Il Likud ha conquistato 29 seggi, mentre il rivale Campo Sionista, guidato dal laburista Yitzhak Herzog, solo 24. Lista Araba Unita a 14 seggi. Governo entro due-settimane.
AGGIORNAMENTO ORE 9.15
PALESTINESI: ACCELEREREMO PRATICA DI ADESIONE A CORTE PENALE INTERNAZIONALE
”Diciamo chiaramente che ci rivolgeremo alla Corte penale internazionale dell’Aja, che accelereremo la pratica nei suoi confronti, la porteremo avanti e la intensificheremo”, ha avvertito oggi Saeb Erekat, il negoziatore capo dell’Olp, a commento della vittoria elettorale di Netanyahu e della sua riconferma a capo del governo. “Tutti abbiamo sentito le dichiarazioni di Netanyahu, che cioè non consentirà la costituzione di uno Stato palestinese indipendente e che proseguirà la colonizzazione. La comunità internazionale deve ora sostenere gli sforzi della Palestina, in quanto Paese sotto occupazione, di rivolgersi alla Corte penale internazionale e ad altre istituzioni internazionali”.
di Michele Giorgio
Gerusalemme, 18 aprile 2015, Nena News – Benyamin Netanyahu non ha vinto, ha stravinto le elezioni legislative israeliane. Il suo partito, il Likud, ha conquistato 29 seggi (potrebbero salire a 30 con la conta dei voti dei soldati), mentre Campo Sionista del suo rivale, il laburista Yitzhak Herzog, solo 24.
A questo punto, secondo i media e contro gli exit-poll che ieri sera alla chiusura delle urne avevano dato i due partiti avversari alla pari, Netanyahu è in grado di formare una maggioranza solida con i suoi partner della destra estrema. Il partito centrista Yesh Atid, forte di 11 seggi, peraltro non esclude di entrare nella nuova maggioranza guidata dal Likud e altrettanto potrebbe fare Kalanu (10 seggi), il partito guidato da Moshe Kahlon, rappresentante della cosiddetta destra sociale, al quale qualche giorno fa Netanyahu aveva offerto il ministero delle finanze.
“Sono fiero per la grandezza di Israele, Ora dovremo formare subito un governo nazionalista forte e stabile”, ha detto Netanyahu escludendo definitivamente l’ipotesi di esecutivo di unità nazionale che si era affacciata ieri sera su proposta del capo dello stato Reuven Rivlin. Il vincitore ha già preso contatto con i leader della destra con i quali intende dare vita alla nuova coalizione. Netanyahu potrà contare anche su Yisrael Beitenu, il partito antiarabo del ministro degli esteri Avigdor Lieberman che, dato dai sondaggi fuori dalla Knesset, ha conquistato invece sei seggi. “Per noi è una vittoria”, ha commentato Lieberman “nonostante il tentativo di grandi forze di annientarci. Nessun altro partito sarebbe sopravvissuto a questa battaglia. Non è stata solo una lotta politica, siamo stati di fronte ad un annientamento mirato di un intero gruppo politico. Ci siamo confrontati contro grandi forze. Molti, anche nei media, hanno fatto fronte comune per eleminarci, ma non ci sono riusciti”.
Il terzo gruppo parlamentare alla Knesset sarà la Lista Araba Unita, con ben 14 seggi. Un risultato mai raggiunto che offre alle formazioni politiche che rappresentano la minoranza palestinese (20% della popolazione) in Israele la possibilità di mettere in piedi una opposizione forte all’offensiva, anche legislativa, della destra guidata da Netanyahu contro i cittadini arabi.
Tacciono in queste ore Herzog e l’alleata Tzipi Livni, passati dall’illusione della vittoria all’amarezza di una sconfitta quasi umiliante. Forte delusione anche per il Meretz, la sinistra sionista, che con grande fatica ha superato la soglia di sbarramento conquistando il minimo: quattro seggi. La leader Zahava Galon ha annunciato la sua rinuncia al seggio per permettere l’ingresso nella Knesset a Tamar Zandberg, quinta sulla lista presentata alle elezioni e astro nascente del partitino.
Israele si conferma un Paese di destra, sempre più estrema. I dirigenti dell’Autorità nazionale palestinese, pur senza proclamarlo pubblicamente, avevano sperato nella sconfitta di Netanyahu. Si annunciano ora nuovi scontri diplomatici, subito, a partire dal Primo aprile quando la Palestina entrerà a far parte della Corte Penale Internazionale e potrà chiedere una indagine per crimini di guerra contro Israele. Tra molti palestinesi in ogni caso si riteneva inutile e persino dannosa la vittoria del centrosinistra che, a loro dire, non avrebbe cambiato la situazione sul terreno, ma avrebbe comunque garantito a Herzog e Livni il sostegno dei governi occidentali.
Senza dubbio non brinda alla vittoria di Netanyahu neanche il presidente americano Barack Obama che mantienre rapporti personali molto difficili con il leader israeliano. Noto è lo scontro tra i due riguardo al possibile accordo internazionale sul programma nucleare iraniano. Comunque Obama in questi anni non ha mai fatto mancare a Israele l’appoggio decisivo degli Stati Uniti in diverse importanti circostanze alle Nazioni Unite e in altri ambiti internazionali contro i diritti dei palestinesi.
Il Garantista
19 02 2015
Una ragazzina di 14 anni, dopo 45 giorni di prigionia nel carcere israeliano, ha potuto finalmente riabbracciare i suoi familiari. Parliamo di Malak al-Khatib, una ragazzina palestinese di appena 14 anni arrestata lo scorso 31 dicembre dagli israeliani per aver lanciato una pietra.
In un’intervista rilasciata a Asharq al-Awsat, la giovane palestinese ha dichiarato: «Sono felice dopo 45 giorni di prigionia di esser tornata qui e di aver potuto rivedere i miei amici e la mia famiglia ».
Malak ha anche raccontato le dinamiche del suo arresto, avvenuto il 31 dicembre scorso: un gruppo di soldati l’ha circondata e buttata a terra e dopo averla caricata con la forza su un veicolo militare, l’hanno trasportata in una centrale della polizia dove la ragazza e i suoi amici sono stati sottoposti a duri interrogatori. «Ho conosciuto la sofferenza, il dolore, ho sperimentato il freddo e l’umiliazione, ma non ho mai avuto paura per questo», ha dichiarato Malak. «Ciò che mi addolorava era il pensiero della mia famiglia e dei miei amici, avevo paura di non rivederli mai più», ha sottolineato la 14enne.
La palestinese ha riacceso ancora una volta i riflettori sul problema dello stato di diritto che grava su Israele: la detenzione dei minorenni palestinesi. Sono 151 quelli detenuti al momento nelle carceri di Israele secondo un rapporto dell’organizzazione Military Court Watch. Di solito finiscono dietro le sbarre per avere lanciato qualche pietra contro i blindati o i militari israeliani: un reato da Corte marziale e Isreaele è uno dei pochi Paesi al mondo dove i minorenni (persino dodicenni) sono processati nei tribunali militari.
È andata così anche per Malak, condannata a due mesi di reclusione e 1.500 dollari di multa. Ha confessato di avere raccolto da terra un sasso e di averlo lanciato contro alcune automobili mentre rientrava a casa da scuola a Beitin, in Cisgiordania. Inoltre, secondo la testimonianza di cinque militari, aveva con sé un coltello che voleva usare per pugnalare gli uomini della sicurezza israeliana in caso di arresto. Una confessione che il padre della ragazza è sicuro le sia stata estorta con intimidazioni e minacce, e non sarebbe una novità. «Una ragazzina di 14 anni circondata da soldati israeliani ammetterebbe qualsiasi cosa, anche di avere un’arma nucleare», ha detto all’agenzia palestinese Moon. È stato già denunciato altre volte l’impiego di minacce per estorcere confessioni a ragazzini privati dell’assistenza legale e persino della presenza dei genitori.
La condanna arriva perfino dall’ Unicef che critica gli israeliani per il trattamento che riservano ai minorenni palestinesi: ha parlato e portato prove di interrogatori che sono «un misto di intimidazioni, minacce e violenza psicologica, con il chiaro intento di costringere il bambino a confessare». Vengono spaventati a morte, con minacce che riguardano i famigliari, o sono messi in isolamento.
Secondo Defense for Children international, nel 20 per cento dei casi, i bambini e adolescenti sono stati tenuti in isolamento in media per dieci giorni. E questo trattamento è riservato a ragazzi che sono poco più che bambini, spesso arrestati nel cuore della notte, anche se Tel Aviv dall’anno scorso ha un programma sperimentale che esclude gli arresti nottetempo. I mandati, però, secondo l’organizzazione Military Court Watch, vengono consegnati sempre dopo la mezzanotte.
Malak ha fatto notizia scatenando indignazione e proteste in Cisgiordania soprattutto perché è una ragazza. Il suo volto ha campeggiato nelle piazze delle città palestinesi e la leadership palestinese si è rivolta alle Nazioni Unite per denunciare gli arresti indiscriminati di minorenni nei Territori occupati.
Nel 47 per cento dei casi, vengono trasferiti in prigioni in Israele, dove è più complicate per i legali e i famigliari incontrarli. Una violazione delle Convenzioni di Ginevra. Inoltre, il sistema che prevede l’arresto e la detenzione di adolescenti e bambini, viola diverse norme internazionali sui diritti dell’infanzia.
Statisticamente, ogni anno, le autorità israeliane arrestano un migliaio di minorenni e tra i 500 e i 700 sono processati in tribunali militari. In Israele, la totalità dei detenuti palestinesi minorenni e la maggior pare degli adulti incarcerati, sono arrestati tramite la famigerata detenzione amministrativa. È una misura – utilizzata anche dalla Cina, Egitto e Sri Lanka – che consente ai militari israeliani di tenere reclusi prigionieri basandosi su prove segrete, senza incriminarli o processarli e i palestinesi sono soggetti a detenzione amministrativa fin dal mandato britannico.
Israele usa regolarmente la detenzione amministrativa in violazione della legge internazionale e dichiara di essere in un permanente stato di emergenza tale da giustificare l’uso quotidiano di questa pratica. La detenzione amministrativa israeliana viola molti standard internazionali; ad esempio, detenuti provenienti dalla Cisgiordania vengono deportati in Israele, violando direttamente la proibizione della Quarta Convenzione di Ginevra (Artt. 49 e 76) e ai prigionieri vengono spesso negate le visite dei familiari previste dagli standard internazionali e non vengono tenuti separati dagli altri detenuti, come prevedono le leggi internazionali.
Nella Cisgiordania palestinese occupata, l’esercito israeliano è autorizzato a emanare ordini di detenzione amministrativa contro civili palestinesi sulla base dell’art. 285 del codice militare 1651. Questo articolo permette ai comandanti militari di detenere una persona fino a sei mesi, rinnovabili se vi sono ragioni sufficienti per presumere che la sicurezza della zona lo richiedano.
Alla data di scadenza o appena prima, l’ordine viene spesso rinnovato, e non vi è alcun riferimento esplicito alla durata massima possibile, legalizzando così una detenzione senza scadenza. Gli ordini di detenzione vengono emanati al momento dell’arresto o, in seguito, spesso basandosi su “informazioni segrete” raccolte dai servizi israeliani.
Quasi mai né il detenuto né il suo avvocato vengono informati delle ragioni dell’internamento o messi al corrente delle “informazioni segrete” quindi i palestinesi possono essere incarcerati per mesi, se non anni, in via amministrativa, senza mai essere informati sulle ragioni o sulla durata del loro internamento e vengono di solito informati dell’estensione della loro prigionia nel giorno in cui il precedente ordine scade così non hanno alcun modo di appellarsi contro la loro detenzione.
Amnesty International è in prima fila per chiedere la sospensione della detenzione amministrativa. In un recente rapporto ha chiesto alle autorità israeliane di cessare di ricorrere alla detenzione amministrativa per reprimere legittime e pacifiche azioni degli attivisti dei Territori palestinesi occupati e di rilasciare tutti i prigionieri di coscienza, detenuti solo per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti alla libertà di espressione e di associazione. Da anni l’organizzazione per i diritti umani lo chiede, tanto che in una nota scrisse: «Il sistema della detenzione amministrativa era inteso in origine come una misura straordinaria da applicare contro persone che rappresentavano una minaccia immediata e concreta. Israele lo ha usato per decenni per calpestare i diritti umani dei detenuti. È un relitto che deve essere demolito».
Damiano Aliprandi
Nena News
15 01 2015
Sale di giri la campagna elettorale israeliana. Grazie alla vetrina francese il premier ha ottenuto due risultati in un colpo solo: ha messo in ombra i ministri e rivali Lieberman e Bennett e ha assestato un montante alle speranze dei leader di ‘Ha-Mahane’ ha-Zioni’, ‘Lo schieramento Sionista’, ossia il leader laburista Yitzhak Herzog e l’ex ministra centrista Tzipi Livni.
Qualcuno scrive che “è stato un boomerang”, altri prevedono che il viaggio in Francia dopo l’attacco a Charlie Hebdo si rivelerà un passo falso. Si sbagliano. Benyamin Netanyahu partecipando alla marcia di Parigi ha fatto il pieno, almeno per i suoi bisogni immediati. Ha ottenuto due risultati in un colpo solo: ha messo in ombra i ministri e rivali Lieberman e Bennett con lui in Francia e ha assestato un montante alle speranze di quelli di ‘Ha-Mahane’ ha-Zioni’ ‘, ‘Lo schieramento Sionista’, ossia il leader laburista Yitzhak Herzog e l’ex ministra centrista Tzipi Livni. Hanno scelto un nome militante, ad effetto, per la loro lista unica, sperando di fare leva sui rinnovati sentimenti nazionalisti tra gli israeliani ebrei. Ma il premier israeliano il sogno sionista lo realizza, lo rende concreto davanti agli occhi di tutti. Dopo gli attentati a Parigi, l’immigrazione in Israele dei francesi ebrei e degli ebrei in generale, è diventato un punto centrale della campagna elettorale e d’immagine del primo ministro, incurante delle parole del presidente Hollande che ha definito il mezzo milione di ebrei che vive in Francia parte integrante della società francese.
«Gli ebrei hanno il diritto di vivere in molti Paesi al mondo, in piena sicurezza. Ma c’è una sola terra che è la loro patria storica e che li accoglierà sempre a braccia parte. Israele è la vera casa di tutti noi», ha proclamato Netanyahu durante i funerali di stato di Yoav Hattab, Yohan Cohen, Philippe Braham e Francois-Michel Saada, i quattro morti nel Hyper Cacher di Parigi, sepolti martedì nel cimitero Har Hamenuhot di Gerusalemme vicino agli ebrei uccisi nella scuola di Tolosa, sempre in Francia, in un altro attentato, nel 2012.
A Parigi il primo ministro aveva addirittura arringato i francesi, esortandoli a trasferirsi alla «loro casa», Israele. Martedì ha parlato in generale dell’aliya, l’immigrazione ebraica. Ma l’occasione e il luogo scelti per le nuove dichiarazioni non lasciano dubbi sull’intenzione di Netanyahu di sollecitare i francesi ebrei a raggiungere Israele. Immigrazione ebraica e sicurezza in Israele è il messaggio che Netanyahu sta diffondendo per sbaragliare i suoi rivali di ‘Schieramento Sionista’ in una campagna per le elezioni del 17 marzo che poco alla volta sta entrando nel vivo. Certo non tutti, anche a destra, si dicono convinti della validità della linea scelta da Netanyahu. Persino un dirigente del movimento sionista come Natan Sharansky, presidente dell’Agenzia Ebraica (che promuove l’aliya), ha suggerito a Netanyahu cautela e di calibrare con attenzione il suo messaggio ai francesi ebrei. «Non possiamo dirgli: E’ vostro obbligo partire immediatamente, piuttosto dobbiamo rassicurarli. Non è intelligente intimare: emigrate ora», ha spiegato Sharansky.
Eppure, incurante delle critiche e forte dell’orientamente politico dei potenziali immigrati, il premier punta su un ulteriore aumento degli ebrei in arrivo dalla Francia e con ogni probabilità auspica che scelgano di andare negli insediamenti colonici in Cisgiordania. La tendenza lo conforta, parecchio. Il numero dei francesi ebrei che si sono trasferiti in Israele è passato da 1.800 nel 2012 a 3.300 nel 2013, a 7.000 l’anno scorso. Prima gli attacchi della scorsa settimana a Parigi, la proiezione per il 2015 era stata di circa 10.000, ora il numero potrebbe raggiungere 15.000 e oltre. L’Agenzia Ebraica ha aumentato il numero di emissari che in Francia da 12 a 20. Tutti impegnati domenica a Parigi a rispondere alle domande delle centinaia di persone che richiedevano informazioni su un possibile trasferimento in Israele.
Dror Ektes, un ricercatore israeliano legato a gruppi pacifisti, che da anni si occupa del monitoraggio dell’espansione delle colonie, non ha dubbi, è sicuro che «molti dei francesi ebrei che arriveranno in Israele, presto o tardi finiranno negli insediamenti colonici perchè sono di destra e ferventi nazionalisti. Già ora molti di questi francesi popolano in gran numero colonie come Yachir e Kochav Yaacov e c’è ragione di credere che ne arriveranno molti altri nelle colonie se gli appelli di Netanyahu otterranno risultati».
Michele Giorgio
Pagina 99
15 01 2015
Trecento persone. È il numero degli ebrei italiani che nel 2014 ha scelto di fare l’aliyah, l’emigrazione verso Israele. Una piccola cifra se paragonata all’esodo che riguarda la Francia, ma nel nostro Paese la comunità è molto più ridotta, attestandosi intorno ai 35 mila membri, secondo le stime della comunità ebraica di Milano. «Non è una migrazione colossale, però è un dato interessante se uno guarda la serie storica» spiega il professor Sergio Della Pergola, docente di Studi sulla popolazione ebraica all’Università di Gerusalemme. «L’immigrazione più massiccia è avvenuta subito dopo la Guerra dei Sei giorni, quando si arrivò al massimo storico, poco più di 350 persone», continua Dalla Pergola. «Quest’anno siamo alla cifra più alta a partire dagli anni ‘70».
Quello degli olim, questo il nome degli ebrei che vanno a vivere in Israele, è un fenomeno in crescita da almeno 10 anni. Come ci racconta ancora Dalla Pergola: «A partire dal 2003-04 si è verificato un continuo incremento nel numero degli immigrati verso Israele. Se guardiamo i dati degli anni precedenti, sia nel 2013 che nel 2012 il numero è di circa 130-140 persone. Nel 2014 abbiamo un raddoppio rispetto ai dati dei due anni precedenti, che a loro volta erano più alti rispetto a quelli di tutto l’ultimo decennio».
Ma chi sono i nuovi israeliani di origine italiana? «Ce ne sono due tipi» racconta al telefono da Tel Aviv Fiammetta Maregani. «Quelli come me che non vengono solo per ragioni legate al sionismo, ma anche per motivi culturali ed economici, e quelli invece più legati agli ideali religiosi e sionisti». Ricercatrice in antropologia all’Università di Tel Aviv, Martegani si è trasferita in Israele nel 2012. «Fino a dieci anni fa – spiega – quelli che facevano l’aliyah per ragioni politiche e religiose erano più numerosi. Oggi, vista anche la crisi in Italia, molti si trasferiscono per motivi economici».
A differenza di altri casi in Europa, come quello della comunità ebraica francese, i motivi che spingono a salire su un aereo per trasferirsi sull’altra sponda del Mediterraneo non sono legati alla paura dell’antisemitismo. «L’Italia non è la Francia. Dal mio punto di vista l’antisemitismo in Italia è quasi inesistente, e non è un motivo per scappare» dice Stefano Jesurum, giornalista, consigliere della Comunità ebraica di Milano e autore del libro Israele nonostante tutto (Longanesi). Per Jesurum i motivi del boom di aliyah sono da ricercarsi nella crisi economica e nella possibilità di contare su una rete di conoscenze nel Paese di arrivo: «Chi ha la possibilità di avere degli agganci in Israele prova a emigrare. Soprattutto i giovani. Un paio di figli di miei amici sono andati lì non tanto con l’idea di trasferirsi, ma perché qui non trovavano lavoro».
Sarebbe impreciso però ridurre l’emigrazione verso Israele a una scelta dettata esclusivamente dalla mancanza di lavoro. Per chi parte, crisi e motivazioni religiose non si escludono a vicenda, anzi. «Israele offre l’opportunità di vivere il proprio ebraismo in maniera più completa. Parecchie famiglie che hanno coltivato il sogno venirci ad abitare oggi si trovano in una condizione che spinge a fare il salto» ragiona da Gerusalemme Jonathan Pacifici. In Israele dal 1997, Pacifici è il fondatore e direttore generale del fondo di Venture Capital JP & Partners e gestore del sito Torah.it. Dal suo punto di vista è sbagliato ridurre tutto alla semplice questione economica: «Io starei attento a descriverla come un’immigrazione di opportunità: perché è comunque determinata da un forte attaccamento identitario, a volte i due elementi si sovrappongono. Fare una vita pienamente ebraica in Italia non sempre è facile, soprattutto per chi ha difficoltà economiche. Il cibo kosher è più caro rispetto a quello di un normale supermercato e l’iscrizione a una scuola ebraica incide pesantemente sulle finanze delle famiglie».
L’impossibilità di coniugare valori ebraici con la vita in Italia è alla base della scelta di Micol Picciotto ed Edoardo Marascalchi, giovane coppia residente a Netanya (30 km da Tel Aviv). «Ci siamo trasferiti quando abbiamo scoperto che aspettavamo il primo figlio» racconta Edoardo, «ci siamo chiesti cosa aveva da offrire Milano a dei bambini ebrei e abbiamo deciso fare l’aliyah. A Milano vivere rispettando la kasherut è costosissimo, in Israele è più economico. Gli stipendi sono paragonabili a quelli italiani e per un osservante c’è tutto, posso scegliere fra tre scuole religiose e dieci non religiose».
Fino allo scoppio della crisi a fare l’aliyah erano soprattutto i giovani, che generalmente sceglievano di rimanere dopo un anno di studio, tanto che la maggior parte degli olim erano studenti sotto i 21 anni. Oggi la situazione è cambiata completamente e a trasferirsi sono soprattutto le famiglie. Secondo i dati dell’Irgun Olè Italia (l’associazione degli olim italiani) il 64% dei nuovi arrivati è sposato.
È cambiata anche la geografia delle partenze: mentre prima si trasferivano soprattutto milanesi, oggi l’aliyah riguarda Roma in primis: il 77% degli emigranti proviene dalla comunità capitolina e solo un modesto 14% da quella milanese. Le ragioni sono da cercare nella composizione socio-economica della comunità ebraica romana, come ci spiega il professor Della Pergola. «A Roma c’è un ceto di piccoli commercianti che è fortemente danneggiato dall’attuale congiuntura, e quindi più interessato a emigrare. Si tratta principalmente di un’immigrazione a basso reddito dovuta al fatto che l’economia israeliana ha retto molto meglio di quella italiana».
L’aumento del flusso di immigrati fa sì che molte famiglie scelgano di vivere in città fino ad oggi poco abitate da italiani. Fino al 2010 chi arrivava dal nostro Paese sceglieva come luogo di residenza grandi città come Gerusalemme e Tel Aviv. Quest’ultima è da sempre il fulcro della vita economica e culturale della nazione, ma è anche una delle città dai costi più proibitivi al mondo. Così, complice il caro affitti, molti dei nuovi immigrati hanno iniziato a creare comunità italiane nei piccoli centri che gravitano attorno a Tel Aviv, come Rahanana, Ashod o Netanya.
Il lavoro per gli olim non manca, ci spiega Edoardo Marascalchi: «Gli italiani sono ricercatissimi perché sono pochi. Il problema è che il grosso della richiesta riguarda il gioco d’azzardo online e il trading online Forex. Nel Forex si tratta più che altro di chiamare i clienti per aiutarli a entrare nel giro delle scommesse finanziarie, essenzialmente tele-marketing. Nel gioco d’azzardo c’è meno contatto col cliente, ma il settore è sempre lo stesso. Il solo fatto di parlare italiano dà la possibilità di lavorare in questo campo, non occorre neanche conoscere l’ebraico, basta un po’ di inglese. Però se inizi a fare quel tipo di lavoro difficilmente smetti».
Il problema per i nuovi israeliani non sembra tanto quello di trovare impiego, ma il tipo di lavoro che si trova, soprattutto per chi non ha specializzazioni particolari o non parla l’ebraico: «Se non conosci la lingua l’integrazione è difficile, e se non la si impara subito è molto arduo riuscirci dopo. Chi arriva in cerca di lavoro spesso non riesce a bilanciare il lavoro con lo studio. Vanno subito a lavorare in aziende di trading online e finiscono per perdersi i sei mesi di Ulpan (il corso intensivo di lingua ebraica messo a disposizione dei nuovi arrivati), col risultato che finiscono a parlare italiano fra italiani». Eppure, nonostante le difficoltà di inserimento e il conflitto coi palestinesi, il numero di ebrei che lasciano l’Italia per Israele pare destinato ad aumentare ancora. Come spiega amaramente Fiammetta Martegani «almeno qui c’è lavoro. In Italia non c’è neanche quello».
Giorgio Ghiglione