Freedom Flotilla: #NextPortGaza

  • Lunedì, 29 Giugno 2015 11:07 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO

Il Manifesto
29 06 2015

C’è la “Marianne di Gote­borg” ma anche le “Vit­to­rio”, “Rachel” e “Juliano II”. Por­tano i nomi di tre atti­vi­sti e intel­let­tuali scol­piti per sem­pre nella memo­ria col­let­tiva dei pale­sti­nesi e di tanti altri nel mondo, tre delle quat­tro navi che com­pon­gono il nuovo con­vo­glio della Free­dom Flo­tilla III, par­tito venerdì notte da Creta e inten­zio­nato, come i pre­ce­denti, a rag­giun­gere la Stri­scia di Gaza, vio­lando il blocco che la Marina mili­tare israe­liana impone su quel pic­colo ter­ri­to­rio pale­sti­nese. Vit­to­rio Arri­goni, Rachel Cor­rie e Juliano Mar-Khamis. Tutti e tre hanno pagato con la vita il soste­gno ai diritti di chi vive in Cisgior­da­nia e Gaza, in due casi per mano di bru­tali assas­sini pale­sti­nesi privi di dignità e tra­di­tori delle aspi­ra­zioni della pro­pria gente. Per­cor­rono la rotta che seguì Vit­to­rio Arri­goni nell’agosto del 2008 durante la prima mis­sione della Free­dom Flo­tilla, le quat­tro imbar­ca­zioni ora in navi­ga­zione nel Medi­ter­ra­neo e che, forse, lunedì giun­ge­ranno davanti alle coste di Gaza.

Le spe­ranze di suc­cesso sono minime. Come è acca­duto dalla fine del 2008 in poi, anche que­sto con­vo­glio della Free­dom Flo­tilla non ha molte pos­si­bi­lità di arri­vare al porto di Gaza city. Israele ha già aller­tato la sue unità da guerra per bloc­care le quat­tro pic­cole navi. Governo Neta­nyahu e gran parte dei par­titi poli­tici guar­dano a que­sta mis­sione come ad una “impresa ter­ro­ri­stica”, in pre­sunto appog­gio al movi­mento isla­mico Hamas al potere a Gaza dal 2007. In un sito d’informazione della destra più estrema, Arutz 7, un “edi­to­ria­li­sta” ha esor­tato ad affon­dare il con­vo­glio. A favore dell’uso della forza si è espresso anche una delle firme più note della destra in giacca e cra­vatta, Dan Mar­ga­lit. Inten­zioni che fanno tre­mare i polsi. È ancora vivo il ricordo dell’arrembaggio in acque inter­na­zio­nali del tra­ghetto turco “Mavi Mar­mara”, nel mag­gio 2010, in quella che è stata la più ampia e tra­gi­ca­mente nota mis­sione della Free­dom Flo­tilla. I com­mando israe­liani scesi sulla nave ad un certo punto fecero fuoco ucci­dendo 10 atti­vi­sti. Per Tel Aviv fu «legit­tima difesa» dalle «aggres­sioni dei pas­seg­geri» e non un atto di pira­te­ria inter­na­zio­nale come in quella occa­sione denun­cia­rono molti nel mondo e non solo i palestinesi.

A segnare indi­ret­ta­mente il destino di que­sta nuova mis­sione per Gaza è stato anche il Segre­ta­rio gene­rale dell’Onu, Ban Ki moon, soste­nendo che non ser­vi­rebbe ad alle­viare le dure con­di­zioni di vita della popo­la­zione pale­sti­nese. Ban in realtà ha scon­fes­sato le fina­lità poli­ti­che della Free­dom Flo­tilla e con esse l’urgenza di met­tere fine al blocco di Gaza, a mag­gior ragione dopo la deva­stante offen­siva israe­liana di un anno fa. In assenza della coper­tura delle Nazioni Unite, un’azione di forza israe­liana è pra­ti­ca­mente certa. Gli orga­niz­za­tori peral­tro hanno denun­ciato un ten­ta­tivo di sabo­tag­gio avve­nuto in Gre­cia a danno della “Juliano”.

I “peri­co­losi ter­ro­ri­sti” che Israele intende fer­mare sono una cin­quan­tina. Tra di essi l’ex pre­si­dente tuni­sino Mon­cef Mar­zouki, che ha gui­dato il suo Paese dal 2011 al 2014, la par­la­men­tare danese Öslem Sara Cekic, la suora bene­det­tina Teresa For­ca­des, la gior­na­li­sta sve­dese Kajsa Ekis Ekman, l’europarlamentare spa­gnola Ana Miranda. C’è anche un atti­vi­sta ita­liano, Clau­dio Tama­gnini, che prima della par­tenza ha spie­gato in video le fina­lità della mis­sione (https://youtu.be/Aq6eVUs2PYU) . Par­te­ci­pano anche reti tele­vi­sive, come Euro­news, Maori Tv (Nuova Zelanda), al Jazeera, al Quds, Chan­nel 2 (Israele) e Rus­sia Today.

A susci­tare irri­ta­zione in Israele è in par­ti­co­lare la pre­senza sulle navi del musi­ci­sta Dror Frei­ler, ebreo con pas­sa­porto israe­liano, e di Basel Ghat­tas, depu­tato pale­sti­nese della Lista Araba Unita alla Knes­set, che una set­ti­mana fa aveva annun­ciato la sua pre­senza nel con­vo­glio per Gaza atti­ran­dosi addosso cri­ti­che e accuse da un po’ tutto il Par­la­mento (nel 2010 una sua com­pa­gna di par­tito, Hanin Zouabi, era a bordo della “Mavi Mar­mara”). Ghat­tas ha difeso la sua deci­sione di pren­dere parte a una ini­zia­tiva con­tro il blocco di Gaza, con un «atto poli­tico legit­timo e non-violento». In una let­tera inviata al pre­mier Neta­nyahu e al mini­stro della difesa Moshe Yaa­lon ha chie­sto che «le forze di sicu­rezza israe­liane stiano lon­tano dalla Flotilla…non vi è alcuna ragione di sicu­rezza che ci impe­di­sca di rag­giun­gere Gaza e di for­nire l’assistenza che por­tiamo con noi». Oltre cento euro­par­la­men­tari inol­tre hanno indi­riz­zato alla “mini­stra degli esteri” della Ue, Fede­rica Moghe­rini, un mes­sag­gio in cui si chiede di appog­giare la Free­dom Flo­tilla e di met­tere fine al blocco di Gaza.

Il “carico peri­co­loso” che Israele vuole bloc­care è com­po­sto da pan­nelli solari per l’ospedale al-Shifa, da equi­pag­gia­mento medico per futuro nuovo ospe­dale al-Wafa, da dise­gni di bam­bini ita­liani per i loro coe­ta­nei pale­sti­nesi; dalla let­tera delle donne sici­liane per le donne della Stri­scia. La “Marianne” sarà donata ai pesca­tori di Gaza.

Israele blocca una nave della Freedom Flotilla

Internazionale
29 06 2015

L’esercito israeliano ha intercettato una nave di attivisti filopalestinesi che cercava di portare aiuti alla Striscia di Gaza via mare, rompendo il blocco navale. La nave è stata scortata verso un porto israeliano, ha confermato l’esercito. “In accordo al diritto internazionale, la marina israeliana ha ripetutamente chiesto alla nave di cambiare rotta”, si legge in un comunicato.

“Dopo il suo rifiuto, la marina ha intercettato la nave in acque internazionali per evitare che violasse il blocco navale imposto alla Striscia di Gaza”.
Un portavoce militare ha confermato che la nave svedese Gothenburg Marianne fa parte della Freedom Flotilla III, un convoglio di quattro navi che trasportano aiuti per Gaza. Tra gli attivisti coinvolti anche il deputato arabo-israeliano Bassel Ghattas e l’ex presidente tunisino Moncef Marzouki.

There is no country called Palestine

  • Mercoledì, 10 Giugno 2015 08:09 ,
  • Pubblicato in Flash news

Lavoro culturale
10 06 2015

Il festival del cinema arabo contemporaneo Yalla Shebab, che si terrà a Lecce dal 12 al 15 giugno, è dedicato al cinema e alla cultura palestinese.


Perché in Italia c’è ancora bisogno di ricordare che la cultura palestinese non solo resiste, ma vive, e ha molto da far vedere al mondo in termini di produzioni filmiche, letterarie e artistiche di altissimo livello.
There is no country called Palestine: è stata più o meno questa la motivazione che ha dato l’Academy Awards nel 2003 nel rifiutare la candidatura agli Oscar di Divine Intervention, film dell’eclettico regista palestinese Elia Suleiman. Qualcosa però dev’essere cambiato se, a qualche anno di distanza, Paradise Now e Omar, entrambi firmati dal palestinese Hany Abu Assad, hanno concorso per l’assegnazione dell’Oscar. Tuttavia rimane ancora evidente come la mancanza di riconoscimento internazionale della Palestina generi un cortocircuito per cui, al di là delle rilevanti e pesanti conseguenze politiche, anche l’immagine culturale ne viene indebolita e offuscata.

La comunità palestinese, dalla fine del protettorato britannico e la nascita dello stato di Israele nel 1948, si è dovuta confrontare con le offensive politiche israeliane che, oltre a praticare l’espropriazione del territorio, hanno anche lavorato in direzione di una negazione, distruzione e cancellazione dell’identità e della memoria palestinese, che ne è rimasta schiacciata, nascosta e marginalizzata. Nel 1969, l’allora primo ministro Golda Meier affermava senza remore che «There were no such things as Palestinians. They did not exist». Al di là del contesto storico in cui questa frase è stata pronunciata, è ancora purtroppo una citazione che continua ad essere simbolica dell’atteggiamento del governo israeliano e di una certa comunità politica internazionale nei confronti dei palestinesi.

Si è detto in passato che i palestinesi non esistevano, ora che non è più questo il terreno di battaglia essi continuano tuttavia a non essere riconosciuti, e se pure qualche istituzione internazionale muove dei passi per accettare e promuovere il loro riconoscimento, continua a non essere chiaro, o forse drammaticamente troppo chiaro, qual è il loro territorio. La geografia dell’occupazione ci parla di una terra, quella della cosiddetta Palestina storica, sempre più erosa, rimpicciolita e balcanizzata, con una popolazione di conseguenza sempre più frammentaria e frammentata, che dal 1948 ad oggi è soggetta ad una dispersione costante, dentro e fuori i confini della regione araba.

Sembra doveroso allora chiedersi ancora una volta: cos’è la Palestina, e dov’è la Palestina? Non solo geograficamente infatti, ma anche politicamente sembra sempre meno identificabile, tesa verso nessuna direzione, imbrigliata in una rete di rapporti di potere che la confinano in una sorta di immobilismo che negli anni non ha causato nulla se non la degenerazione della situazione politica interna. Non solo: al di là dei picchi di attenzione mediatica che purtroppo la Palestina guadagna ad intervalli periodici, tristemente contraddistinti dalla violenza degli attacchi israeliani su Gaza, sui principali media mainstream internazionali le voci della società civile palestinese faticano ad uscir fuori.

Interrompere questo processo di oblio e disinformazione culturale è allora una pratica che ci deve vedere tutti impegnati in quella che potremmo chiamare una “decolonizzazione della storia e della narrazione della Palestina”. Una decolonizzazione che riparta sì da una rilettura della storia, ma soprattutto delle storie dei palestinesi, rimettendo al centro le loro istanze politiche e culturali.

Film come Suspended Time, una raccolta di cortometraggi di nove film-maker e artisti palestinesi che riflettono sulle conseguenze degli Accordi di Oslo del 1993 sulle vite dei palestinesi e il loro dover interagire con spazi sempre più confinati, non solo fisicamente ma anche mentalmente, o esperimenti come il recente The Wanted 18, film di animazione che, attraverso un intelligente e ironico mix con disegni e interviste, ricostruisce la storia, tristemente vera, della caccia dell’esercito israeliano alle 18 mucche del villaggio palestinese di Beit Sahour, la cui produzione autonoma di latte venne dichiarata “minaccia alla sicurezza nazionale di Israele”, testimoniano come, nonostante la stratificata e paradigmatica operazione di isolamento alla quale i palestinesi sono sottoposti, la soggettività palestinese esiste e resiste.

I palestinesi continuano a confrontarsi con l’occupazione coloniale e con l’esperienza dell’esilio in molti modi, ricostruendo società, creando visibilità, mobilitando movimenti globali, ma soprattutto proponendo una narrazione di sé e della propria storia che parte dall’interno, e che attraverso diversi linguaggi e multiple prospettive, prova a ribaltare la condizione di marginalizzazione e subalternità.

Nel 1984 il famoso saggista e intellettuale palestinese Edward W. Said scrisse a proposito della sua comunità che, tra tutti i diritti che le erano stati sottratti, uno estremamente importante era il permission to narrate, il diritto di auto-narrarsi. Questo diritto al racconto, inteso come pratica che è contemporaneamente culturale e politica, si sta trasformando negli ultimi anni e manifestando come una delle missioni più importanti che la comunità sta portando avanti: una forma di resistenza attraverso la cultura, che con il suo potenziale trasformativo cerca di combattere l’oblio storico e di creare allo stesso tempo un nuovo punto di partenza per l’immaginazione di un nuovo futuro e di nuovi scenari creativi, etici e politici.

È in quest’ottica che si inserisce l’idea di dedicare alla Palestina la quarta edizione dello Yalla Shebab Film Festival, il festival italiano dedicato al cinema arabo contemporaneo che si svolgerà a Lecce dal 12 al 15 giugno. Dalla mostra fotografica tratta dal libro di testi e immagini KEEP YOUR EYE ON THE WALL. Palestinian Landscapes, in cui sette fotografi – sei palestinesi e un tedesco – si sono interrogati, e hanno interrogato a loro volta, il muro di separazione israeliano in Cisgiordania, ai lungometraggi e cortometraggi più premiati nei festival cinematografici internazionali, dalla letteratura palestinese senza dimenticare l’attualità, l’edizione “palestinese” di Yalla Shebab intende essere un tributo alla vivacissima produzione culturale made in Palestine. Ma vuole anche far conoscere punti di vista, sguardi e voci, forse poco noti al pubblico italiano, che aiutino a ripensare la Palestina, restituendole l’attenzione e la riflessione che merita e reclama.


Yalla Shebab Film Festival, speciale Palestina//Visioni oltre il muro si svolgerà dal 12 al 15 giugno ai Cineporti di Puglia/Lecce e Manifatture Knos, in via di Vecchia Frigole 36 (Lecce). Tutte le proiezioni e gli eventi sono gratuiti.

Venerdì 5 giugno, ore 18.30
Centro Donna L.I.S.A.
Via Rosina Anselmi, 41 - Roma

Il Manifesto
25 05 2015

Aziz Yia­zji non aveva biso­gno del rap­porto della Banca Mon­diale per cono­scere la con­di­zione eco­no­mica della Stri­scia di Gaza. La vive sulla sua pelle tutti i giorni. Da anni non rie­sce a tro­vare un lavoro che duri, nel migliore dei casi, più di qual­che set­ti­mana. «Sono lau­reato, parlo bene l’inglese, mi intendo abba­stanza di infor­ma­tica ma devo adat­tarmi a fare di tutto, per­chè non c’è lavoro per nes­suno a Gaza», ci rac­conta. Il blocco israe­liano, pro­se­gue Yia­zji, «ha ucciso la nostra eco­no­mia e i bom­bar­da­menti (della scorsa estate,ndr) hanno can­cel­lato molte delle fab­bri­che ed imprese. I nostri con­ta­dini spesso non pos­sono andare alle col­ti­va­zioni per­chè sono vicine al con­fine dove i sol­dati israe­liani spa­rano a vista. E non puoi nep­pure sognare di andare via per­chè Israele ed Egitto non ci per­met­tono di lasciare Gaza». Chi è stato nella Stri­scia sa che que­sto qua­dro dram­ma­tico non è nuovo, esi­ste da anni, ed è stato aggra­vato dall’ultima offen­siva mili­tare israe­liana che ha fatto migliaia di morti e feriti e ridotto in mace­rie decine di migliaia di abi­ta­zioni ed edi­fici civili. Eppure è impor­tante che un orga­ni­smo come Banca Mon­diale abbia denun­ciato, con un rap­porto reso pub­blico a metà set­ti­mana, che a Gaza la vita è impos­si­bile, evi­den­ziando un dato: il blocco israe­liano della Stri­scia, comin­ciato nel 2006 e ina­spi­rito dopo la presa del potere da parte di Hamas nel 2007, e le offen­sive mili­tari del 2008–9, del 2012 e del 2014, hanno reso Gaza la regione del mondo con la disoc­cu­pa­zione più alta.

Senza quelle offen­sive mili­tari e le con­se­guenze del blocco, sot­to­li­nea la Banca Mon­diale, il Pil di Gaza oggi sarebbe più alto di almeno quat­tro volte. Invece l’assedio israe­liano, aggra­vato dalle restri­zioni duris­sime impo­ste dall’Egitto alla fron­tiera di Rafah, ha ridotto il Pil del 50% e la disoc­cu­pa­zione è salita al punto da toc­care il livello più alto del mondo, il 43%. I gio­vani, che for­mano più della metà della popo­la­zione in que­sto faz­zo­letto di terra pale­sti­nese, sono i più pena­liz­zati: alla fine del 2014 il 60% era senza lavoro, il dato più alto del Medio Oriente. Il Pil attuale è solo un paio di punti in più rispetto al 1994, men­tre nello stesso periodo la cre­scita della popo­la­zione è stata ver­ti­gi­nosa. Il rap­porto osserva che quasi l’80% degli abi­tanti di Gaza deve essere assi­stito e che circa il 40% della popo­la­zione vive sotto della soglia di povertà. Inol­tre la mag­gior parte dei quasi 2 milioni di abi­tanti vive con­fi­nata in appena 160 chi­lo­me­tri qua­drati (sui circa 400 kmq della Striscia).

A ciò da un anno si sono aggiunte le immense distru­zioni cau­sate dall’offensiva mili­tare israe­liana “Mar­gine Pro­tet­tivo” e la rico­stru­zione par­tita solo in minima parte. I miliardi di dol­lari pro­messi lo scorso otto­bre dai Paesi dona­tori si sono rive­lati, come pre­vi­sto con largo anti­cipo, sol­tanto delle parole che il vento ha già por­tato via. Israele da qual­che mese descrive con un taglio posi­tivo il suo atteg­gia­mento nei con­fronti dei civili pale­sti­nesi ma in realtà ha con­sen­tito sino ad oggi l’ingresso nella Stri­scia solo di una fra­zione minima dei mate­riali che occor­rono per la rico­stru­zione. All’orizzonte non c’è nulla che fac­cia spe­rare in un cam­bia­mento vero della con­di­zione di Gaza, alla luce anche dell’atteggiamento a dir poco pas­sivo di Stati Uniti ed Europa. Anzi, si intra­vede un nuovo attacco mili­tare israe­liano «per chiu­dere i conti con Hamas», qual­cuno sostiene a cavallo tra 2015 e 2016 se non già la pros­sima estate. Ne par­lano e ne scri­vono gene­rali e uomini poli­tici di Israele lan­ciando l’allarme sull’esistenza pre­sunta di «nuovi tun­nel sot­ter­ra­nei e il riarmo di Hamas», lo temono gli abi­tanti di Gaza. Voci che con­tra­stano con quelle che girano da set­ti­mane su intese sot­ter­ra­nee tra Israele e il movi­mento isla­mico per tenere calma la situazione.

In ogni caso le bombe per una nuova guerra non man­che­ranno a Israele, per l’eventuale attacco a Gaza e anche per una cam­pa­gna con­tro il movi­mento sciita Hez­bol­lah in Libano, altro tema caldo tra gli ana­li­sti mili­tari. Come ave­vano fatto anche durante l’operazione della scorsa estate con­tro Gaza, gli Stati Uniti ven­de­ranno a Israele 8.000 bombe intel­li­genti e 14.500 sistemi di guida, 50 bombe bun­ker busters, 4.100 bombe “pic­cole” (solo 110 kg di esplo­sivo ma ad altis­simo poten­ziale) e 3.000 mis­sili Hell­fire per gli eli­cot­teri Apa­che. Il costo com­ples­sivo è di 1,8 miliardi. Le bombe che si aggiun­gono all’aumento del numero dei bom­bar­dieri stealth F-35 che gli Usa con­se­gne­ranno a Israele. Il Pen­ta­gono ha annun­ciato che que­sta ven­dita riflette l’impegno ame­ri­cano per la sicu­rezza di Israele. In realtà è una delle tante forme di “risar­ci­mento” decise dalla Casa Bianca per per­sua­dere Israele ad accet­tare l’accordo sul pro­gramma nucleare ira­niano che gli Stati Uniti inten­dono rag­giun­gere entro il 30 giugno.

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