Frontiere news
10 01 2014
Lezioni di Islam a scuola. E’ l’idea della regione di Assia, Germania centrale. Per la prima volta, la scuola tedesca introduce lezioni di Islam per gli alunni della primaria con il duplice intento di promuovere una migliore integrazione della minoranza musulmana e contrastare la crescente influenza del pensiero islamico radicale nel paese. Le lezioni saranno affidate a docenti abilitati che saranno formati appositamente dal sistema educativo pubblico e saranno utilizzati appositi libri di testo.
L’iniziativa, che si sta sviluppando nella regione dell’Assia, ma non è escluso che verrà presa in considerazione anche in altre regioni, risponde all’idea sempre più largamente diffusa che la Germania, dopo decenni di immobilismo su questo fronte, deve fare di più a favore della popolazione musulmana se vuole promuovere l’armonia sociale.
Grazie a questa decisione l’istruzione sull’Islam viene di fatto equiparata a quelle già previste per protestantesimo e cattolicesimo. Ai giovani musulmani sarà offerta una formazione di base sull’Islam fin dal primo ciclo della scuola e, sottolineandone il messaggio di tolleranza, le autorità sperano di tener lontani i giovani dalle idee più radicali riconoscendo al tempo stesso l’importanza della loro confessione religiosa. I genitori potranno scegliere se iscrivere o meno i figli, ma stando a quanto emerso finora, nei distretti a forte presenza di immigrati l’adesione nelle 29 classi che hanno preso parte al progetto è stata altissima.
In Germania ognuno dei 16 stati pianifica il proprio sistema educativo e decide se e come offrire corsi non obbligatori di religione o etica. Forme di istruzione islamica sono previste, ad esempio, in tutti gli ex stati tedeschi occidentali, mentre non ve ne sono in quelli dell’ex Germania orientale. La particolarità dello stato dell’Assia sta nel fatto che le autorità hanno messo a punto un particolare programma universitario e si sono assunte l’incarico di formare gli insegnanti. Uno di questi, Timur kumlu, 31 anni, ha seguito 240 ore di formazione extra all’università di Giessen per poter entrare a far parte del gruppo dei primi 18 insegnanti di Islam dell’Assia.
Corriere delle migrazioni
10 12 2013
Questo sport nel nostro Paese è portato avanti da atleti provenienti da India e dintorni. Non hanno la cittadinanza ma giocano (egregiamente) in Nazionale. E lo Ius sanguinis, in questo caso, che fine ha fatto? Nella foto: la nazionale italiana di cricket, che si è aggiudicata il titolo europeo lo scorso luglio.
A tenere alta la bandiera del cricket italiano nel mondo sono in molti casi atleti che non hanno la cittadinanza italiana, ma possono occupare una posizione in nazionale grazie alle regole speciali che vigono in questo sport: regole inglesi, di un Paese cioè in cui vige lo Ius soli e che ammette che per rappresentare una nazione sia sufficiente risiedervi. In concreto: per giocare nella Federazione Italiana bisogna essere residenti da almeno quattro anni, per la categoria giovani, e da sette per gli adulti. La Uisp, Unione Italiana Sport Per tutti, ha un regolamento ancora più includente.
A giocare a cricket, in Italia e per l’Italia, sono in prevalenza indiani, pakistani, bangladesi. Nel subcontinente indiano, infatti, questo sport ha raggiunto la massima popolarità, ed è partecipatissimo e amato. Questo ha prodotto un curioso e interessante rovesciamento di prospettive: gli autoctoni, nel settore cricket, risultano in un certo senso “forestieri”.
Sul cricket all’italiana e le sue implicazioni sociologiche hanno scritto un libro Ilario Lombardo, Giacomo Fasola e Francesco Moscatelli. Il volume, edito da add editore, si intitola Italian cricket club. Parlando con loro e con Matteo Miavaldi, che segue il subcontinente indiano per l’agenzia China Files, abbiamo cercato di capire meglio quale sia il ruolo del cricket nei paesi di origine di questi atelti.
«Il cricket è effettivamente una mania pan indiana», dice Miavaldi, che – per inciso – vive stabilmente in India. «Credo sia uno dei pochissimi collanti che tengono insieme tutto il paese. Lo stesso vale per il Pakistan, il Bangladesh e lo Sri Lanka». E rappresenta un elemento di comunanza trasversale rispetto alle differenze religiose. Ma avvalersi di uno sport “coloniale” per superare le differenze religiose – che, come è storicamente dimostrato, sono state esaperate ad hoc proprio dal governo coloniale – non è sintomatico di una sorta di “sudditanza culturale”? «L’India indipendente non ha negato o rigettato l’esperienza coloniale, ma l’ha introiettata mantenendone molteplici tratti distintivi (lingua, legge, apparato burocratico e sport)», prosegue Miavaldi. «Per assurdo, la colonizzazione inglese è una delle pochissime esperienze condivise da tutto il territorio attualmente indiano, forse l’unica».
Anche secondo Fasola «il cricket nel Subcontinente ha trovato l’humus ideale per attecchire e diffondersi. È entrato a far parte di quella cultura, ne è stato plasmato e l’ha plasmata. Basti pensare alla durata delle partite: in qualche altro luogo al mondo si poteva affermare uno sport le cui partite durano giorni, se non in India? L’affermazione del cricket nel Subcontiente non ci pare, insomma, la prova di una “sudditanza culturale”. Semmai del fatto che ci sono cose che vanno al di là delle diverse culture, e che possono diventare un ponte per superare le differenze. Anche quelle religiose, come avviene nei parchi italiani dove musulmani, indù e sikh giocano fianco a fianco».
Per quanto riguarda l’inclusione di potenziali giocatori italiani, procede a rilento e con fatica. «Il campionato federale prevede quote fisse, ma spesso gli “italiani” che disputano i campionati sono singalesi o pakistani che vivono da anni in Italia (dopo alcuni anni di residenza continuativa vengono considerati “assimilati”)» specifica Lombardo. «Ci sono squadre, come il Genoa o il Pianoro, dove gli italiani sono più numerosi. Ma ce ne sono anche molte altre praticamente monoetniche. La politica della Federazione, che negli ultimi anni ha investito molto sugli oriundi per avere una Nazionale più forte, non ha aiutato la crescita dei giovani italiani».
Il cricket, in Italia, è praticato prevalentemente al Nord. Molte delle esperienze raccontate nel libro, infatti, si svolgono sopra Roma. «La Uisp», spiega Fasola, «sta spingendo molto per organizzare tornei e campionati anche a sud, come testimoniano i recenti successi del Napoli. Ma la diffusione è ancora poco capillare. Le potenzialità comunque ci sono, basti pensare che a Palermo c’è una nutrita comunità srilankese».
Intanto anche il Vaticano, qualche giorno fa, ha istituito la propria squadra di cricket raccogliendo le adesioni di oltre trecento preti. Ovviamente, in prevalenza, indiani.
il grande colibrì
24 10 2013
MigraBO' LGBTQI è un gruppo nato a Bologna nel 2012 con lo scopo di aiutare ed assistere le persone LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, transgender, queer e intersessuali) immigrate in Italia e provenienti da qualsiasi paese nel loro processo di integrazione nella comunità "arcobaleno".
Il gruppo è costituito da una rete di associazioni che operano a Bologna e in provincia sulle tematiche del genere e della migrazione. MigraBO' LGBTQI offre supporto e assistenza a chi intenda presentare nel nostro paese una domanda di asilo basata sul proprio orientamento sessuale o sulla propria identità di genere in tutte le fasi, in particolare nella compilazione della domanda.
Inoltre il gruppo si occupa di accoglienza e inclusione delle persone migranti LGBTQI attraverso occasioni di socialità, confronto, ascolto e sostegno psicologico. Tutti questi servizi sono gratuiti e garantiscono il massimo anonimato. Li abbiamo incontrati.
Come vi è venuta l'idea di creare un gruppo che si rivolge esclusivamente agli immigrati LGBTQI?
L'idea principalmente era nata grazie a due dei fondatori che all'epoca erano volontari dell'Arcigay di Bologna. Per tanto tempo ci avevano pensato, ma senza mai trovare il modo di realizzare un progetto di questo genere. Con le ultime rivoluzioni nel mondo arabo e in Africa e le loro implicazioni per i diritti delle persone LGBT, hanno pensato che era giunta l'ora di intraprendere questa strada. D'altronde, in una città come Bologna, nota per la sua storia di lotta per i diritti in generale e per i diritti degli omosessuali in particolare, sembrava insensato non avere ancora nessun interesse verso i migranti LGBTQI, nonostante esistessero già numerose associazioni che si occupano di immigrazione e altre di genere, ma mai delle due tematiche insieme...
Quindi avete cercato di collegare le realtà di volontariato che già operavano nella provincia di Bologna?
Esattamente. Con la nascita del gruppo abbiamo cercato di creare una rete che collegasse tutte queste realtà per offrire un appoggio e un punto di riferimento a persone emarginate dalle loro comunità e dalla comunità LGBT stessa. Ci teniamo ad essere riconoscenti in particolare al Cassero, l'Arcigay di Bologna, per l'ospitalità che ci ha dato nei primi mesi e senza la quale il progetto MigraBO' non sarebbe potuto venire alla luce.
Dal 2012 fino ad ora, cosa è riuscito a fare MigraBO'?
Innanzitutto, la prima cosa che abbiamo pensato di fare è stata l'organizzazione di un ciclo di formazione di cinque incontri, per formarci sulle questioni basilari che un volontario in questo campo dovrebbe sapere, partendo dall'importazione del modello omosessuale inglese in Italia e in Europa fino allo studio delle varie tipologie di domanda di asilo politico e delle questioni legate all'ottenimento dello status di rifugiato, delle diverse tipologie di permesso di soggiorno per stranieri non comunitari, del diritto alla salute per gli immigrati regolari e non. Poi, per concludere, abbiamo affrontato il discorso tanto complesso dell'accoglienza degli immigrati.
E dopo questo ciclo di formazione?
Abbiamo seguito alcuni casi di richiedenti asilo, che però alla fine si sono tirati indietro per problemi personali e/o familiari. Poi, nell'autunno del 2012, abbiamo organizzato un nuovo ciclo di formazione di tre date, concentrandoci su protezione internazionale, salute dei migranti e transgenderismo. Inoltre abbiamo presentato, con grande successo, in collaborazione con la biblioteca Cabral il primo libro scritto in lingua italiana sull'omosessualità nelle culture e nelle letterature arabe e persiane. A maggio di quest'anno, invece, abbiamo presentato un libro di racconti brevi di testimonianze di alcune decine di migranti. Durante i mesi precedenti all'estate alcuni di noi hanno avuto la possibilità di assistere altri richiedenti asilo provenienti da Pakistan, Iran, Egitto e Algeria.
Quali sono le difficoltà che avete affrontato nel vostro percorso?
Trattando tematiche legate alla sessualità, la più grande difficoltà che abbiamo trovato è stata quella di imparare il modo più adatto per approcciarci a persone con background, culture e tradizioni diverse da quelli italiani. Anche se al nostro gruppo collaborano anche persone migranti, non siamo ancora riusciti a superare le barriere che dividono, da tanti anni, le varie comunità dei migranti da quella italiana. Bisogna ammettere che il discorso dell'integrazione tocca entrambe le parti, da un lato perché la maggioranza delle comunità "minoritarie" tende a rinchiudersi, per tanti motivi, e dall'altro perché la società italiana sta ancora imparando ad accettare ed accogliere ciò che per lei è estraneo, visto che il fenomeno migratorio è considerato abbastanza recente nel nostro paese.
E la burocrazia?
Per quanto possa sembrare banale, la burocrazia amministrativa costituisce un vero ostacolo per tutti, ma per un immigrato "regolare" nuovo arrivato che a malapena riesce a capire quel che gli viene detto... Sappiamo quanto sia difficile poter sopravvivere a giornate intere di file indiane per un documento, figuriamoci quando si tratta di stranieri non comunitari irregolari!
Quali sono, secondo voi, i bisogni principali degli immigrati?
Al primo posto viene il lavoro. E quando si parla di crisi economica, diciamo che tocca a tutti soffrirne. Crediamo che, partendo dal presupposto che la maggior parte degli italiani ha una famiglia o amici che possono dar loro anche solo un piccolo aiuto, un migrante soffra di più quando rischia di perdere il suo tetto perché non può permettersi il costo di un posto letto.
Al secondo posto mettiamo il diritto alla salute. Tanti migranti che abbiamo incontrato non si facevano visitare da un medico per paura di non poter affrontare le spese di un'eventuale cura. Purtroppo c'è mancanza di informazione: crediamo che i canali utilizzati per arrivare alle comunità migranti non siano del tutto efficaci.
L'integrazione sta al terzo posto. Il sentirsi parte di una società accogliente potrebbe apparire non tanto significativo per alcuni, ma la verità è che l'appartenenza ad una comunità offre delle opportunità di crescita che l'esclusione e la separazione non possono dare. Per questo, uno dei pilastri sui quali è stato creato il nostro gruppo è proprio l'integrazione.
Questi tre punti possono rappresentare, secondo noi, l'inizio del percorso verso una società più aperta mentalmente, più accogliente e più solida, dove il migrante può sentirsi a casa dando il meglio di sé e partecipando alla crescita del paese.
E per quanto riguarda la specifica categoria dei migranti LGBT?
Crediamo che la comunità LGBT italiana non debba imporre il modello omosessuale ormai prestabilito a persone che si rifiutano di classificarsi ed etichettarsi in questo modo. Vogliamo che il mondo LGBT accolga i migranti omosessuali per come sono, senza discriminazioni di genere, identità sessuale o di religione. Speriamo di poter assistere al giorno in cui una leader o un portavoce omosessuale sarà un persona migrante, come già possiamo osservare in altri paesi europei.
Con l'emergenza Nord Africa dello scorso anno, si è parlato di "falsi" omosessuali che avrebbero richiesto protezione internazionale. Voi come volontari, che principalmente offrite assistenza nella compilazione delle domanda d'asilo politico a chi ha intenzione di presentarla, come agireste di fronte a un eventuale "approfittatore"?
Non è nostro interesse fare una "caccia all'approfittatore". In fondo è assolutamente normale aiutare delle persone in buona fede, se poi qualcuno se ne approfitta questo non sminuisce il nostro scopo.
E con la probabile nuova emergenza proveniente dal Medioriente, come pensate di operare? Avete già un piano per l'accoglienza di nuove richieste di asilo politico da persone LGBT?
Purtroppo siamo ancora un gruppo piccolo, con pochi volontari, e non possiamo permetterci di fare tanto, tuttavia siamo e staremo in contatto con le varie associazioni e i diversi enti operanti sul territorio bolognese e in altri paesi, pronti ad accogliere qualsiasi richiedente per dare assistenza e fare tutto quello che possiamo.
Come si possono contattare i volontari di MigraBO'?
Innanzitutto, abbiamo una pagina su facebook.com. E poi abbiamo anche una mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
Azhar