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La Repubblica
20 05 2015

La decisione era stata presa per un periodo di tre mesi, ma cancellata da Netanyahu dopo le proteste. I tempi di spostamento dei lavoratori palestinesi povevano allungarsi anche di due ore

Un apartheid durato poche ore, solo annunciato e mai attivato. Il governo israeliano aveva disposto una sorta di apartheid sugli autobus in Cigiordania: i palestinesi non avrebbero più potuto viaggiare sugli stessi autobus usati dagli israeliani. Ma di fronte all'ondata di critiche, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Moshe Ya'alon hanno deciso l'immediato stop al provvedimento.

L'apartheid prevedeva anche che i lavoratori palestinesi sarebbero dovuti tornare in Cisgiordania attraversando gli stessi posti di blocco da cui sono passati all'andata. Le nuove misure rischiavano di allungare anche di due ore, scrive Harretz, i tempi di spostamenti per i lavoratori palestinesi.

La misura era stata pensata a livello sperimentale per tre mesi per poi essere riconsiderata. "Nell'ambito di un progetto pilota di tre mesi, i palestinesi che lavorano in Israele dovranno, a partire da mercoledì, tornare a casa attraverso lo stesso valico senza prendere gli autobus utilizzati dai residenti di Giudea e Samaria", la Cisgiordania occupata, aveva riferito un funzionario che ha chiesto l'anonimato.

Centinaia di palestinesi della Cisgiordania occupata si recano ogni giorno in Israele usando permessi speciali per lavorare, la gran parte nel settore delle costruzioni.

Il ministro della Difesa, Moshe Yaalon, ha spiegato l'iniziativa alla radio pubblica, assicurando che permetterà "un miglior controllo dei palestinesi e ridurrà i rischi". I coloni israeliani in Cisgiordania da anni chiedevano che si proibisse ai palestinesi di usare i trasporti pubblici, adducendo proprio motivi di sicurezza.

Si intensificano le demolizioni di case palestinesi

  • Martedì, 12 Maggio 2015 14:12 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO
Il Manifesto
11 05 2015

Il premier israe­liano costrui­sce e demo­li­sce. Mat­tone su mat­tone edi­fica il suo governo – nelle pros­sime ore pre­sen­terà la lista dei mini­stri e chie­derà la fidu­cia alla Knes­set – e allo stesso tempo non accenna a fer­mare le poli­ti­che di distru­zioni delle case pale­sti­nesi, “ille­gali” per la legge israe­liana. Gli ultimi giorni sono stati dram­ma­tici sotto que­sto aspetto. Susia, Ara­qib, Umm el Hiran, Semi­ra­mis, i nomi dei cen­tri arabi dove sono avve­nute o avver­ranno pre­sto le demo­li­zioni. A Semi­ra­mis, tra Geru­sa­lemme e Ramal­lah, secondo la deci­sione di una corte israe­liana, saranno abbat­tuti otto edi­fici, per­ché sareb­bero stati costruiti su terre appar­te­nenti a israe­liani sin dal 1971. E coloro che vi hanno abi­tato finora, 107 per­sone in 23 appar­ta­menti, dovranno anche pagare un’ammenda di 11 mila euro.

Gli abi­tanti non si arren­dono e ripe­tono che la terra dove sono stati costruiti gli edi­fici è stata acqui­stata 13 anni fa da un gruppo di pale­sti­nesi. Una multa altis­sima, due milioni di she­kel (mezzo milione di dol­lari), dovranno pagare invece le fami­glie beduine di al Ara­qib, a ridosso del deserto del Neghev, col­pe­voli di aver rico­struito il loro vil­lag­gio per 83 volte dopo altret­tante demo­li­zioni ese­guite dalle auto­rità. L’espulsione attende inol­tre le fami­glie di Susya, un vil­lag­gio pove­ris­simo a sud di Hebron: la Corte Suprema israe­liana ha sen­ten­zianto la legit­ti­mità della demo­li­zione delle loro misere abitazioni.

Il caso che più di altri suscita sde­gno tra i pale­sti­nesi è quello di Umm el Hiran, sem­pre nel Neghev, una delle vit­time del Piano Pra­wer che pre­vede il tra­sfe­ri­mento, anche con la forza, di 70 mila beduini con cit­ta­di­nanza israe­liana. Per diverso tempo ave­vano cul­lato qual­che spe­ranza i 700 abi­tanti di que­sto vil­lag­gio mai rico­no­sciuto dalle auto­rità. Poi la scorsa set­ti­mana, con il giu­di­zio di due a favore e uno con­tro, l’Alta Corte di Giu­sti­zia, ha con­va­li­dato gli ordini di sgom­bero con­tro Umm el-Hiran e dato il via libera alle espul­sioni. Una sen­tenza incom­pren­si­bile per­ché gli abi­tanti non erano accu­sati di essere squat­ter e di avere “occu­pato ille­gal­mente” terre pri­vate o dema­niali. Il governo mili­tare israe­liano infatti li aveva tra­sfe­riti lì nel 1956 dopo averli costretti a lasciare Khir­bet Zuba­leh nel 1948. Quindi non c’era nulla di ille­gale nella pre­senza degli abi­tanti del vil­lag­gio che il governo intende por­tare a Hura, per fare posto alla nuova cit­ta­dina ebraica di Hiran. Sarà distrutto anche Atir per per­met­tere l’espansione del bosco di Yatir. In attesa di “suben­trare” ai beduini ci sono decine di fami­glie israe­liane al momento accam­pate in una zona non lon­tana. A loro le auto­rità hanno prov­ve­duto subito a for­nire elet­tri­cità e acqua men­tre agli abi­tanti di Umm el-Hiran que­sti ser­vizi essen­ziali sono stati negati per decenni. A nulla è ser­vito il parere dis­sen­ziente della giu­dice Daphne Barak-Erez che aveva pro­po­sto ai suoi col­le­ghi di sen­ten­ziare il diritto dei beduini a vivere nella nuova città di Hiran. «La sen­tenza – ha com­men­tato con ama­rezza Amjad Iraq, l’avvocato della ong Ada­lah che ha seguito il caso di Umm el Hiran — ha dimo­strato ancora una volta che l’Alta Corte è più inte­res­sata a pro­teg­gere le poli­ti­che e il carat­tere dello “Stato ebraico” di Israele che i prin­cipi della demo­cra­zia e della giustizia».

Il fatto che un vil­lag­gio arabo all’interno di Israele possa essere demo­lito con la stessa faci­lità di uno nei Ter­ri­tori Occu­pati, raf­forza il timore tra i cit­ta­dini pale­sti­nesi d’Israele sulla pos­si­bi­lità di difen­dere i loro diritti col­let­tivi attra­verso il sistema legale. Appena qual­che giorno fa erano scesi in piazza a Tel Aviv almeno due­mila pale­sti­nesi d’Israele, per pro­te­stare con­tro la demo­li­zione delle case “ille­gali” (circa 50 mila) nei vil­laggi a mag­gio­ranza araba in Israele e per la sem­pre minore dispo­ni­bi­lità di alloggi per la mino­ranza araba. Ada­lah denun­cia la scar­sità di inve­sti­menti edi­lizi nelle zone arabe di Israele, solo il 4,6 per cento delle nuove abi­ta­zioni. Nel 2014 nelle comu­nità ebrai­che sono stati costruiti 38.261 alloggi con­tro i 1.844 rea­liz­zati in quelle palestinesi.

Non vanno certo meglio le cose nei Ter­ri­tori occu­pati. Nel 2014, secondo i dati di Ocha, l’ufficio di coor­di­na­mento dell’Onu degli affari uma­ni­tari, quasi 1.200 pale­sti­nesi hanno visto demo­lite le pro­prie case da parte dei bull­do­zer: 969 in Cisgior­da­nia e di 208 a Geru­sa­lemme Est. E nel frat­tempo sono state appro­vate le costru­zioni di altre 900 case nella colo­nia ebraica di Ramat Shlomo, nella zona araba occu­pata della città santa.

Michele Giorgio

 

In 6.500 nelle galere israeliane

Salvador DalìIn 48 anni di occupazione di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est e Golan, Israele ha chiuso dietro le sbarre delle sue prigioni 850mila palestinesi. Un numero esorbitante di prigionieri politici dal 1967 ad oggi, che non tiene conto degli arresti compiuti dal 1948, anno di creazione dello Stato di Israele e della Nakba (catastrofe) palestinese. Nel 1974 l'Olp dichiarò il 17 aprile Giornata dei Prigionieri Palestinesi. Lunedì il Comitato dei Detenuti Palestinesi ha presentato i numeri della repressione: degli 850mila prigionieri dal '67 all'aprile 2015, 15mila sono donne e decine di migliaia bambini. 
Chiara Cruciati, Il Manifesto ...

Così i coloni sfruttano i bambini palestinesi

  • Giovedì, 16 Aprile 2015 08:29 ,
  • Pubblicato in Flash news
Il Manifesto
16 04 2015

Uno degli aspetti meno dibattuti dell'occupazione israeliana della Cisgiordania è lo sfruttamento della manodopera palestinese, soprattutto minorile.

Un rapporto intitolato "Maturi per l'abuso: il lavoro minorile palestinese negli insediamenti agricoli israeliani in Cisgiordania", pubblicato dalla ong Human Rights Watch (Hrw), rivela che le colonie, principalmente quelle della Valle del Giordano, impiegano bambini palestinesi anche di 11 anni (violando la legge internazionale che stabilisce come età minima 15 anni) pagandoli poco e in condizioni di lavoro definite "pericolose".

Negli insediamenti israeliani i bambini palestinesi lavorerebbero a temperature altissime trasportando carichi pesanti e sarebbero esposti agli effetti dannosi dei pesticidi. ...

Huffingtonpost.it
15 04 2015

Ora che i riflettori si sono spenti, che altri orrori hanno conquistato le prime pagine, è il tempo giusto per raccontare di una tragedia che può sfociare in un’altra guerra. La quarta guerra di Gaza. Nulla è stato fatto. Gaza sta morendo. La comunità internazionale deve urgentemente cambiare il proprio orientamento e mantenere le promesse fatte all’indomani del cessate il fuoco che ha messo fine all’operazione Protective Edge. È questo l’appello lanciato da 46 agenzie umanitarie, tra le quali Oxfam, attraverso il rapporto Tracciare una nuova rotta: come superare lo stallo a Gaza.

Quel rapporto è un potente, documentato, j’accuse rivolto a chi si era assunto degli impegni e non li ha mantenuti. Lo scenario a Gaza resta drammatico, denunciano le 46 organizzazioni umanitarie. A sei mesi di distanza dalla Conferenza dei paesi donatori sulla ricostruzione nella Striscia, gli impegni assunti per lo stanziamento di 3,5 miliardi di dollari sono lontani dall’essere mantenuti: le condizioni di vita di moltissimi abitanti continuano a peggiorare, mentre ancora nessuna delle 19.000 case distrutte durante la guerra è stata ricostruita; 100.000 persone sono senza un tetto e molte altre famiglie vivono in scuole o ricoveri di fortuna.

Il rapporto denuncia come inevitabile la ripresa del conflitto, e con essa l’immancabile alternanza distruzione/ricostruzione finanziata dai donatori, se la comunità internazionale non affronterà le cause che lo determinano. I Paesi donatori devono esercitare una decisa pressione politica, onde ottenere tanto un cessate il fuoco permanente, quanto un’assunzione di responsabilità di tutte le parti, verso le continue violazioni del diritto internazionale.


Si deve arrivare al più presto alla fine del blocco imposto da Israele, che isola 1,8 milioni di palestinesi a Gaza, tenendoli separati dalla Cisgiordania, mentre la maggior parte dei Paesi donatori non lo contrasta, scegliendo piuttosto di aggirarlo. “Le promesse fatte durante la Conferenza dei donatori si sono rivelate parole vuote – afferma Winnie Byanyima, direttore generale di Oxfam International – Mentre la ricostruzione stenta a ripartire, non è ancora stato raggiunto nessun accordo per un cessate il fuoco a lungo termine e non vi è ancora un vero piano per la revoca del blocco su Gaza. Nonostante la comunità internazionale abbia definito imperativo un cambio di rotta, mantenendo lo status quo, non sta di fatto facendo nulla per evitare il riaccendersi del conflitto. Il rischio è che diventi nuovamente osservatore impotente di fronte allo scoppio di un nuovo conflitto che invece potrebbe essere evitato”.

“Dobbiamo garantire che il devastante conflitto della scorsa estate sia anche l’ultimo – spiega William Bell di Christian Aid – Ma non sarà possibile se non vengono sanzionate le continue violazioni che si stanno verificando. Permettendo questo stato di impunità, la comunità internazionale si troverà ben presto a raccogliere i cocci di una situazione in via di rottura”.

Ad oggi è stato stanziato solo il 26,8% dei fondi che i Paesi donatori si sono impegnati a fornire sei mesi fa, mentre nemmeno i lavori di ricostruzione già finanziati sono ancora iniziati a causa delle restrizioni imposte dal blocco israeliano, che impedisce l’ingresso ai materiali essenziali per la ricostruzione della Striscia. Mancano i fondi per la riparazione di più di 81 strutture mediche e ospedali danneggiati, e le poche strutture per le quali sono stati reperiti i fondi non hanno i materiali da costruzione necessari.

“Il mondo sta chiudendo occhi e orecchie davanti alla drammatica situazione in cui si trova la popolazione a Gaza, proprio nel momento di maggior bisogno - rileva Tony Laurance, amministratore delegato di MAP UK - La ricostruzione non può avvenire senza lo stanziamento di fondi, ma i soldi non sono sufficienti. Finché resterà operativo il blocco su Gaza far uscire gli abitanti da una vita di miseria, povertà e disperazione sarà impossibile”.

L’entrata in vigore del cessate il fuoco temporaneo non è infatti servita ad evitare che altri attacchi negli ultimi mesi colpissero i civili: si sono verificati più di 400 incidenti di fuoco israeliano a Gaza e quattro missili sono stati sparati da Gaza verso Israele. “Con questo nuovo rapporto lanciamo un appello affinché tutte le parti riprendano immediatamente i negoziati per un cessate il fuoco permanente. Chiediamo che Israele ponga fine al blocco e alla politica di separazione di Gaza dalla Cisgiordania, e chiediamo la riconciliazione dei diversi soggetti politici palestinesi. Tutto questo per dare priorità alla ricostruzione – sottolinea Riccardo Sansone, responsabile emergenze umanitarie di Oxfam Italia - L’Egitto deve al più presto riaprire il confine con Gaza rendendo possibile l’ingresso nella Striscia degli aiuti umanitari. Chiediamo infine che anche l’Italia giochi la sua parte attivandosi con la massima urgenza presso le parti in conflitto e la comunità internazionale e facendo in modo che tali richieste trovino presto attuazione”.

A subire le conseguenze più devastanti di questo stallo sono i più indifesi: i bambini. “La nuova generazione di Gaza è traumatizzata, scioccata, brutalizzata - sottolinea Chris Gunness portavoce dell’Unrwa - Gli spazi dove giocano sono costellati da 8.000 ordigni inesplosi. Le Nazioni Unite stimano che circa 540 bambini sono stati uccisi durante il conflitto, molti nelle loro case. Unrwa non ha potuto dare un riparo sicuro a queste persone. Le nostre scuole sono state colpite direttamente in sette occasioni. I bambini sono morti nelle classi, e nei campi gioco sotto la bandiera blu dell'Onu. Praticamente tutti i bambini di Gaza contano un famigliare o un amico, ucciso, menomato o ferito durante il conflitto, spesso davanti ai loro occhi. Mille dei 3.000 bambini feriti durante il conflitto rimarranno disabili per il resto della vita”.

Dietro i numeri vi sono volti, storie, vite spezzate in tenera età. Ma questa solidarietà dal basso non può bastare. A ribadirlo è Robert Turner, direttore Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) delle operazioni a Gaza. Turner svela che la ricostruzione delle case danneggiate nell’intera Striscia di Gaza assediata da Israele è fuori il controllo dell’Unrwa, sottolineando che l’agenzia ha sospeso l’assistenza economica a migliaia di palestinesi a causa della mancanza di fondi, e continua a chiedere ai donatori di rispettare gli impegni per la ricostruzione di Gaza sottoscritti nell’ultima conferenza del Cairo.

“Non dobbiamo rendere la gente di Gaza un ostaggio a causa dell’attuale situazione politica che Israele sta ben sfruttando”, ha rimarcato Turner. Ma così è. Recentemente, i donatori sono riusciti ad ottenere un piccolo aumento nel flusso di materiali da costruzione in ingresso a Gaza, ma non sufficiente a rispondere ai bisogni della popolazione. Il rapporto non denuncia solo una situazione intollerabile, indicando responsabilità, silenzi, impegni disattesi, ma avanza anche proposte concrete, fattibili, alla comunità internazionale, necessarie a spezzare la spirale della violenza e distruzione in corso. Una “Road Map” della speranza. E di una solidarietà fattiva.

Queste le raccomandazioni: procedere immediatamente con la ricostruzione, erogando i fondi promessi e favorendo l’ingresso del materiale edile in accordo con il diritto internazionale; assicurarsi che ci sia assunzione di responsabilità di tutte le parti per violazioni del diritto internazionale, inclusi gli obblighi previsti nel Trattato sul Commercio delle Armi (TCA) relativamente all’uso di armi usate contro i civili in maniera indiscriminata e la richiesta di compensazione per la demolizione di progetti finanziati da donatori; mettere fine al blocco e riabilitare l’economia devastata di Gaza.

Il blocco israeliano ha determinato nella Striscia una situazione di totale dipendenza: l’80% della popolazione riceve aiuti internazionali e il 63% dei giovani non ha lavoro. Il volume delle esportazioni da Gaza è meno del 2% del livello registrato prima del blocco: il movimento di persone e beni tra Gaza e la Cisgiordania è di fatto inesistente.

Sostenere lo sviluppo di un governo palestinese unito. Nella fase di ricostruzione la leadership palestinese è apparsa a volte inefficace, non coordinata e ulteriormente ostacolata dalle restrizioni israeliane al libero movimento per i rappresentanti del governo. La separazione di Gaza dalla Cisgiordania ha aggravato la già problematica divisione tra Fatah e Hamas, con un enorme impatto negativo sulla fornitura di aiuti e servizi a Gaza.

Ma Gaza non è solo una prigione a cielo aperto, isolata dal mondo. Gaza è anche voglia di vivere, di sognare una vita normale. Tra le macerie la vita continua: si lavora, si gioca, si va al mare. Un piccolo gruppo di uomini, ragazzi e ragazze trovano una fuga temporanea facendo surf nella striscia di terra che cinge il mare. La voglia di normalità è anche il Gaza Surf Club. Si balla sotto i portici di case sgretolate e in salotti a cielo aperto liberati ormai dalla paura di crollare definitivamente.

Guardare al futuro è anche realizzare impianti d’avanguardia, qual è l’ ospedale 100% solare costruito a Gaza. Il Jenin Charitable Hospital, che riceve energia grazie a un impianto fotovoltaico sul tetto della struttura ed è operativo dal novembre scorso, è stato progettato e realizzato dall'Ong Sunshine4Palestine (S4P). L'impianto consente al nosocomio di essere autonomo, dal punto di vista energetico, per 17 ore al giorno e di servire un bacino di 200mila persone, quelle del quartiere di Shijajia, uno dei più poveri e martoriati dagli attacchi di luglio e agosto 2014.

La vita è anche arte. Alcune delle macerie di Gaza hanno preso vita grazie all'incursione in incognito del noto writer britannico Bansky. L'artista ha dipinto quattro nuovi murales e girato un video che ironicamente s'intitola “Scopri una nuova destinazione quest’anno” in cui ha documentato la situazione di Gaza dopo l'ultima offensiva israeliana della scorsa estate. Il primo graffito, ispirato a «Il pensatore» di Auguste Rodin, è stato realizzato sui resti di un muro e si intitola “Bomb damage”, in un altro si vedono dei bambini su una giostra e nel terzo una gatta con un vistoso fiocco roso al collo che «dice al mondo che si sta perdendo tutto il bello della vita». Infine una scritta di colore rosso su un muro bianco in cui l'atteggiamento di fronte al conflitto fra Israele e palestinesi viene sintetizzato così: “Se ci disinteressiamo del conflitto tra i forti e i deboli, ci mettiamo dalla parte dei forti, non siamo neutrali”. Anche questo è Gaza. Fantasia, dignità, orgoglio, voglia di vivere.



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