi che dobbiamo accogliere.

E quanto è bello il volto nero nero di Issa, uno degli attori del film, che invita tutto il Teatro alla sua festa di compleanno. E quanto è bella Sheida che parla piano per l’emozione. Qui. Qui dopo Mezzacannone Occupato a Napoli. Qui dopo il cinema Palazzo Occupato. Qui prima del Forte Prenestino. Qui prima del CPS La Resistenza di Ferrara. Qui e in molti altri luoghi come questi, dove la gente osa ancora partecipare, non si accontenta di guardare. Qui accanto a centinaia di cinema regolari che continuano ad ospitare proiezioni del film, malgrado il sistema distributivo ortodosso avesse escluso il diritto di esistenza di questo film.
Qui, dove ogni tanto il mio sguardo va al famoso striscione “Com’è triste la prudenza!”.

E’ vitale, gratificante, esaltante non essere prudenti. Facciamo qualcosa perché il Teatro Valle continui a non esserlo.

Gianluca Arcopinto

 

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