Osservatorio Iraq
13 07 2015
Ritorno in Palestina, tra Occupazione, colonie e resilienza. E l’essenza del “sumud”: l’ostinato resistere, come le radici degli alberi.
DA GERUSALEMME A BETLEMME, PASSANDO PER IL MURO
“Portami lì con il vento e facciamo insieme una passeggiata per Gerusalemme. Salutami ogni città, ogni pietra, ogni palestinese che resiste”.
Il messaggio mi arriva quando sono atterrata da poche ore. Sono davanti alla porta di Damasco, soglia d’accesso alla Città vecchia, che si staglia contro un cielo luminoso e da il benvenuto ai visitatori.
L’amica che me lo manda è nata e cresciuta in Giordania e Gerusalemme, come milioni di palestinesi, non l’ha mai vista. Ne’ mai potrà farlo, non finché lo status quo nel quale questa terra è strozzata resterà tale, nell’inerzia di classi politiche ferme, nell’indifferenza complice della comunità internazionale.
Storie già viste, già sentite migliaia di volte, ma che non smettono di colpire chi non ha dovuto faticare poi molto per raggiungere questa terra negata a chi da questa stessa terra proviene. “Turismo”, basta dire al soldato di turno che controlla il confine con la Giordania. “Be nice, be stupid”, è il consiglio da seguire per non destare troppi sospetti davanti alle domande inquisitorie che vengono rivolte per potere entrare nel paese, poste da chi quel paese lo occupa e ne controlla ogni accesso.
“Enjoy your trip”, un bollo sul passaporto, pochi minuti su un service e Gerusalemme è lì, splendida e contraddittoria, come l’avevi lasciata. Ma guardandosi intorno, sentendone gli odori, ritrovandone il caos rumoroso e vitale, dedicare un pensiero a chi non può fare ritorno è immediato.
Tornare in Palestina dopo 5 anni di assenza significa anche questo. Significa sentirsi immediatamente a casa, come se si fosse partiti solo ieri. Significa ritrovare sorrisi, volti, sapori, profumi e colori. L’aria fresca di Gerusalemme a maggio, quando cala la sera e la grandi palme che circondano le mura della Città vecchia si agitano inquiete. Il caos del suq e i ragazzini che spingono carretti carichi di frutta e verdura; i negozi colorati, i vicoli stretti e tortuosi che si aprono, improvvisamente, lasciando ogni volta senza fiato.
Ma significa anche dover prendere atto che noi visitatori, attivisti, giornalisti o passanti si va e si viene. Mentre le colonie restano e continuano a crescere, la militarizzazione aumenta, la violenza si nasconde dietro i dettagli.
E l’unica cosa ad essere rimasta immutata nel tempo, mentre il tempo passava, è l’Occupazione e il suo devastante apparato, mentre tensione e rassegnazione si mescolano per le strade, dandogli un colore che le parole non possono descrivere.
Bilal e Jihan li incontro sulla spianata delle Moschee. All’entrata, controllata da un check point, soldati israeliani scherzano con turisti che arrivano da tutto il mondo.
Quasi che Gerusalemme fosse un posto normale, una mèta attrattiva nella quale la vita sembra scorrere placida, nascondendo tra vetrine e bancarelle un conflitto latente, invisibile eppure presente, capace di mostrarsi solo ad uno sguardo più attento.
Basta alzarlo, andando oltre il frenetico scorrere di pellegrini e turisti, per trovare piccole bandiere con la stella di David, segno di un piano superiore conquistato, di una mansarda occupata, di una terrazza strappata ai suoi abitanti persino nel cuore di quello che sulle guide è indicato come “quartiere arabo”. E’ qui che Gerusalemme ricorda Hebron, dove è stato occupato anche il cielo.
Proprio da lì è arrivata stamattina questa giovane coppia di sposi, il cui volto si illumina quando la chiamo con il suo nome arabo, al-Khalil. “Ci sono stata, ho visto tutto”, racconto, mentre tra le loro parole di benvenuto si cela il desiderio, profondo, di raccontare ugualmente. Di descrivere un’Occupazione che a casa loro è entrata sin dentro il cuore della città vecchia, nel suq violato da un check point militare, nella scuola che un tempo ospitava bambini e oggi è abitata da coloni integralisti.
Lì, dove i palestinesi sono costretti a chiudersi in gabbia per proteggersi dai rifiuti che vengono lanciati dai piani superiori, occupati e presidiati dai soldati. Lì, dove per le strade di Tel Rumeida anche fare una passeggiata ha il sapore spettrale della violenza.
Bilal e Jihan visitano Gerusalemme per la prima volta. Mi chiedono indicazioni per raggiungere “il luogo sacro ai cristiani”, quel Santo Sepolcro investito dal caos di turisti e monaci che se ne contendono il controllo. Hanno avuto la fortuna di ottenere un permesso speciale per una visita medica nell’ospedale della città: il solo modo, per i palestinesi dei Territori occupati, di avere accesso ai loro di luoghi santi. Aspettano il loro primo bambino, raccontano, mentre mi offrono un po’ di frutta per combattere il caldo.
Come sempre, la cosa più difficile qui non è domandare, ma trovare le risposte. “Come viene raccontata la situazione palestinese in Italia? E la gente? Cosa pensa la gente?”, mi chiedono. E trovare il modo di andare oltre un sorriso, a volte, è davvero complicato.
E’ appena calato il sole sulle mura quando salgo su un piccolo bus collettivo che per l’equivalente di un euro mi porterà a Betlemme. O sarebbe più corretto dire al check point che la separa da Gerusalemme, da attraversare a piedi, passando tra gabbie e tornelli, per poter superare il Muro. O per entrarci dentro, come spiegano gli abitanti da questa parte.
Perché in questa terra smembrata e ferita anche la tua posizione è questione di prospettiva, e al check point è il colore del tuo passaporto a stabilire quanto sarà lunga l’attesa.
Libertà, ad alcune latitudini, è un concetto relativo.
E’ dai tetti del campo di Aida, a pochi passi da Betlemme, che la veduta d’insieme dall’alto chiarisce le cose. Mèta ignorata dai turisti che in gran numero si recano in visita alla Basilica della Natività, pur distando da questa solo pochi passi, il campo creato negli anni Cinquanta ospita oggi diverse migliaia di persone, stipate in quello che ad uno sguardo superficiale potrebbe sembrare soltanto un quartiere come un altro.
A segnarne l’ingresso un’enorme chiave, simbolo di un diritto al ritorno che una leadership corrotta, sostenuta dalla Comunità internazionale, ha ormai dimenticato da tempo.
“Gli Accordi di Oslo hanno segnato la fine di ogni rivendicazione in questo senso”, spiega Yaser, che mi accompagna tra un tetto e l’altro per mostrarmi dall’alto ciò che dai vicoli è impossibile scorgere. Sulla grande chiave, guardando bene, si legge la scritta Not for sale: “Il Muro, l’occupazione, i check point, non sono niente di fronte alla Nakba, la catastrofe che il nostro popolo ha vissuto nel ’48 e di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Ma come i politici sono scesi a patti su quella lo faranno anche sul resto. Quella chiave è lì per ricordargli che per noi il diritto al ritorno non è in vendita”, spiega.
Il Muro dall’alto è un mostro di cemento che taglia in due lo stesso lembo di terra, rendendo una parte e l’altra completamente incomunicabili.
“Ci pensi? Quella terra lì è Gerusalemme”, mi dice Yaser indicando oltre la distesa di torrette e cemento. “E’ solo a due passi, eppure non possiamo andarci. Non è assurdo?”, domanda.
E non c’è proprio modo di trovare una risposta, mentre il sole tramonta su Betlemme, intrappolata dentro una gabbia.
SCINTILLE DI INTIFADA E RESISTENZA
E’ a Betlemme che incontro Mahmoud, Rami e gli altri attivisti del Popular Struggle Coordination Committe (PSCC), che da anni guidano le manifestazioni nei villaggi della Cisgiordania assediati dal Muro.
Che ogni venerdì dal 2005 manifestano a Bil’in e al-Massara, a Kufr al-Qaddum e a Nabi Saleh senza che le notizie, da lì, facciano notizia.
Ogni settimana si può sentire di persone intossicate dai gas lacrimogeni. Di acqua chimica sparata persino contro i bambini che scendono per le strade sterrate dei villaggi con le bandiere solo per ricordare che quella terra gli appartiene. Di attivisti feriti, arrestati, malmenati da un esercito che li combatte come nemici da temere, nonostante contro le loro armi frappongano solo slogan, e mani alzate.
“Questa è la nostra terza Intifada ma la leadership palestinese non lo vuole riconoscere, i media non ne parlano, e noi continuiamo a lottare soli, in silenzio, ogni settimana”, mi racconta Rami, che addosso porta ancora i segni dell’ultimo incidente. Un lacrimogeno l’ha colpito in fronte durante lo sgombero di Ein Hijleh, il villaggio nella Valle del Giordano che era stato simbolicamente occupato dagli attivisti palestinesi nel febbraio 2014, in risposta alla continua colonizzazione dell’unico polmone verde di tutta la Palestina.
Quello in cui l’Occupazione mostra il suo lato più feroce, tra serre e terre coltivate da coloni che mettono sotto chiave persino i pozzi d’acqua.
Una lunga cicatrice è rimasta a ricordargli quel momento, e la paura di perdere la vita, la moglie – che si chiama “Palestina”, ci tiene a sottolineare -, i suoi figli. Che sono piccoli, ma ogni settimana manifestano con lui.
“Qui anche il concetto di infanzia è molto relativo”, spiega con un sorriso che ha un sottofondo amaro.
“In questi anni la nostra lotta è stata depotenziata da molti fattori, tra cui senza dubbio il business della Cooperazione internazionale. Non abbiamo bisogno di farina e riso, ma di sostegno politico”, spiega.
“In passato la nostra leadership ha guidato o incitato alla rivolta. E’ stato così per la prima e anche per la seconda Intifada. Ma oggi i nostri politici sembrano solo interessati a mantenere uno status quo che conviene a tutti. Ecco perché continuiamo a sederci a tavoli di negoziati che non serviranno a nulla, mentre le colonie si mangiano la nostra terra e i governi israeliani che si succedono si spostano sempre più a destra. Ecco perché l’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah non avverrà mai: nessuno dei due ha interesse a cambiare le cose. Vogliono il controllo di quel poco che gli resta: e intanto noi difendiamo ciò che resta dei nostri villaggi”, mi spiega, mentre con sguardo triste pensa alle generazioni più giovani.
“Le abbiamo perdute, non siamo più capaci di mobilitarle. Dobbiamo capire come portare avanti questa lotta senza il sostegno della classe dirigente, di cui più nessuno ha fiducia. Dobbiamo capire che siamo in grado di guidare questa rivolta. E’ come quando devi cantare: se sono altri ad imporre il ritmo la melodia sarà stonata, e la gente non riuscirà a cantare insieme a te”.
Resistenza, qui, sono le persone che ogni venerdì da anni scendono in marcia nei villaggi per rivendicare il diritto ad abitare la propria terra. Resistenza è restare a viverci mentre le colonie, tutto intorno, la tua terra se la mangiano.
Come fa Abu Diah, capofamiglia di quel che resta di un piccolo villaggio su cui incombono le case di di Gush Etzion, tra gli insediamenti illegali più ampi della Cisgiordania, che continua ad espandersi nel silenzio impunito delle sue violazioni. Due case, un cortile, un campo di ulivi, qualche albero di vite, un trattore per arare la terra: è questo ciò che rimane per continuare a vivere e mantenere la famiglia.
“Questa è la mia casa, dove altro potrei andare?”, racconta. “E gli ulivi? Chi si prenderebbe cura degli ulivi se me ne andassi?”, mi chiede.
E’ un legame con la terra, questo, che è difficile da spiegare. E che è ancora più difficile comprendere per chi da una terra non è stato separato con la forza.
E’ quello che ricorre nelle poesie, negli scritti, nei romanzi e nelle canzoni. Che ritorna nei gesti semplici della quotidianità, quando anche i più giovani colgono un frutto e te lo porgono, raccontandoti una storia che riporta lontano. A quella catastrofe mai dimenticata, ancora presente nel comune sentire, ferita aperta e tramandata di generazione in generazione, a volte capace di produrre scintille di resistenza.
O di resilienza. Che, in fisica, è la capacità di un corpo di tornare alla sua forma originale dopo essere stato sottoposto ad una pressione esterna.
Come la terra su cui Mazen e suo figlio Bashar hanno costruito Hosh Jasmin, il “nido dei gelsomini", che scopro per caso in una serata di maggio in cui l’aria è fresca e il cielo incredibilmente pulito. Una luna quasi piena illumina una vallata priva di luci artificiali, in fondo alla quale si intravedono quelle di Gerusalemme. “Noi da qui la possiamo solo guardare. Possiamo solo respirarne l’odore” racconta Lema, mentre mi accompagna a scoprire questo angolo di resilienza.
"Quando mio padre ha deciso di fare ritorno in Palestina dopo anni passati all’estero a scrivere e lottare per il suo popolo, lo ha fatto per non ripetere la storia di mio nonno. Siamo originari di un villaggio vicino a Jaffa: durante la catastrofe del ’48 la mia famiglia fuggì, lasciando alle forze sioniste la casa, la terra, gli alberi. Non voleva che questa storia si ripetesse ancora”, spiega Bashar, che a 26 anni ha abbandonato una carriera da dj musicale in una delle radio più popolari di Ramallah per tornare in campagna e coltivare la terra.
Insieme a tanti volontari ha costruito un ristorante, alcune case fra gli alberi, una piccola fattoria per gli animali, riportando alla vita una valle “famosa per la sua acqua: l’unica cosa che non ci è mai mancata. Per questo la chiamiamo Ghorghol: è il nome del rumore dei ruscelli”.
E’ su questa valle che si affaccia Hosh Jasmin, un luogo oggi diventato centro di aggregazione per tanti giovani, che sulle colline di Beit Jala si rifugiano in cerca di un po’ di quiete, una birra da bere liberamente fumando un harghile. Il cibo che il ristorante offre è biologico, frutta e verdura sono acquistate dai contadini dei villaggi vicini.
A pochi passi il “check point 16”, uno dei principali di questa porzione di Area C, completamente occupata dalle forze israeliane.
“Vedi quelle luci? E’ il villaggio di Battir. Un esempio di resistenza: è stato inserito nella lista dei siti patrimonio dell’Unesco per il suo sistema antico e unico di irrigazione dei terreni, risalente all’epoca romana e ancora oggi in uso”, spiega Bashar. Anche questo piccolo villaggio, insieme a Walaje, Umm Salamuna, Al-Numan, Khader e molti altri resiste ogni giorno soltanto sopravvivendo.
Accanto alla sue terre corre la superstrada n. 60, che collega le colonie israeliane del lato est di Gerusalemme a quelle di Al-Khalil; sotto, un tunnel ha confiscato altra terra, costringendo oltre 20mila palestinesi a passare per il solo check point 16 per potersi muovere. In molti casi gli abitanti, la cui unica fonte di sussistenza è l’agricoltura, sono stati separati definitivamente dalle proprie coltivazioni: anche per accedervi devono chiedere un permesso agli occupanti.
Qui, in questa valle, come in molte altre zone di questa terra occupata, resistere può voler dire anche solo ostinarsi ad esistere.
“Con la nostra fattoria, così come con la resistenza dei villaggi, vogliamo dare un messaggio al nostro popolo. Dirgli che continuare a vivere qui è ancora possibile. Perché le nostre radici sono qui, e questo davvero niente e nessuno potrà mai togliercelo”, racconta Bashar, mentre il suo sguardo si perde verso le luci di Gerusalemme.
Sono moltissime le persone che si possono incontrare in una manciata di giorni in questa terra magica e bellissima. Dietro ognuna di loro c’è una storia che varrebbe la pena di raccontare.Che meriterebbe di essere ascoltata, per la quale sarebbe necessario trovare le parole.
Eppure, tutto questo mondo scompare tra le pieghe di una cronaca che sembra sempre uguale, scandita dall’oppressione, ritmata dalla violenza. Storie che tanti non hanno voglia di ascoltare, schiacciate sotto il peso di una narrazione dominante, che inverte le carte e fa dell’oppressore l’oppresso.
Perché violenza può essere un check point che si apre a discrezione di un soldato, costruito su una terra che ti appartiene ed è stata occupata; può essere un Muro che da quella terra ti separa, o una strada a cui solo alcuni hanno accesso.
Violenza possono essere le quotidiane umiliazioni, aggressioni, oppressioni, violazioni di diritti e libertà. Oppure, violenza può essere una pietra lanciata da un ragazzo contro un carro armato che sta invadendo il suo villaggio. Basta solo scegliere la definizione più semplice, e non voler guardare oltre.
Nel lungo viaggio che mi separa dal ponte di Allenby e da questo ritorno, attraverso un deserto che conduce fino a Jerico. E mentre invento le tappe di un viaggio turistico mai realizzato da raccontare al soldato, per assicurargli che no, non ho visto la Palestina ne' conosciuto palestinesi, ripenso alle parole di Mahmoud.
“Sai cosa? La Palestina è sempre una brutta notizia", mi aveva detto al mio arrivo. "Ma potremmo provare a riscriverla insieme, questa storia”.
di:
Cecilia Dalla Negra dai Territori Palestinesi Occupati
Area Geografica:
La Stampa
08 07 2015
È passato un anno dall’inizio dell’ultimo conflitto a Gaza, i due mesi di violentissimi scontri seguiti al lancio dell’operazione israeliana “Protective Edge” terminati con oltre 2.000 vittime (di cui 1.600 civili) e più di 11.000 feriti. Molte cose sono accadute nella Striscia, dove Hamas sta cercando di uscire dall’isolamento da un lato riallacciando complicati contatti con Israele che alleggeriscano il blocco economico (mal digeriti da Ramallah) e dall’altro sfidando la minaccia islamista dentro casa. Molte cose sono accadute anche nella regione, con l’Egitto del presidente Sisi alla guerra contro gli jihadisti del Sinai, le milizie del Califfato fattesi minacciose nel Golan ormai strappato ai governativi di Assad, l’avvicinamento tattico tra Israele e Golfo (Arabia Saudita) in preoccupatissima funzione anti Iran. Molte cose sono accadute ma la vita di Gaza è rimasta alle macerie dell’estate scorsa.
L’ultimo rapporto di Oxfam lancia l’SOS per una crisi dimenticata e per i suoi giovani senza futuro (o magari, anzi magarissimo, con un futuro nel radicalismo). “La generazione perduta” passata al setaccio da Oxfam langue in una terra dove la disoccupazione tra gli under 24 anni è schizzata al 67,9%, il 40% dei laureati vegeta senza alcun impiego, 300 mila ragazzi sono bisognosi di assistenza psicologica (oltre alla guerra, l’ennesima nel ciclo che si ripete biennalmente, hanno alle spalle 8 anni di blocco economico e della circolazione), l’80% della popolazione è dipendente dagli aiuti internazionali.
Secondo le stime, al ritmo attuale e con il blocco in vigore, ci vorranno più di settant’anni per ricostruire tutte le abitazioni distrutte un anno fa. Alcuni edifici sono stati danneggiati ma nessuna delle oltre 19 mila case abbattute dai bombardamenti è stata rimessa in piedi così come in macerie restano 20 scuole, ospedali, cliniche. Nelle settimane scorse, quando si è parlato di negoziati dietro le quinte tra Hamas e Israele, si è intravisto un allentamento del blocco, ma la strada è parecchio in salita considerando che, a detta della Banca Mondiale, il PIL di Gaza è crollato di 3,9 miliardi di dollari e che l’economia fa i conti con un settore edile ridimensionato (il mercato delle costruzioni è sceso di oltre il 50%), la produzione agricola diminuita del 31% solo nell’ultimo anno, lo stipendio (per chi ce l’ha) sceso del 15%.
Il quadro è fosco. E, sullo sfondo, il fragile cessate il fuoco (che per ora tiene) viene continuamente sfidato (nell’ultimo anno si sono contati sei razzi palestinesi lanciati verso Israele, oltre a circa 170 lanci di prova, 700 incidenti di fuoco israeliano verso Gaza e parecchi segnali allarmanti). I giovani di Gaza guardano come tutti l’orizzonte ma nella migliore delle ipotesi ci vedono.
«La vita è bella qui, non riesco a credere che solo un anno fa ero nel mezzo della guerra, mi diverto, la vita è molto cara ma vivo» racconta da New York la ventenne palestinese Mariam. Ha lascito Gaza sei mesi fa ed ha ottenuto lo status di rifugiato. Si è lasciata alle spalle gli amici, la casa in cui sognava di scappare, i suoi primi vent’anni. Non si volta indietro perché, dice, dietro è rimasto tutto come ieri.
Nena News
07 07 2015
di Rosa Schiano
Roma, 7 luglio 2015, Nena News – Durante l’offensiva israeliana della scorsa estate, denominata Margine Protettivo, almeno 12.620 abitazioni furono completamente distrutte e 6.455 furono gravemente danneggiate, causando lo sfollamento di 17.670 famiglie, ovvero circa 100.000 persone, si legge in un rapporto pubblicato lunedì dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) . All’apice del conflitto, circa 485.000 persone – il 28% della popolazione – erano sfollate, incluso quasi 300.000 in 90 rifugi di emergenza UNRWA. A partire dal cessate il fuoco del 26 agosto 2014, gli sfollati ospitati nei centri della UNRWA si sono trasferiti gradualmente in strutture alternative, con gli ultimi centri chiusi nel giugno 2015.
A distanza di quasi un anno dall’inizio delle ostilità, non una singola abitazione tra quelle totalmente distrutte è stata ricostruita a Gaza; ci si aspetta che primi passi sul campo siano fatti nella seconda metà del 2015, afferma il rapporto. Donatori hanno recentemente pagato un totale di 125 millioni di dollari per la ricostruzione di circa il 20% delle abitazioni completamente distrutte (secondo Shelter Cluster, Maggio 2015). Altre 150.000 abitazioni hanno subito vari gradi di danni ma restano abitabili; il rapporto riferisce che parte delle famiglie colpite hanno acquistato materiale da costruzione sotto il Meccanismo di Ricostruzione di Gaza (GRM), implementato al fine di facilitare le importazioni che subiscono restrizioni a causa del blocco israeliano. Tuttavia, meno dell’ 1% dei materiali da costruzione necessari per ricostruire e riparare le case distrutte e danneggiate durante il 2014 e le precedenti ostilità sono entrati a Gaza (Shelter Cluster, Giugno 2015). Solo parte delle famiglie sfollate hanno ricevuto una somma di circa 200-250 dollari al mese per un periodo di 4-6 mesi, e un sovvenzionamento di 500 dollari per la sostituzione degli utensili per la casa.
Le condizioni di vita degli sfollati palestinesi, attualmente ospitati in famiglie, o in appartamenti in affitto, unità abitative prefabbricate, tende e rifugi fatti a mano, o nelle macerie delle proprie abitazioni, destano preoccupazione per diverse ragioni, fra cui l’accesso limitato ai servizi essenziali, la mancanza di privacy, le tensioni interne, i rischi dovuti a ordigni inesplosi, l’esposizione a temperature estreme. In questa situazione maggiormente vulnerabili sono bambini, donne, persone con disabilità, anziani, e coloro che soffrono di malattie croniche.
La mancata ricostruzione non fa quindi che protrarre la sofferenza degli sfollati. Il rapporto ne attribuisce le responsabilità all’incapacità del governo palestinese di unità nazionale di svolgere le proprie funzioni nella Striscia a causa delle continue divisioni, alle continue restrizioni israeliane sull’importazione di materiale da costruzione definiti “beni a doppio uso”, e agli Stati che pagano a rilento le somme promesse per la ricostruzione. Il rapporto afferma che se questa fosse realizzata in un periodo di tempo ragionevole, si potrebbe altresì evitare una nuova spirale di violenza, unitamente a un necessario sollevamento delle restrizioni sulle importazioni dei materiali da costruzione, oltre che a una tempestiva mobilitazione di risorse da parte della comunità internazionale.
Al rapporto si è aggiunto un appello pubblicato oggi e diffuso attraverso un comunicato stampa in cui Robert Piper, Coordinatore umanitario per i Territori Palestinesi chiede una accelerazione nel processo di ricostruzione, richiesta esplicitamente rivolta a quei paesi che si erano impegnati nella conferenza dei donatori tenutasi lo scorso ottobre al Cairo.
Le promesse di ottobre sono infatti pressoché rimaste promesse. Mercoledi sarà un anno dall’inizio dell’offensiva. Molti a Gaza dicono di aver perso ogni speranza. Ci sono giovani che vorrebbero completare il proprio percorso di studi interrotto per poter aiutare le proprie famiglie e trovare un lavoro dignitoso. Tuttavia, la maggior parte di essi ritiene che l’unica possibilità che hanno per costruire un proprio futuro è emigrare. Una scelta che farebbero in tanti, se i valichi fossero aperti.
Le macerie accompagnano il comune senso di disperazione e impotenza di una popolazione che da troppi anni soffre incessanti restrizioni, povertà e il più alto tasso di disoccupazione al mondo.
Frontiere news
30 06 2015
Marianne, Rachel, Vittorio, Juliano. Queste le quattro barche componenti la terza flottiglia umanitaria partita dall’Europa verso il porto di Gaza. Il premier israeliano Netanyahu ha più volte etichettato la missione come “uno sfoggio di ipocrisia che giova solo ad Hamas” evitando accuratamente di menzionare il grande sostegno che parte della società israeliana ha mostrato in vari modi verso la spedizione.
“Noi, associazioni palestinesi, ebraiche e attivisti israeliani, siamo contro la politica israeliana che continua a violare i diritti umani, una politica che cerca di mantenere il controllo sull’assedio che sta strangolando la popolazione palestinese. L’assedio mina lo sviluppo e l’indipendenza economica e mantiene Gaza sotto occupazione, dipendente da Israele per la maggior parte dei bisogni umani basilari. Sosteniamo la lotta per porre fine all’occupazione dei territori palestinesi e della Striscia di Gaza assediata”, si legge in una lettera congiunta di associazioni palestinesi ed israeliane. È una presa di posizione molto coraggiosa in un paese dove la narrazione dominante tratta i non allineati come antisemiti o, se ebrei, come traditori della nazione.
“Siamo preoccupati per la condizione umanitaria nella Striscia di Gaza, sottoposta a rigido assedio dal 2007″, continua la lettera di supporto alla spedizione. “A Gaza, più del 70% della popolazione dipende da aiuti umanitari; alla vigilia di “Margine Protettivo” l’attacco militare a Gaza, il 57% della popolazione soffriva di insicurezza alimentare; il tasso di disoccupazione era del 42.8% nell’ultimo quarto del 2014 (rispetto al 18.7% nel 2000); 27 scuole statali a Gaza sono state gravemente danneggiate o distrutte durante il bombardamento della scorsa estate; prima dell’operazione militare la Striscia era già a corto di 200 scuole, tra cui 150 statali; le classi normalmente fanno i doppi turni; Israele non consente la costruzione di un porto a Gaza e pone restrizioni severe ai pescherecci. Più di 100.000 abitazioni sono state danneggiate durante le ultime ostilità, tra cui 17.000 con danni gravi o distrutte: circa 562 industrie e laboratori sono stati danneggiati o distrutti durante le ostilità”.
Anche l’ex membro del Knesset Uri Avnery, di Gush Shalom (il gruppo israeliano per la Pace), ha lanciato (invano) al Primo Ministro Netanyahu ed al Ministro della Difesa Ya’alon un appello ad una pacata riflessione dell’ultimo momento, per consentire a quella che è stata definita la flottiglia svedese di raggiungere il porto di Gaza. “Quattro piccole imbarcazioni cariche di attrezzature mediche e pannelli solari per la generazione di corrente elettrica non costituiscono la benché minima minaccia alla sicurezza di Israele. L’arrivo a Gaza delle barche con il loro carico umanitario sarebbe un piccolo gesto di buona volontà da parte dello Stato di Israele. Al contrario, l’invio di commando armati per impadronirsi delle imbarcazioni in mare rappresenterebbe solo un mero ulteriore atto di forza bruta che rafforzerebbe ancora di più l’immagine di Israele quale violento ed aggressivo Golia – un’immagine che è il principale motivo dell’incremento degli atti di boicottaggio contro Israele in tutto il mondo”.
Avnery ricorda che lo Stato d’Israele permise l’approdo di navi con aiuti umanitari a Gaza in almeno quattro passate occasioni. Questo avveniva prima della decisione di adottare la politica della forza bruta, una linea che causò lo spargimento di sangue della disastrosa vicenda “Mavi Marmara”. Ad esempio, nel Novembre 2008 il Governo israeliano consentì a due imbarcazioni che trasportavano 44 attivisti di 17 paesi di attraccare nel porto di Gaza. All’epoca, il Ministero degli Affari Esteri israeliano rilasciò una dichiarazione che recitava: “Permetteremo a questi cacciatori di visibilità di entrare a Gaza, negando così il successo alle loro provocatorie pubbliche relazioni”. Alla marina militare israeliana fu quindi ordinato di sorvegliare le barche senza però interferire con la loro navigazione ed approdo a Gaza – e così fu. “Si può ritrovare il testo del comunicato del 2008 nei computer del Ministero degli Affari Esteri, per rilasciarlo nuovamente oggi parola per parola” ha suggerito Avnery.
“Al di là della questione specifica di questa flottiglia, è ormai tempo di aprire il porto di Gaza e liberare l’economia della Striscia di Gaza da uno strangolamento che conduce i suoi residenti alla disoccupazione e ad una terribile povertà, terreni di coltura per l’odio e l’estremismo. È risaputo che soggetti internazionali hanno la volontà di trattare un accordo per la supervisione internazionale sul Porto di Gaza, e che la leadership di Hamas desidera raggiungere tale accordo” aggiunge Avnery.
Dopo il generale israeliano in pensione e il parlamentare della Knesset a bordo della “Marianne”, anche l’associazione pacifista israeliana Gush Shalom, cui se ne sono aggiunte in giornata altre sei, ha chiesto (invano, perché le operazioni militari israeliane sono già iniziate) al proprio governo di non attaccare militarmente le imbarcazioni che compongono la Freedom Flotilla III, di permetterne il libero passaggio, come è loro diritto, per raggiungere Gaza, il porto della Palestina.
La delegazione di 47 persone, di diverse culture e religioni, comprende attivisti per i diritti umani, parlamentari da Israele, Giordania, Spagna e Grecia, una suora, un’europarlamentare, un sassofonista israelo/svedese, il primo presidente della primavera tunisina Marzouki, un agricoltore italiano. Tutte queste persone hanno scelto di comportarsi secondo i principi della non-violenza; diversamente, non sarebbero potute salire a bordo. Dall’altra parte dello specchio acqueo, quasi fosse un ribaltamento del senso delle parole, i profughi della Striscia distrutta, ad attendere da terra, trepidanti, persone in arrivo dal mare che vogliono abbracciarli e dire loro che non si sono dimenticati delle loro esistenze. Le statistiche della Banca Mondiale parlano del più alto tasso di disoccupazione del mondo, da parte dell’ONU la richiesta di togliere il blocco come necessità umanitaria, i pescatori colpiti dal fuoco della marina israeliana solo perché provano a gettare le reti per sopravvivere.
L’equipaggio a bordo delle quattro barche (qui l’elenco completo) comprende molti attivisti ebrei ed israeliani. Tra questi citiamo Dror Feiler, musicista svedese che ha rinunciato alla cittadinanza dello Stato di Israele (dove è nato), in opposizione alle sue politiche coloniali; Bassel Ghattas, arabo-israeliano parlamentare del Knesset; Ohad Hemo, giornalista israeliano di Channel 2; Zohar Chamberlain Regev, attivista israeliana.