Il Fatto Quotidiano
16 06 2015
Sei correttivi importanti hanno modificato radicalmente in dieci anni una legge nata male, impregnata di ideologia al punto tale da collidere più e più volte con la nostra Carta fondamentale.
Da un’iniziale situazione inaccettabile in cui le donne venivano sottoposte a pratiche assai discusse in termini di umanità diventa così via via possibile la diagnosi preimpianto (2005), produrre gli embrioni seguendo la fisiologia del donatore, conservarli e impiantare solo quelli sani (2009) e infine, la fecondazione eterologa, ovvero la possibilità di utilizzo di gameti estranei alla coppia in caso di infertilità (2014).
Oggi cade anche il sesto pilastro sul piano dei diritti. Diventa infatti possibile utilizzare la fecondazione eterologa anche nel caso di coppie non infertili, ma portatrici di malattie geneticamente trasmissibili.
Il 5 giugno sono state depositate le motivazioni della Corte Costituzionale.
Abbiamo chiesto all’avvocato Alessia Sorgato, penalista specializzata in protezione dei soggetti deboli, di darci le sue prime impressioni tecniche sulla sentenza e sulle sue possibili conseguenze nel panorama italiano.
1- Qual è la novità introdotta dalla sentenza della Corte Costituzionale del 5 Giugno?
In sostanza, due coppie hanno chiesto in via d’urgenza al Tribunale di Roma di essere ammesse a procedure di procreazione medicalmente assistita, con diagnosi preimpianto, essendo stata loro diagnosticata una malattia genetica. In entrambi i casi, tra l’altro, le gravidanze precedenti e spontanee erano state interrotte da aborto terapeutico. Il Tribunale, prima di decidere se ammetterle o meno, si era ritrovato un ostacolo insormontabile, dato da una limitazione contenuta nella legge 40 del 2004, per la quale l’accesso a quelle tecniche è consentito solo a coppie sterili ed infertili, caratteristica che le ricorrenti non avevano.
2- Prima di questa data, invece, solo la coppia sterile o infertile poteva far ricorso alla cosiddetta PMA (acronimo di procreazione medicalmente assistita)?
Si. L’articolo 4 della legge n. 40 prevedeva che il ricorso alla procreazione assistita dovesse essere circoscritto ai casi di infertilità. Il terzo comma vietava il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Questo finché il 9 aprile 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del divietò di fecondazione eterologa, rendendola, almeno in via teorica e di diritto, possibile nel nostro Paese.
3- In base a quali princìpi è stata modificata nel tempo la legge 40?
Soprattutto uno. Gli Ermellini hanno ricordato che la procreazione medicalmente assistita coinvolge non solo il diritto del nascituro, ma diverse esigenze costituzionali, ovvero diversi diritti che devono essere bilanciati tra loro. Esiste un diritto alla vita dell’embrione, ma devono essere assicurati al tempo stesso il diritto alla genitorialità e quello alla salute, e i cittadini non devono essere tra loro discriminati: è necessario cioè un livello minimo di garanzia e di tutela di ciascuno dei soggetti coinvolti nella riproduzione assistita. Già in passato (con la sentenza n. 151 del 2009) la Consulta ha sostenuto che “la tutela dell’embrione non è assoluta, ma limitata alla necessità di trovare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze della procreazione”.
4- Quindi la rimozione del divieto di fecondazione eterologa è stata in un certo senso l’innovazione più importante per la legge 40?
Esattamente, perché mette al centro il diritto di diventare genitori, di formare una famiglia, il che è protetto da varie norme della Costituzione e di altre leggi, quali quella sull’adozione, che dimostrano il favore del legislatore verso la famiglia intesa come ambiente dove crescere dei figli. Molti sono i diritti costituzionali fondamentali in gioco in una questione così centrale e delicata, in primis quello alla salute come concetto integrato, complessivo a un benessere sia fisico che psichico, come riconosciuto dall’atto costitutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dal lontano 1948.
5- Da qui il passo a concedere la possibilità di utilizzare la fecondazione eterologa non solo alle coppie infertili ma anche a quelle portatrici di malattie genetiche, finora costrette ad abortire in caso di malattia del nascituro, sembra breve e logico…
Già, perché l’ordinamento italiano, fino a questa pronuncia, si presentava incoerente nella misura in cui vietava alle coppie portatrici di malattie geneticamente trasmissibili la procreazione medicalmente assistita ma consentiva loro di abortire. L’aborto terapeutico, o il rischio di doverne subire uno, diventava così l’unico modo per una coppia tra cui vi fosse un portatore sano di talassemia, fibrosi cistica o distrofia muscolare per avere un figlio, anche a fronte della disponibilità tecnica della fecondazione eterologa come tecnica alternativa, certo meno “violenta” e preferibile. Tant’è che la Consulta, nella sentenza appena depositata, dichiara l’illegittimità costituzionale parziale della legge 40 proprio nella parte in cui non consentiva la procreazione assistita eterologa alle coppie portatrici affette da malattie trasmissibili ai nascituri, ma consentendo alle stesse coppie l’interruzione volontaria di gravidanza secondo la legge 194.
6- E adesso c’è chi sostiene che la legge 40 non vada più bene…
Adesso la legge 40, dopo ben sei aggiustamenti della Corte Costituzionale, è certo più coerente con la nostra Carta fondamentale. Viene da pensare che rimangano delusi coloro che avevano voluto a suo tempo una legge ideologica e che hanno opposto ogni tipo di resistenza a tradurre le pronunce della Corte Costituzionale in pratiche mediche e terapeutiche accessibili ai cittadini.
Ingenere.it
04 05 2015
Un sistema sanitario più orientato alla cura che alla prevenzione e una disparità dell’offerta terapeutica presente sul territorio nazionale sono le caratteristiche principali che emergono dall’indagine Diventare genitori oggi, appena presentata dal Censis e relativa al punto di vista degli specialisti (ginecologi, urologi e andrologi) che accolgono le coppie con problemi di fertilità prima che venga intrapreso il percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA).
“Si tratta della seconda indagine che il Censis ha dedicato al tema, la prima era relativa all’opinione della popolazione, e ce ne sarà una terza, rivolta alle donne, soggetti principalmente chiamati in causa quando si parla di gravidanza” ha spiegato la Fondazione Ibsa che ha finanziato le indagini.
“Che il nostro Paese viva un problema di bassa natalità è un’opinione che la gran parte dei medici coinvolti nello studio condivide” ha spiegato Concetta Maria Vaccaro, curatrice del rapporto. “Alla base della scarsa propensione ad avere figli sono ricondotte motivazioni principalmente economiche (75,3%). Inoltre, il 75% circa è convinto che la crisi economica scoraggi le coppie che devono ricorrere alla PMA”.
Ma le motivazioni sono anche culturali e politiche. L'ingresso delle donne nel mercato del lavoro non è stato infatti accompagnato da misure adeguate per la maternità, inoltre la questione dei tempi è cruciale. Le coppie sempre più tendono a pensare ai figli dopo i 35 anni, vale a dire proprio nel periodo in cui la fertilità di uomini e donne si riduce drasticamente, sia per l'invecchiamento dei corpi, che per la comparsa nelle donne di patologie più frequenti in questa età (endometriosi, fibromi, policistosi). A incidere su questo slittamento in avanti è soprattutto il mercato del lavoro precario.
Quando è il caso di preoccuparsi, allora, se i figli non arrivano? Il 50 per cento degli specialisti risponde: tra i 12 e 24 mesi dai primi tentativi di concepimento (il 36% consiglia invece di farlo tra i 6 e i 12 mesi). Ma è evidente che, a livello anagrafico, più tardi si inizia meno sono le possibilità di andare incontro ad esiti positivi. In questo senso, ha ricordato Vaccaro “il ruolo dell’informazione nei confronti di tecniche come la PMA, che non sono onnipotenti, è cruciale. Come ricordano gli esperti, nelle donne il calo della fertilità dopo i 30 anni è del 50% e il tasso massimo di successo della PMS è del 21%”. Più della metà degli specialisti intervistati giudica i propri pazienti effettivamente poco o per nulla informati sui problemi di infertilità e sterilità e sulle tecniche di PMA.
Secondo il 50 per cento degli specialisti l'infertilità è un problema che riguarda il 20-30% delle coppie italiane. Tra queste, quasi il 70% con età compresa tra i 35 e i 40 anni. Nel 89,3% dei casi si rivolgono a un ginecologo, dando per scontato che il problema sia della donna, solo nel 5,3% si rivolgono al medico generico e nel 2,7% all'andrologo. "Nel 18% dei casi le coppie decidono di andare all'estero per intraprendere una PMA" spiega poi Vaccaro. Le motivazioni riportate dall'indagine vanno dall'accesso a tecniche non consentite in Italia (come la maternità surrogata), al più facile superamento delle liste d'attesa, alla maggiore qualità del servizio.
C’è poi la questione dell’accesso alle cure in Italia. In base a quanto riportato dalle esperienze degli specialisti, i pazienti con problemi di infertilità sono seguiti quasi nella metà dei casi privatamente (46,6%), il 39,7% è seguito nel pubblico e il 13,7% sia nel pubblico che nel privato. "Il divario appare accentuato a livello territoriale tra le regioni: mentre a Nord i casi sono distribuiti equamente tra strutture pubbliche e private, al Centro il privato gestisce il 58% della domanda, e al Sud il 69%" ha spiegato Vaccaro.
Rispetto all’applicazione della legge 40 del 2004, nell’88,7% dei casi, i medici sottolineano che non in tutte le regioni italiane è assicurato lo stesso livello di qualità nei trattamenti per la PMA e che nonostante le dichiarazioni di principio non in tutte le regioni italiane è assicurata la gratuità dell’accesso alle cure per la PMA (83,3%). Il 76,0% si reputa d’accordo con una revisione della legge 40/2004. L’aspetto della legge che andrebbe principalmente modificato, riguarda la possibilità di offrire effettivamente alle coppie la possibilità di accedere alla fecondazione eterologa (60,5%), un’opinione più condivisa dai ginecologi (61,4%).
Per quanto riguarda il tasso di natalità (passato dal 9,8 per mille abitanti nel 2008 al 8,5 nel 2013, fonte Istat), ha spiegato Vaccaro, "c’è stata un’inversione di tendenza tra Nord (1,46) e Sud Italia (1,31) dovuto principalmente alla fertilità delle straniere residenti nelle regioni settentrionali. Se non avessimo il contributo degli stranieri saremmo già un paese in declino demografico, e nonostante ciò anche il tasso di fecondità tra le straniere si abbassa, perché forse è davvero difficile fare figli nel nostro Paese” ha continuato Vaccaro, che definendosi una veterofemminista ha tenuto a sottolineare come “non è un caso che nei paesi del nord europa le donne facciano più figli, perché sono più tutelate dal welfare rispetto alla loro presenza nel mercato del lavoro. Il tasso di natalità in Italia è così basso anche perché fare figli è diventata una questione privata. La decisione di fare figli è sì individuale, ma riguarda tutti, la funzione riproduttiva dev'essere percepita come un valore per la progressione sociale”. (cb)