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Si ribellò alla 'ndrangheta. Confermati i 4 ergastoli

  • Venerdì, 19 Dicembre 2014 09:27 ,
  • Pubblicato in Flash news

La Stampa
19 12 2014

Di lei alla fine sono rimasti duemilaottocentododici frammenti ossei recuperati in un tombino alla periferia di Milano: strangolata e poi bruciata per aver rifiutato l'omertà mafiosa.

E ci sono voluti degli anni e la forza d'animo di sua figlia Denise perché i resti di Lea Garofalo e il suo gesto di libertà diventassero un simbolo della lotta alla mafia. ...

Vite in emergenza. Tra cricche, isolamento e indeterminatezza

  • Mercoledì, 10 Dicembre 2014 15:00 ,
  • Pubblicato in Flash news

Contropiano
10 12 2014

Dedicato a chi fa la faccia sorpresa nel sentir parlare di cooperative colluse col potere e il malaffare, cui era stato dato in subappalto la gestione dell'"accoglienza". A costi svedesi e risultati da favelas.

Dedicato, naturalmente, anche a chi fa finta che le coop "bianche", direttamente collegate con le gerarchie vescovili, siano "indenni da sospetti".

*****

Vite in emergenza, tra cricche, isolamento e indeterminatezza

Antonio Sanguinetti,

Siamo ormai ad un anno dall’applicazione dello stato d’eccezione nelle politiche migratorie, il tempo giusto per trarre un primo bilancio. Nel febbraio del 2011 l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi firmò l’ordinanza che dette potere alla Protezione Civile di intervento nella gestione degli sbarchi e del reperimento degli alloggi per i nuovi arrivati. Il progetto venne denominato “emergenza Nord Africa”, con questo atto l’immigrazione, al pari dei rifiuti e del terremoto di L’Aquila, entrò nel novero dei problema da affrontare con le procedure straordinarie. In poche parole questo vuol dire agire in deroga alle leggi ordinarie e godere di una procedura di assegnazione degli appalti diretta, senza particolari controlli. Come i casi del post terremoto di L’Aquila e le discariche di Napoli hanno insegnato, tutto si traduce nell’affarismo delle solite cricche e nel fallimento delle misure preventivate.

Partiamo dagli ultimi giorni della storia delle migrazioni in Italia. Lo scorso 17 marzo sono sbarcate 300 persone a Lampedusa, tante ne sono bastate per mandare in tilt tutta la macchina dell’accoglienza italiana: il centro di accoglienza chiuso; nuove diatribe tra cittadini, comune e ministero dell’Interno. Insomma sembra di essere tornati ad un anno fa, sebbene i numeri e la situazione internazionale siano totalmente diverse.
Ad una prima impressione sembra solo una questione di mal organizzazione e di una mancanza di collegamenti tra pezzi delle istituzioni. A ben vedere dietro il fallimento c’è un’aggravante in più, si parla del afatto che la Protezione Civile abbia previsto per il biennio 2011-2012 una spesa per la “emergenza Nord Africa” di circa 700 milioni di euro, una parte destinata a finanziare i rimpatri, l’altra alla creazione di nuove strutture. Una montagna di soldi di cui la gran parte è stata spesa per affittare edifici per lo più in stato di abbandono e per rimborsare le spese delle cooperative, il risultato è un servizio che nella maggioranza dei casi si può definire di pessima qualità. Del resto se solo 300 persone bastano per creare il caos nel sistema di accoglienza, allora si può logicamente pensare che questo sistema sia del tutto inesistente.

Un ruolo importante nella gestione dell’emergenza l’hanno avuto gli enti locali, nell’Aprile dello scorso anno il governo raggiunse un accordo con le Regioni, l’Anci (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) e l’Upi (Unione delle Province d’Italia). A loro fu affidata l’implementazione territoriale del progetto. Ovviamente ogni ente ha agito diversamente, ciò ha comportato un’eterogeneità della qualità dei servizi erogati. Con una tale difformità, ai rifugiati non è rimasto altro che sperare nella buona sorte, il potere di condurli in un luogo in cui l’amministrazione avesse a cuore il rispetto della dignità umana era in mano solo alla dea bendata.

Prendiamo il caso della Regione Lazio. Nel maggio del 2011, ha indetto un bando per progetti di accoglienza qualificata in attuazione del progetto di inclusione sociale per i richiedenti/titolari di protezione internazionale (PRIR). Tra i beneficiari del piano vennero fatti rientrare sia i migranti giunti in Italia nel periodo di emergenza sia coloro che erano già presenti sul territorio nazionale prima della decretazione dello stato di emergenza. In totale sono compresi 3178 cittadini stranieri, 2037 nella provincia di Roma, di cui 890 nella sola capitale. Il totale dei progetti finanziati sono 53 su 57 domande presentate.

Di fatto si tratta di una privatizzazione della gestione dei centri di accoglienza per rifugiati ed i richiedenti asilo. Infatti, precedentemente vi erano solo due vie da percorrere: una governativa, i CARA; l’altra in mano agli enti locali, lo Sprar. Con questo provvedimento si apre una terza via, la cui gestione è per lo più in mano alle cooperative vincitrici e alla protezione civile, il tutto non regolato o meglio in deroga alla legge vigente.

Proseguendo nello specifico del bando si nota un’altra anomalia: la concentrazione dei progetti in mano a pochi vincitori. Nel caso della provincia di Roma il dato è lampante, se si scorrono con attenzione i dati forniti dalla Regione Lazio si nota come la Domus Caritatis e il consorzio Casa della solidarietàabbiano un ruolo predominante.

Domus Caritatis ha ottenuto l’assegnazione di solo nove progetti, se si considera questo numero ne risulta un ruolo marginale. In realtà il dato da considerare è un altro, la ripartizione dei fondi non avviene per progetto bensì per persone ospitate, in quanto viene versato alla cooperativa un rimborso di 40 euro per ogni rifugiato. Allora il dato importante non è quanti progetti hanno ottenuto il finanziamento bensì quanti rifugiati si ospitano, se assumiamo questo punto di vista la prospettiva si ribalta, infatti la Domus Caritatis ne ospita 790, più di un terzo del totale e il consorzio Casa della solidarietà con quattro progetti ne ospita 370. Sommandole si raggiunge più della metà del totale dei rifugiati nella provincia di Roma gestite da due sole cooperative.

Fin qui potrebbe essere anche un caso, il problema si crea quando si cercano su internet i nomi dei loro dirigenti, scorrendo la lista si nota come entrambe abbiano lo stesso legale rappresentante (figura normalmente corrispondente al presidente). Coincidenza? Il dubbio si fa ancora più forte quando si scopre che sempre la stessa persona ricopra la carica di Camerlengo della Arci Confraternita, nota cooperativa molto vicina alla Cei e affermata nel settore in quanto gestore di numerose strutture di accoglienza, tra le quali quella Mineo anch’essa divenuta celebre nella prima fase della ”emergenza Nord Africa”.

Del resto qualche operatore della Domus caritatis ha ammesso di aver ricevuto il compenso direttamente dall’Arci Confraternita, mentre sempre sulla rete si trovano numerose testimonianze di persone che chiamando al numero telefonico della Domus Caritatis hanno trovato dall’altra parte il centralino dell’Arci Confraternita. Insomma c’è il fondato sospetto che una cooperativa da sola gestisca indirettamente la metà di tutti i centri della provincia di Roma, una nuova forma di monopolio o in ogni caso di accaparramento di fondi pubblici, il tutto come narratoin precedenti articoli di operatori (, convive con una qualità dei servizi erogati a dir poco irrispettosa dei diritti umani.

Avanzando sul terreno dei punti in comune con i precedenti casi di emergenza, torna utile leggere un’interessante ricerca coordinata dal sociologo Enrico Pugliese su “Le condizioni di vita delle famiglie e degli anziani dopo il terremoto”. Leggendo le problematiche e le condizioni di vita nelle “new Town” abruzzesi viene facile il parallelo con i nuovi centri di accoglienza per richiedenti asilo, sono almeno due le caratteristiche, oltre gli sprechi, che ritornano in entrambi i casi: l’isolamento e l’indeterminatezza.
L’isolamento dei migranti è prima di tutto spaziale, le strutture sono ubicate solitamente a distanza di diversi kilometri dai centri cittadini, e spesso i trasporti pubblici sono difficili da raggiungere.
Tuttavia questo non è il problema più grave, piuttosto si deve andare a indagare sugli effetti perversi della pianificazione autoritaria, con questo nome si indica un processo di costruzione operativa che non ha contemplato la partecipazione né dei migranti né della popolazioni delle zone interessate. Le conseguenze sono visibili ad occhio nudo, quartieri e paesi interi non preparati all’accoglienza e ostili verso i nuovi arrivati e strutture create in tempi brevi senza i necessari punti di aggregazione e incapaci di soddisfare i bisogni peculiari di richiedenti asilo.

Infine l’indeterminatezza è un sentimento condiviso con gran parte degli aquilani, l’impossibilità di fare progetti e organizzare la propria vita. Nessuno, tanto meno i diretti interessati, è capace di riferire se la situazione attuale sia definitiva o provvisoria, questo blocca qualsiasi capacità di prendere delle decisioni. Si rimane sempre sospesi tra l’alternativa di restare o tornare nel proprio paese, si vive in uno stato di completa inedia e noia.

Il nuovo corso dell’accoglienza, allora, si deve leggere all’interno di una complessiva ridefinizione del Welfare, emerge con violenza dalla crisi dello Stato sociale un nuovo modello che mescola due elementi esplosivi: la programmazione autoritaria e la privatizzazione dei servizi. Dunque il potere quasi dittatoriale del commissario per l’emergenza convive con l’affidamento, proprio per il suo carattere extra ordinario, della gestione alle cooperative. Il risultato è un pericoloso imbarbarimento della società.

da Esc-Infomigrante, Roma - 31 marzo 2012

Accoglienza tossica

  • Martedì, 09 Dicembre 2014 09:02 ,
  • Pubblicato in DINAMO PRESS

DinamoPress
09 12 2014

di RM_ResistenzeMeticce
Ultima modifica il Domenica, 07 Dicembre 2014 15:56

Lo avevamo denunciato da tempo e torniamo a farlo, proprio ora che la vera natura del sistema accoglienza a Roma è sotto gli occhi di tutti.

Una bolla speculativa: ecco cos'è l'accoglienza romana. Come nella New York dei derivati tossici, la Roma di Alemanno ha saccheggiato i fondi europei per rinchiudere migliaia di rifugiati in tuguri. Dalle inchieste emerse negli ultimi giorni sembrerebbe che ”spacciare” posti di accoglienza fosse l'attività più redditizia della cupola romana: fabbriche abbandonate, alberghi in disuso, ex uffici trasformati improvvisamente in centri in cui parcheggiare richiedenti asilo, rifugiati, minori non accompagnati. Queste strutture sono state trasformate nella "casa" di migliaia di persone, nella più totale assenza di rispetto per la dignità della persona. Tutto ciò attingendo a piene mani dai fondi europei per le politiche d'asilo: gran parte dei 45 euro giornalieri per gli adulti e degli 80 destinati ai minori erano stanziati dal Ministero dell'Interno, ma avevano origine a Bruxelles. Un trasferimento di fondi sempre ai margini della trasparenza, spesso in deroga a ogni norma in materia di appalti. Un eldorado per le lobby milionarie del terzo settore, mostri dai mille volti, che hanno saccheggiato tutto, producendo effetti tossici sui quartieri, sulle vite dei migranti e sul lavoro degli operatori. Mentre monta l’attenzione sulla saga di Mafia Capitale (peraltro annunciata da tempo), è importante ricordare che movimenti e associazioni da anni e con poche risorse hanno denunciato e dimostrato la tossicità delle strutture di accoglienza per i migranti e l’effetto devastante di tale gestione sulle vite di migliaia di persone. In particolare, già nel 2011 leggevamo con sospetto il susseguirsi di editti eccezionali sulla cosidetta "invasione" che sarebbe dovuta seguire alle “Primavere Arabe”, mentre Lampedusa tornava ad essere snodo di arrivi, naufragi e strumentalizzazioni politiche.

Da allora, abbiamo provato a documentare cosa accadeva nella Capitale, dove molte contraddizioni del sistema si accumulavano e acuivano. Abbiamo raccolto le testimonianze degli operatori dei centri di accoglienza di “emergenza”, che spuntavano come funghi, e dei migranti "ospitati" al loro interno. Non è stato facile. E non lo è stato nemmeno ricostruire la mappatura dei centri, perché le istituzioni pubbliche, invece di garantire il rispetto degli standard minimi di accoglienza, coprivano palesemente le speculazioni dei privati. Ad oggi, è ancora molto difficile stabilire quanti fossero e dove si trovassero i centri di accoglienza aperti durante l'Emergenza Nord Africa. Il dipartimento delle politiche sociali del Comune di Roma, allora guidato dall'oggi infrequentabile Scozzafava, è stato un muro di gomma contro cui è rimbalzata ogni richiesta di chiarimento. Bastava però scorrere le graduatorie del bando, nascoste tra gli anfratti del sito della Regione Lazio, per intuire cosa stava succedendo: il 90% degli appalti era suddiviso tra due consorzi di cooperative, la Eriches 29 di Buzzi (che vede al suo interno anche la “29 giugno”) e l’Arciconfraternita di Zuccolo (che controlla, tra le altre, cooperative come Domus Caritatis e Casa della soliarietà). Una spartizione quasi matematica, che lasciava soltanto le briciole ai pochi esempi di accoglienza virtuosi che andavano via via scomparendo, spazzati via dal business umanitario. Eriches 29 e Arciconfraternita, due mondi in apparenza separati: uno parte integrante della Lega Coop, l'altro espressione della CEI. Nell'inchiesta della procura non è inquisito nessun membro dell'Arciconfraternita, eppure, in una telefonata intercettata, il braccio destro di Carminati e il presidente della Domus Caritatis si spartiscono i centri in un equo 50/50. "Equo" per i loro profitti, non certo per chi vive e lavora nei centri.

Il caso di Anguillara, alle porte di Roma, è stato uno dei simboli di questo degrado: una decina di nuclei familiari erano ospitati in una tenuta privata in piena campagna. Dopo diversi mesi, e soltanto grazie alle proteste delle donne rifugiate, il Comune ha preso atto che la struttura non solo non rispettava le norme igienico-sanitarie ma era in parte costruita abusivamente. Soldi pubblici arricchivano privati, che ne spendevano una parte per affittare una struttura malsana e abusiva: un piccolo capolavoro! Di casi da denunciare ce ne sono stati a decine. Il più eco folkloristico è forse quello dei migranti arruolati come spalatori di neve: manodopera gratuita e facile da reperire. Come non vedere in quella mossa, apparentemente goffa, un'anticipazione del Jobs Act appena passato in Senato? Eppure all’epoca qualcuno rise sull’eccesso di zelo di Alemanno e sulla neve.

Un altro esempio, gravissimo, è quello dei centri emergenziali per minori stranieri non accompagnati: centri che hanno ospitato ragazzini in megastrutture da oltre 100 posti, contrariamente alle norme in materia di tutela e presa in carico dei minori, incassando gli 80 euro giornalieri pro capite teoricamente destinati all'accoglienza in piccole case-famiglia. Quando "l'affare" dei centri straordinari per minori a Roma si è fatto meno appetibile, perché se ne profilavano altri di più interessanti nel quadro dei nuovi flussi di ingresso e della riorganizzazione del sistema di accoglienza, i giovani ospiti di quei centri sono stati criminalizzati e buttati per strada.

In generale, i migranti e gli operatori che abbiamo incontrato in questi anni denunciavano la loro condizione ma spesso con timore. Raccontavano dell'assenza di avvocati e di corsi di lingua e formazione, della sporcizia, dei pasti schifosi, del sovraffollamento. Non di rado preferivano non farsi riprendere in volto, per paura di ritorsioni (vedi la video-inchiesta che riproponiamo a fondo articolo). Una paura tremenda che oggi è facile comprendere, nel momento in cui la controparte ha mostrato a pieno il suo volto. Ripetiamolo con chiarezza: per migranti e operatori, le cooperative che speculano sui centri rappresentano solo e soltanto una controparte.

Il resto è cronaca, il “mondo di mezzo” e la ragnatela di corruzione politica. In queste ore si solleva un'opinione pubblica indignata. A nostro avviso, in questa vicenda la sconfitta è un'altra. A queste latitudini, i migranti e gli operatori non contano niente. Le loro testimonianze, espresse mettendo a rischio la propria incolumità, non sono riuscite a scalfire di un centimetro l'operato dell'amministrazione. Eppure bastava ascoltarli per capire che i pasti distribuiti in tutti i centri dalla Cascina (Comunione e Liberazione, ma in affari con Arciconfraternita) fanno schifo, che nonostante gli ingenti fondi stanziati ci sono operatori che lavorano come volontari e che tutti gli altri sono precari, sottopagati e/o in nero, senza garanzie e senza rispetto delle qualifiche professionali. Adesso la bolla è esplosa e tutti i giornali lanciano lo scoop, ma tanto stupore nasconde una profonda ipocrisia: il business dell'accoglienza era chiaro a tutti, così tanto da diventare un motivetto agito anche dalle destre per giustificare l'assalto ai centri e dare inizio a una pericolosissima campagna elettorale. Salvo poi scoprire che quelle stesse destre, vecchi rottami fascisti o nuovi arnesi del razzismo metropolitano, distribuivano favori e denari ai loro seguaci.

L'amministrazione Marino, erede consapevole della situazione, si è piegata davanti agli interessi delle cooperative, mantenendo in vita il sistema 50/50 del duo Buzzi/Zuccoli. Le cose cambiano velocemente e le norme si adeguano alla prassi anche laddove questa è dichiaratamente criminale e disumana: negli ultimi mesi sono in corso grandi manovre amministrative che ridefiniscono standard, requisiti, denominazioni dei centri di accoglienza. La dicitura Emergenza Nord Africa è scomparsa, ma molti di quei centri sono ancora aperti: alcuni transitati nel progetto SPRAR, altri passati a diretta gestione della Prefettura. La situazione, però, resta invariata: le condizioni di vita degli ospiti dei centri non sono migliorate, molti centri versano ancora in condizioni indegne. E da chi sono gestiti, questi centri? Dalle stesse cooperative che gestivano i centri dell'Emergenza Nord Africa, a volte sotto un nuovo nome (vedi ad es. la cooperativa ABC, sempre in quota Eriches 29).

Dalla nostra ultima inchiesta, di pochi mesi fa, emergono alcuni esempi significativi di come la mala gestione inaugurata con l'emergenza sia poi diventata gestione ordinaria. Nel centro di via Castrense (Eriches 29) gli utenti hanno ricevuto per un anno solo 2 euro al giorno, invece dei 2.5 che gli spettavano: il resto è stato semplicemente intascato dalla cooperativa. In via Staderini, dove fin dall'inizio dell'Emergenza Nord Africa è aperto un centro gestito dalla Domus Caritatis, vivono in 500 tra rifugiati e richiedenti asilo, nella quasi totale assenza di servizi e percorsi di integrazione socio-lavorativa, in stanze stracolme, senza separazione tra famiglie con bambini e adulti. A Rocca Cencia (Domus Caritatis) la situazione igienico-sanitaria è allo stremo: nelle scorse settimane i rifugiati hanno trovato perfino delle cimici nei letti. Nella zona di Rebibbia, in poco più di un kmq sono state aperte quattro nuove strutture: in una di queste si trovano contemporaneamente quattro diversi progetti (Fer, exEna, Sprar, Prefettura) per un totale di 120 ospiti. Uno di questi progetti è gestito da tre diverse cooperative (Eriches 29, Un sorriso, Inopera) e ospita 50 persone respinte in Italia da un altro paese europeo a causa del Regolamento di Dublino. Il centro è stato aperto di recente e l'ingresso degli "ospiti" è avvenuto senza prima predisporre organizzativamente la gestione della struttura, con la conseguenza che le cooperative continuano a rimpallarsi responsabilità e competenze.

L'accoglienza tossica non è finita nel 2013, come l'inchiesta della magistratura e alcuni articoli di giornale sembrerebbero lasciar credere. Quel sistema è ancora in piedi, con i medesimi accordi e le stesse spartizioni. Non basta arrestare Buzzi per decretare la fine del "sistema Odevaine" (come definito dall'inchiesta stessa): un sistema che coinvolge direttamente il Ministero dell'Interno e la dimensione nazionale, a partire da Mineo. Al contrario, è necessario invertire urgentemente la rotta, smantellando i mega-centri. I fondi europei devono essere investiti in un'accoglienza di qualità, in progetti capaci di favorire l'inserimento socio-lavorativo e l'autonomia delle persone. Un primo passo sarebbe ripristinare le originali modalità di funzionamento degli SPRAR, snaturate dagli interessi del business umanitario. Occorre garantire la dignità e i diritti delle persone accolte e, allo stesso tempo, le professionalità degli operatori sociali.

Infine, mentre la bolla dell'accoglienza esplode vogliamo rivolgere un'ultima domanda ai sedicenti "comitati anti-degrado", a quei fascisti nascosti dietro la maschera di normali cittadini che in queste settimane stanno conducendo una campagna ferocemente razzista nella nostra città. Lega Nord, Casa Pound, Fratelli d'Italia hanno raccontato che richiedenti asilo e rifugiati sono un costo insostenibile per la nostra società, hanno provato a dipingerli come criminali per fomentare l'odio sociale. Oggi che si scopre che una grossa fetta della destra romana (estrema e non) speculava sull'accoglienza, vorremmo sapere: a cosa vi riferivate esattamente quando parlavate di degrado?

Per rispondere pubblicamente a tutto lo schifo che finalmente è diventato di dominio pubblico, per dire che Roma non appartiene a questa mafia e che c'è un'altra città aperta e solidale che lotta per riprendersi i diritti che le spettano, rilanciamo il corteo per il "diritto alla città" di sabato 13 dicembre (h.15 piazza Vittorio).


Riproponiamo qui a seguire la video-inchiesta "Vite in emergenza", realizzata da Esc Infomigrante nei centri di Roma e provincia durante l'"Emergenza Nord Africa":

Ragazzi di strada tra banchieri e stragi di stato

Sono partiti al grido di "pijamose Roma" e se la sono presa davvero. Se vogliamo ricostruire la storia di questa banda che per 40 anni ha controllato ogni attività, dai sequestri di persona al gioco d'azzardo, dalle rapine al traffico degli stupefacenti, per poi salire su, su fino ai piani alti della politica e dei consigli di amministrazione [...]Qualcuno è vivo, qualcuno è morto, la filosofia di Carminati.
Rita Di Giovacchino, Il Fatto Quotidiano ...

Corruzione, siamo i primi

Il Fatto Quotidiano
04 12 2014

di Marco Travaglio 

“L’Italia sarà la guida dell’Europa”, aveva promesso Renzi a luglio, assumendo per sei mesi la guida dell’Unione. Ed è stato di parola. Non che il merito sia suo, anzi: lui è appena arrivato, ben altri sono i protagonisti di questa irresistibile ascesa, a destra, a sinistra e al centro. È stata dura, ma dopo anni d’impegno indefesso ce l’abbiamo fatta: siamo il paese più corrotto del continente. L’ambìto riconoscimento arriva da Transparency International, che pubblica l’annuale Corruption Perception Index con le valutazioni degli osservatori internazionali sul livello di corruzione percepita in 175 paesi del mondo. Nel 2014 l’Italia conferma la 69ª posizione conquistata nel 2013 nella classifica generale dei paesi meno corrotti, ultima nel G7 e nell’Ue, sbaragliando gli ultimi concorrenti che ancora osavano sopravanzarci, Bulgaria e Grecia, che ci raggiungono a pari merito, facendo il vuoto alle nostre spalle.

Ora, dopo avere sbaragliato anche Sudafrica, Kuwait, Arabia Saudita e Turchia, puntiamo al Montenegro e a São Tomé, che contiamo di superare quanto prima. Nel ringraziare le bande del Mose e di Expo per il fattivo contributo, resta il rammarico per il tardivo esplodere dello scandalo del Cupolone, i cui effetti benefici potranno farsi sentire solo nel 2015 (se no sai che performance). L’importante è che Renzi tenga duro, tenendo bloccate le leggi contro la corruzione, la frode fiscale, l’autoriciclaggio, il falso in bilancio, i conflitti d’interessi e la prescrizione. Ma il Patto del Nazareno col Pregiudicato regge e, se Dio vuole, ci darà presto un capo dello Stato che garantisca gli standard nazionali almeno quanto l’attuale. Preoccupa, questo sì, il persistere a macchia di leopardo di alcuni pm che – nonostante gli innumerevoli moniti a lasciar perdere – si ostinano a indagare sulla corruzione, privando il Paese dell’apporto di tanti “uomini del fare” dediti ad attività criminali che fanno girare l’economia e crescere il Pil.

Ecco perché, come giustamente chiedono Forza Italia, Ncd & galeotti vari, è tempo di por mano a una legge che limiti, o meglio proibisca tout court le intercettazioni: si sa che, intercettando un vecchio tangentista pluricondannato come Greganti o Frigerio o Maltauro (casi Mose ed Expo) o un ex esponente dei Nar e della Banda della Magliana o un condannato per omicidio (inchiesta Roma mafiosa), è inevitabile incappare in qualche sindaco o assessore o politico di destra, di centro e di sinistra. E poi diventa dura insabbiare tutto: quando hai i morti in casa, è già troppo tardi, i cadaveri puzzano e i vicini mormorano, mica puoi far finta di niente. Bisogna agire alla fonte, evitando di scoprire queste brutte cose. Lo spiegava l’altra sera a Ballarò il generale del Ros Mario Mori, purtroppo in pensione, rivendicando orgogliosamente la trattativa Stato-mafia del ‘ 92 con un giusto distinguo lessicale (“Non è stata una trattativa, è stato un baratto”): “Io ero la Polizia giudiziaria che stava facendo operazioni antimafia e quello era un mio compito. Io avevo il coraggio di andarci (dal mafioso Vito Ciancimino, ndr), nessun altro aveva il coraggio, erano tutti nascosti sotto alle scrivanie in quel periodo. Quella fatta con Ciancimino è una trattativa, però è una trattativa consentita dalla norma. Ciancimino era debole, sul suo capo s’addensava una serie di procedimenti che l’avrebbe portato sicuramente in galera, ci poteva dare qualche spunto e barattarlo con un trattamento migliore”.

Ecco, chi oggi pensa di tener dentro il camerata Carminati & C., prenda buona nota: questo deve fare una polizia giudiziaria che si rispetti in un paese moderno. Infischiarsene della Costituzione e delle leggi, tenere all’oscuro i magistrati e i vertici dell’Arma, e trattare anzi barattare con i criminali. Poi, naturalmente, evitare accuratamente di arrestarli e affidare loro le perquisizioni dei covi. Infine diventare generali, capi dei servizi segreti e, una volta in pensione, consulenti per la sicurezza del sindaco Alemanno (già…) e controllori della trasparenza degli appalti di Expo su incarico del governatore Formigoni (ri-già…). Altrimenti si perde la guida dell’Europa.

 

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