Israele: la follia è nel metodo

  • Sabato, 16 Dicembre 2017 11:38 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO

Bansky Betlemme PalestinaSarantis Thanopulos, Il Manifesto
16 dicembre 2017

La decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è folle. La affermazione di Netanyahu che la città è la capitale di Israele da tremila anni altrettanto. In entrambi i casi c'è del metodo nel disegno che il folle persegue con ostinazione.

Bambini arrestati in Palestina/IsraeleMichele Giorgio, Il Manifesto
6 agosto 2016

La parlamentare del Likud Anat Berko ha ottenuto ciò che voleva. Anche i bambini di 12 anni saranno incarcerati per "atti di terrorismo". Bambini palestinesi naturalmente.

Netanyahu, Hitler e i terroristi

  • Giovedì, 22 Ottobre 2015 08:28 ,
  • Pubblicato in Il Commento
AssurdoZvi Schuldiner, Il Manifesto
22 ottobre 2015

E' molto difficile trasmettere all'esterno il clima nel quale stiamo vivendo in Israele: la disintegrazione del tessuto democratico, la crescita galoppante del razzismo, nessun miglioramento all'orizzonte...

Israele punta di nuovo su Hamas, i manifestanti no

  • Mercoledì, 21 Ottobre 2015 11:18 ,
  • Pubblicato in Flash news
Nena News
21 10 2015

In 20 giorni, 46 vittime palestinesi e 7 israeliane. Arrestato a Betunia il parlamentare islamista Yousef. Eppure nelle strade i partiti non ci sono e i giovani non li vogliono

Nena News – Il sole è sorto da poco e i media locali registrano già le prime violenze nei Territori Occupati. Stamattina all’alba un’adolescente palestinese è rimasta ferita dal fuoco sparato dai soldati israeliani vicino alla coloni di Yitzhar. Istabraq Ahmad Noor, 15 anni, è stata colpita – dice l’esercito – perché stava tentando di entrare nella colonia per accoltellare qualcuno: secondo fonti militari israeliane, la ragazza si trovava a 10 metri dalla rete, è stata chiamata dai soldati ma non avrebbe risposto; allora i militari hanno sparato in aria e poi l’hanno colpita alla mano.

Di nuovo un caso poco chiaro in quella che è diventata una guerra di propaganda: da 20 giorni l’esercito, la polizia e il governo israeliano giustificano con l’auto-difesa l’utilizzo del fuoco per fermare accoltellatori veri e presunti. In alcuni casi si è trattato realmente di aggressioni, in altri no. Quello che però accomuna tutti i casi in questione è l’uso delle pallottole per fermare gli aggressori, una misura che non pochi commentatori israeliani hanno definito “esecuzioni sul posto” del colpevole di un’azione.

Così continua a salire il numero delle vittime dal primo ottobre: 7 israeliani e 46 palestinesi. Ieri è stata una delle giornate più cruente, con un israeliano e 4 palestinesi uccisi. Gli ultimi due erano due ragazzini: Bashar Nidal al-Jabari, 15 anni, e Hussam Jamil al-Jabari, 17, sono stati uccisi ad un checkpoint nella città vecchia di Hebron: anche in questo caso, secondo l’esercito, volevano accoltellare un militare. Cinque morti tra Gaza e Cisgiordania che, nonostante la rabbia di Gerusalemme e le mobilitazioni delle città arabe nello Stato di Israele, restano in prima linea.

Prosegue anche la repressione politica: ogni giorno sono decine gli arrestati nei Territori Occupati. Ieri è toccato ad un parlamentare di Hamas, Hassan Yousef, 60 anni. È stato arrestato nella sua casa di Beitunia in un raid all’alba da decine di soldati israeliani e portato al carcere di Ofer. È accusato di “istigazione e incitamento al terrorismo, incoraggiamento pubblico e appelli agli attacchi contro israeliani”. Come era facile immaginare subito l’attenzione è finita sul movimento islamico, accusato da giorni di voler approfittare della sollevazione attuale per portare il caos. Eppure, al di là dei proclami, non sembra che Hamas sia particolarmente attiva (come del resto le altre fazioni politiche) nell’organizzazione e la gestione delle manifestazioni e degli attacchi individuali di queste settimane.

I primi a rigettarne la presenza sono gli stessi giovani, sia chi compie attacchi sia chi scende in piazza, che ripetono di essere stati abbandonati dai partiti e di voler lottare per la Palestina e non per una fazione politica. Lo ha scritto su Facebook anche uno dei palestinesi responsabili dell’attacco all’autobus israeliano a Gerusalemme, 10 giorni fa: non mettetemi in mano bandiere.

Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo

  • Lunedì, 19 Ottobre 2015 12:05 ,
  • Pubblicato in LEFT
Left
19 10 2015
 
La situazione nei territori palestinesi torna al centro dell’attenzione mediatica dopo gli avvenimenti tragici che scuotono Cisgiordania e Gerusalemme. Il clima si è esasperato con un prevedibile aumento degli scontri tra dimostranti palestinesi e polizia israeliana. Le tensioni aumentano anche a causa dell’ininterrotta espansione coloniale, come denunciano i rapporti delle Nazioni Unite. L’inosservanza del diritto internazionale, le demolizioni di abitazioni, le minacce di trasferimenti forzati, le quotidiane umiliazioni inflitte dai check-point, la linea politica di destra al governo di Tel Aviv sempre più ostile a riconoscere i diritti dei palestinesi, le migliaia di detenuti politici nelle carceri israeliane, le migliaia di rifugiati nei campi profughi: l’assenza di continuità territoriale, creata da colonie e avamposti militari, ha reso oramai impossibile la realizzazione sul campo di quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina.

E nonostante i rimproveri internazionali, il governo israeliano non ha intenzione di ritirare il proprio controllo dalla Cisgiordania. Il Parlamento europeo Un segnale ha lanciato un segnale nel mese di settembre, approvando una mozione che appoggia l’introduzione di etichette differenti per le merci importate provenienti da Israele e per quelle prodotte nelle colonie illegali nei Territori palestinesi occupati e nelle Alture del Golan per permettere al consumatore europeo di sapere e avere la possibilità di scegliere. Passi che, seppur importanti, non incidono nella realtà sul campo.  Al momento in cui si scrive, si prospetta l’ipotesi di una nuova Intifada.

Gaza, nel frattempo, segue le notizie sulla Cisgiordania con partecipazione. I muri creano distanze fisiche ma non separano gli animi. Gaza non è cambiata in questi anni, lavora in silenzio. Mi è sempre apparsa un cantiere eterno. Sempre, perennemente, in costruzione. È la stessa che sorrideva a Vittorio Arrigoni, attivista per i diritti umani e compagno dell’International solidarity movement, arrivato nella Striscia dopo diverse esperienze di volontariato in altri angoli del mondo. La sua scomparsa nel 2011 ha sconvolto italiani e palestinesi e generato reazioni di indignazione, dolore, commozione.

Le anime nere che una sera l’hanno portato via pare che stiano nuovamente facendosi sentire nella Striscia: alcuni media riferiscono che membri di gruppi salafiti jihadisti si siano affiliati allo Stato Islamico e cerchino di destabilizzare il controllo di Hamas lanciando razzi verso il sud del territorio israeliano al fine di scatenare una nuova offensiva da parte del governo di Tel Aviv che non ha esitato a rispondere bombardando, senza per fortuna causare vittime. Si sa che miseria e disperazione e . nel caso della Striscia assediata – chiusura, possono favorire la crescita di estremismi.

Gaza soffre ancora le conseguenze dell’offensiva israeliana della scorsa estate, quella denominata “Margine Protettivo”. Uomini, donne e bambini hanno vissuto scene terribili, interi quartieri sono stati rasi al suolo. I ricordi di guerra restano indelebili nella mente dei sopravvissuti. Dati dell’Onu riportano di circa 2.205 palestinesi uccisi, di cui almeno 1.483 civili, di cui almeno 521 bambini, e 71 sono stati gli israeliani uccisi, di cui 4 civili e un coordinatore della sicurezza. Almeno 11.000 i feriti palestinesi, di cui tanti hanno subito disabilità permanenti, almeno 500.000 sfollati, 18.000 abitazioni demolite dai bombardamenti, 26 scuole distrutte e altre 226 danneggiate, 17 ospedali distrutti e 56 centri di assistenza sanitaria primaria danneggiati.

Danni sono stati riportati anche all’unica centrale elettrica di Gaza, alla rete idrica e agli impianti delle acque reflue, a un impianto di desalinizzazione, mentre 220 pozzi di acqua per l’agricoltura sono stati distrutti o danneggiati insieme a centinaia di fattorie ed esercizi commerciali. Le promesse per la ricostruzione fatte alla conferenza del Cairo a ottobre 2014 non sono state ancora mantenute, solo una minima parte dei 3,5 miliardi di dollari promessi è stata donata.

Superare il trauma diventa difficile quando si continua a vivere  nello stesso scenario di rovine e devastazione. Su quest’ultima il celebre artista Banksy ha voluto richiamare l’attenzione del mondo, quest’anno, attraverso i suoi graffiti apparsi su ciò che resta di edifici crollati. Un gattino dal grande fiocco rosa appare sulla parete di un’abitazione abbattuta: Banksy ha spiegato di aver voluto mostrare la distruzione di Gaza mettendo una foto sul proprio sito, ma che le persone “guardano soltanto foto di gattini”.  Una sua scritta in inglese recita: «Se ci laviamo le mani del conflitto tra il potente e il debole ci schieriamo con il potente. Non restiamo neutrali».

05204La guerra a Gaza ha causato danni psicologici, soprattutto a donne e bambini. Tra i sintomi del disturbo : paura, ansia, continua sensazione di pericolo, nervosismo, reazioni sproporzionate, insonnia, problemi alimentari di origine nervosa, depressione, sensazione di ineluttabilità della morte sentita come imminente. Alcune associazioni provano a fornire, oltre al primo soccorso, sostegno psicologico e sociale. Per alcuni esperti, parlare di post o pre-trauma è inutile, dal momento che il trauma è costante e continuo: si vive una sofferenza psicologica collettiva, uno stato di stress post-traumatico permanente.

Tre offensive militari israeliane negli ultimi sei anni, in aggiunta a otto anni di blocco economico, hanno devastato la già indebolita infrastruttura di Gaza, ne hanno frantumato la base produttiva, non hanno lasciato il tempo per una ricostruzione significativa, né hanno permesso un recupero economico. L’ultimo rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo descrive uno scenario devastante: dal blocco imposto nel 2007, le esportazioni da Gaza sono state quasi totalmente vietate e le importazioni e i trasferimenti di denaro limitati. L’ultima offensiva nel 2014 ha colpito gravemente un’economia già paralizzata in un momento in cui le condizioni socioeconomiche erano ai livelli più bassi dal 1967.

Nel 2014, la disoccupazione ha raggiunto il 44% e colpito soprattutto le donne. Qualche giorno fa Ewash (Emergency water and sanitation-hygiene group), ha raccomandato che garantito ai palestinesi il diritto all’acqua. Il governo israeliano mantiene il controllo sul 70% delle falde acquifere montane, mentre ai palestinesi ne viene destinato solo il 17%. E nella Striscia di Gaza nemmeno il 5% delle acque estratte dalla falda acquifera costiera – l’unica risorsa di acqua dolce disponibile – è potabile; il restante 95% è contaminato da nitrati e cloruro e ha un alto tasso di salinità. Il che crea non pochi problemi al settore agricolo, oltre a influire sulla vita quotidiana dei residenti.

Dure crisi hanno colpito pure l’energia elettrica, quando è venuto a mancare il carburante. L’assenza di elettricità crea disagi soprattutto nei mesi invernali quando le temperature scendono vertiginosamente e non c’è modo di scaldarsi. E le interruzioni di energia elettrica colpiscono, tra l’altro, attività economiche del settore privato, ospedali, scuole, impianti per il trattamento delle acque. Lo sviluppo di giacimenti di gas scoperti nelle acque di Gaza potrebbe migliorare di molto la situazione ma l’occupazione israeliana, come riferito nel rapporto della Unctad, non permette lo sviluppo di questi bacini di gas.

La presenza internazionale sul campo è molto importante al fine di migliorare la diffusione delle informazioni. È parte fondamentale del lavoro di noi volontari dell’International solidarity movement e si accompagna alle attività di interposizione, ovvero accompagnamento di contadini e pescatori. Lungo il confine della Striscia, all’interno del territorio palestinese, Israele ha imposto una buffer zone che copre circa il 35% dei terreni agricoli palestinesi. I soldati israeliani usano sparare contro chiunque si avvicini alla zona interdetta anche contro contadini che lavorano nei campi lungo il confine: la presenza degli internazionali in questo caso può  fare da deterrente contro gli attacchi.

A volte funziona, altre volte no. Lo stesso avviene in mare, dove la marina militare israeliana continua ad aprire il fuoco contro pescherecci palestinesi anche dentro il limite delle 6 miglia imposto da Tel Aviv.

La presenza internazionale fa sentire i popoli oppressi meno soli nelle loro lotte. Ma non basta, servirebbero programmi di sviluppo a lungo termine. E anche un lavoro politico nel nostro Paese, per  premere sulle nostre istituzioni affinché compiano un atto di coraggio e decidano di agire concretamente per i diritti – incluso il rispetto del diritto internazionale –  e non siano complici nel silenzio della loro violazione, si potrebbe dire, attraverso una pratica del “restare umani”.

Rosa Schiano

facebook