Nena News
13 05 2015
Continua la protesta degli ebrei etiopi, che denunciano la discriminazione di cui sono vittime e accusano la polizia di brutalità e razzismo. Sono circa 135mila, sono arrivati nello Stato ebraico da oltre trent’anni e più di un terzo di loro vive sotto la soglia di povertà
“Non vogliamo essere giudicati soltanto per il colore della nostra pelle”. È questo il mantra che da settimana ripetono gli ebrei etiopi residenti in Israele, che ieri sono tornati in piazza, ad Haifa, per denunciare la condizione di cittadini di serie B in cui si sentono relegati nello Stato ebraico.
In centinaia hanno manifestato pacificamente sotto gli occhi vigili della polizia israeliana, accusata di brutalità e di razzismo. Durante le proteste delle ultime settimane (a Tel Aviv e a Gerusalemme), si erano verificati scontri, con feriti tra i dimostranti. Il video del pestaggio di un soldato di origine etiope (in divisa) da parte di due agenti aveva fatto montare la rabbia dei falasha (popolo di origine etiope e di religione ebraica) e aveva costretto il premier Benjamin Netanyahu a piegarsi al dialogo con la comunità etiope israeliana e a stigmatizzare gli episodi di razzismo.
La mobilitazione della comunità etiope riporta a galla le discriminazioni che attraversano la società israeliana, spesso sostenute dalle politiche di Tel Aviv. L’obiettivo di mantenere maggioritaria la componente demografica di fede ebraica è perseguito a spese dei cittadini israeliani di religione musulmana o cristiana, ma nel caso dei falasha, che sono ebrei, si riduce tutto a una questione di colore della pelle, come scandiscono gli slogan che campeggiano alle manifestazioni organizzate nelle ultime settimane: “Né bianchi né neri, solo esseri umani” oppure “Il nostro sangue è buono solo per le guerre”.
La comunità di etiopi ebrei presente in Israele conta circa 135mila persone, di cui almeno 50mila nate nello Stato ebraico. Si tratta di una delle più numerose minoranze del Paese, che da sempre denuncia discriminazioni. Gli etiopi vivono nel territorio israeliano da oltre trent’anni e più di un terzo di loro vive sotto la soglia di povertà, impiegata in lavori non qualificati e poco remunerativi.
L’integrazione e l’omologazione dei giovani è svolta dalle scuole e soprattutto dall’arruolamento nelle Forze Armate. Le autorità sono accusate di aver attuato una politica di drastica “ebraizzazione” degli etiopi secondo i canoni di Israele, ignorando la lingua e la cultura Falasha.
Gli ebrei Falasha, secondo la tradizione, sarebbero i frutti dell’unione tra re Salomone e la Regina di Saba. Minacciati dal governo etiope nel 1977-1979, i Falasha emigrarono verso il Sudan. Il governo di Israele quindi decise di trasportarli nel proprio territorio con un ponte aereo, in tre operazioni denominate Operazione Mosè, Operazione Giosuè ed Operazione Salomone.
Dinamo Press
04 05 2015
Ieri sera almeno 46 persone sono rimaste ferite durante gli scontri con la polizia in Piazza Rabin a Tel Aviv. Almeno 15 manifestanti ebrei etiopi sono stati arrestati.
Sono almeno 46 i feriti degli scontri divampati durante la manifestazione di protesta ieri sera a Tel Aviv degli ebrei etiopi (noti come Falasha) contro la violenza che subiscono dalla polizia. Gli incidenti più gravi sono avvenuti in piazza Rabin quando centinaia di giovani manifestanti hanno tentato di entrare nel palazzo del municipio. La polizia, intervenuta anche con i reparti a cavallo, ha usato il pugno di ferro. I feriti sono stati almeno 46, tra i quali, secondo la versione uficiale, alcuni poliziotti. Almeno 15 i manifestanti arrestati.
“Né bianchi né neri, solo esseri umani” avevano scandito in precedenza gli ebrei etiopi nei pressi degli uffici governativi sotto le Torri Azrieli ad un passo dalla tangenziale che entra a Tel Aviv. Alcune migliaia di persone (le autorità hanno dato cifre più basse), tra le quali numerosi attivisti per i diritti civili, hanno poi attraversato la città fino a raggiungere Piazza Rabin dove in serata sono scoppiati gli scontri con la polizia.
La rabbia dei Falasha contro “il razzismo della polizia” era riesplosa giovedì a Gerusalemme quando diverse centinaia di ebrei etiopi riuniti in Piazza Francia si erano scontrati con agenti dei reparti antisommossa. “Il nostro sangue è buono solo per le guerre”, scandivano in quella occasione i dimostranti giunti a Gerusalemme da ogni parte di Israele. Anche la scorsa settimana la manifestazione si è conclusa contro scontri violenti.
Al capo dello Stato Reuven Rivlin una delegazione Falasha, per lo più studenti universitari, giovedì aveva raccontato “le discriminazioni quotidiane” di cui gli ebrei etiopi sono vittime in Israele e denunciato con forza l’aggressione subita da un soldato di origine etiope – le immagini hanno fatto il giro della rete – duramente percosso dalla polizia. Un fatto non isolato, avevano sottolineato i delegati. Nel tentativo di calmare gli animi, il premier Benyamin Netanyahu ha fatto sapere che oggi riceverà una delegazione di esponenti della comunità, fra cui il soldato picchiato dalla polizia. Ma le proteste sembrano destinate a continuare.
Gli ebrei etiopi sono fermi ai gradini più bassi della scala sociale in Israele. Già in passato hanno denunciato le discriminazioni che subiscono e la loro pesante condizione economica. Secondo la tradizione ebraica sarebbero i frutti dell’unione tra re Salomone e la Regina di Saba. Minacciati dal governo etiope nel 1977-1979 i Falasha emigrarono verso il Sudan. Il governo di Israele quindi decise di trasportarli nel proprio territorio con un ponte aereo, in tre operazioni denominate Operazione Mosè, Operazione Giosuè ed infine Operazione Salomone.
Attualmente in Israele vivono circa 120mila Falasha che continuano ad avere difficoltà di adeguamento ad un ambiente molto diverso da quello di origine. L’integrazione e l’omologazione dei giovani è svolta dalle scuole e soprattutto dall’arruolamento nelle Forze Armate. Le autorità sono accusate di aver attuato una politica di drastica “ebraizzazione” degli etiopi secondo i canoni di Israele, ignorando la lingua e la cultura Falasha.
tratto da Nena-News.it
Dinamo Press
20 04 2015
Gli anarchici, seppur con qualche difficoltà interna principalmente legata alla partecipazione, rimangono ad oggi il movimento più importante ed effettivo della sinistra israeliana , capaci con le loro azioni dirette di minare l'assetto propagandistico e dogmatico dello stato israeliano. Sebbene siano passati ormai 3 anni da quando Noam Sheizaf ha scritto questo articolo, abbiamo ritenuto di pubblicarlo ora perché è più che mai attuale.
Il 5 maggio prossimo, uno di questi attivisti sarà con noi al Nuovo Cinema Palazzo a Roma per discutere dell'occupazione in tutte le sue sfaccettature, che toccano sia la West Bank che Israele.
ANARCHICI, GLI ATTIVISTI PIU IMPORTANTI DELLA SINISTRA ISRAELIANA
di Noam Sheizaf
La destra israeliana ha imparato una nuova parola: “anarchici”. Il parlamentare Miri Regev ha definito i leader della protesta J14 (protesta per la giustizia sociale in Israele nel 2011, ndr) “anarchici che attivamente mettono in pericolo lo stato”. Il giornalista di economia di Canale 10, Sharon Gal, ha detto che gli attivisti erano “un tipo di anarchici”. Gli aggiornamenti e i commenti su Facebook, nei siti di notizie riflettono simili sentimenti. Tutto ciò non ha senso, ovviamente. Il movimento per la giustizia sociale è guidato dalla classe media Israeliana e, alla manifestazioni, ci sono stati molti più israeliani medi che professionisti della rivoluzione.
Ma parliamo di questi anarchici. Negli ultimi 2 o 3 anni ho viaggiato con loro molte volte per andare a varie manifestazioni in West Bank, e conoscono un buon numero di loro, per lo più membri di Anarchici contro il Muro. Non sarebbe una esagerazione per me dire che averli conosciuti ha cambiato fondamentalmente la mia visione politica.
All'inizio ero sconvolto dal modo in cui gli anarchici dessero poco rilievo a eventi che per me erano importanti, come le elezioni alla Knesset, o manifestazioni a Rabin Square. Tuttavia dopo un po' ho iniziato a capire il potere del loro attivismo politico. Un aspetto di quell'attivismo è pensare politicamente rispetto a tutte le proprie scelte di vita, quello che mangiamo, chi sfruttiamo con il nostro lavoro, e come opprimiamo gli altri. L'altro aspetto è l'impegnarsi in una continua e determinata azione politica. La loro azione non è solo una questione di manifestazioni. Gli anarchici hanno cambiato i nomi delle strade di Tel Aviv, per nominarle con strade della Hebron sotto occupazione. Hanno attaccato poster con cui condannano le azioni dei coloni contro i palestinesi, hanno restituito all'ambasciatore nord americano candelotti di lacrimogeni usati – prodotti negli USA – adoperati dall'esercito Israeliano durante cortei in West Bank.
Tutte queste sono azioni simboliche, finalizzate a suscitare consapevolezza su quanto sta venendo fatto in loro nome a solo a 20 kilometri da Tel Aviv. Il fatto che questo piccolo gruppo di persone comprende i soli israeliani ebrei che sono determinati ad opporsi all'occupazione con attivismo serio, e non solo lamentandosene in una conversazione in un cafè, o nelle pagine di Haaretz- è una fotografia poco lusinghiera della società Israeliana.
Gli anarchici non sono più di alcune dozzine, ma hanno un impatto enorme. Grazie a loro, migliaia di israeliani hanno visitato Bil'in e visto per la prima volta l'esercito israeliano dalla prospettiva con cui lo vedono i palestinesi, affrontando la canna del fucile, piuttosto che guardarlo dal grilletto, ed è una esperienza che ti cambia la prospettiva. L'esercito ha cambiato il tracciato del muro di separazione a Bil'in come risultato delle manifestazioni. Ma, fatto ancora più importante, le manifestazioni hanno portato all'attenzione di una intera generazione la consapevolezza dell'occupazione.
La lotta a Sheikh Jarrah è nata dall'attivismo degli anarchici. Anche gli attivismi per la giustizia sociale hanno imparato qualcosa da loro, e non mi sto riferendo a rompere le vetrine di una banca.
La maggior parte delle accuse rivolte agli anarchici sono bugie. Ho partecipato a decine di manifestazione e non ho mai visto uno di loro attaccare un soldato o un ufficiale di polizia. A differenza del movimento anarchico globale, gli anarchici israeliani “limitano” il loro attivismo alla disobbedienza civile e alla nonviolenza – rifiuto di servire nell'esercito, bloccare le strade, boicottaggio, detenzione volontaria. Per queste azioni pagano un caro prezzo.
Anche quando non sono d'accordo con loro e mi trovo in difficoltà con il loro dogmatismo, sono certo che sono il gruppo più importante che la sinistra israeliana abbia visto in decenni. In pochi anni, molte persone che ora gli fanno gli sberleffi diranno che li hanno sempre supportati. Come un attivista ha scritto questa settimana su Facebook, se ci fossero così tanti anarchici come gli idioti che stanno alla Knesset, ci sarebbero un bel po' meno idioti nella Knesset.
Articolo del 8 luglio 2012, tratto da www.972mag.com
*traduzione a cura di Riccardo Carraro