La Repubblica
22 10 2014
Nel 2004 il Muro chiudeva la strada tra Betlemme e Gerusalemme (foto). Dieci anni di rabbia, di graffiti, di incursioni di artisti famosi come Banksy su queste lastre alte 9 metri che dividono Israele dalla Palestina per circa 800km. Un muro nel cuore dell'umanità , nella culla delle tre religioni.
Da dieci anni il giornalista Antonio Mascolo e il fotografo Luigi Ottani ( con Valentina Lanzilli) seguendo un progetto di solidarietà col Charitas Baby Hospital di Betlemme. che coinvolge Parma e Modena, hanno documentato i cambiamenti di quella realtà. Ecco alcune immagini della "lavagna " più lunga del mondo, che cambia in continuazione. Muro di sicurezza , Muro di vergogna, Muro da abbattere, Muro purtroppo replicato in altre parti del mondo.
http://parma.repubblica.it/cronaca/2014/10/22/foto/rabbia_ironia_e_banksy_10_anni_di_muro-98670123/1/#
Il Corriere della Sera
24 09 2014
I soldati israeliani, verdi e tanti. Li disegnano piccoli piccoli «perché fanno paura», spiega il maestro Ramia. I neri di Hamas, invece, li fanno con bocche di fuoco enormi. «Perché sono “i nostri” e tante volte li hanno visti sparare fra le case». Gli aerei che buttano bombe sono alti alti e hanno a disposizione tutto il foglio bianco, prima d’arrivare in fondo alla pagina e colpire le case. «Perché devono stare il più lontano possibile». Le ambulanze. I missili. Le famiglie che scappano. I corpi senza braccia. Lampi di rosso, nero, viola. Nei disegni dei bambini di Gaza c’è anche qualche didascalia: «La casa dell’uomo delle Coca-Cola» (in fiamme), «Ahmed per terra»(il fratello), «missile 75», «il palazzo che cade giù».
Sabato scorso, il sesto giorno di scuola alla Hafsa Bint-Omar, il maestro Rami Hammuda ha provato a dare un tema alla seconda B: racconta la guerra. Che poi è una cosa normale per chi è nato assieme al governo di Hamas e a sette anni, di guerre, ne ha già vissute tre. L’unico che ha scritto qualcosa più lungo di qualche parola (gli altri si limitavano a “non potevo uscire”, oppure “è nato un gattino”…) è stato Sami Bardawi: «Ero nella casa di mio nonno. Ci hanno sparato. Siamo scappati. Ci hanno sparato ancora. La casa non c’è più. La mia bicicletta è tutta rotta».
Dormi col Tavor
Tutti i bambini di Gaza quest’estate hanno imparato una parola: Tavor. Non è il tranquillante che servirebbe, è il nome del fucile automatico ultraleggero in dotazione alle forze di fanteria israeliane. Tavor 21, novecento colpi al minuto, un sonnifero per l’eternità. I bambini si sono abituati a riconoscerlo, a disegnarlo, a sognarselo. Alla Nacm (National Association for Crisis Management), un’ong palestinese, hanno in cura tremila casi particolarmente gravi, dagli otto ai tredici anni. I problemi sono quelli degli stress post-traumatici d’ogni guerra: insonnia, panico, incubi, pipì a letto… «Dovremmo essere esperti», dice Saed Sersawi, psicologo infantile di Gaza, «ma cinquanta giorni così, non li avevamo mai passati nemmeno noi. I bombardamenti del 2009 e del 2012 erano durati meno…». Rispetto a molte altre guerre, le cose si complicano quando chi cura ha vissuto il medesimo choc di chi è curato: «Anche i miei figli hanno visto le cose che hanno scioccato questi bambini», si strozza la voce del dottor Sersawi, «c’erano i corpi in mezzo alle strade e io, che dovrei saperlo fare per mestiere, non avevo parole... Un amico mi ha confidato che i suoi ragazzi lo guardavano interdetti: ma come, il supereroe di famiglia, il padre non sapeva trovare una soluzione a tutto quella sofferenza? E in quelle notti, ogni volta che per la paura sentiva i figli gridare “papà!”, m’ha detto d’avere desiderato che arrivasse una bomba e li uccidesse tutti, pur di non sentirli più. E’ una cosa terribile. Ma io lo so che cosa voleva dire…».
La bambina senza bocca
Psicodrammi, terapie di gruppo, gruppi di convivenza, anche la semplice vicinanza: maestri e terapeuti hanno avuto qualche indicazione dall’Unicef, per il resto vanno con la loro esperienza e anche a buon senso. Nel caso di Fatma Al S., per esempio, che ha visto morire ventiquattro familiari e parenti, mamma e papà compresi. Sua sorella Maha ha perso le gambe ed è ricoverata in Turchia. A lei, una scheggia ha portato via mezza bocca e non si sa quando tornerà a parlare: comunica solo scrivendo. La vita di Fatma è stata sconvolta il 21 luglio: il 22, avrebbe festeggiato i nove anni. «Mia mamma era rimasta a casa e stava preparando il dolce per me. Fosse uscita, non sarebbe morta». Si colpevolizza, adesso. Non vuole tornare a scuola: «A che cosa serve? Quando torno a casa, non c’è più nessuno che mi chieda com’è andata oggi…». C’è anche Muhammad G., 12 anni: suo papà gli è morto davanti. Ma lui da due mesi fa come se non fosse successo. Non è andato mai al cimitero, non ne parla. Gioca a pallone, da solo contro il muro. Il dottor Sersawi le sta provando tutte: «E’ uno che bisogna tenere d’occhio sempre, anche la notte se si può. Perché il momento in cui prenderà coscienza sarà terribile».
Il custode dei gessetti
Riaprire le aule è stato complicato. Ventidue istituti sono stati distrutti, una settantina sono inservibili. «Sappiamo che il lavoro può essere inutile e che la prossima guerra può spazzare via tutto quel che facciamo ora. Ma questa è un’obiezione che va rivolta agli israeliani, non a noi…», dice il maestro Rami. E Hamas? «Il governo della Striscia fa quel che può…». Servono almeno 50 milioni di euro, per dare un anno decente a mezzo milione di studenti. «I gessetti della lavagna li dò al capoclasse che ha l’incarico di custodirli. Mancano pennarelli, fogli. Non possiamo sprecare quel che abbiamo». Più di cinquecento bambini sono morti durante l’estate. In molte aule delle elementari dormono ancora gli sfollati.«Non so che cosa insegneremo in questi mesi», prevede il maestro Rami: «E’ già tanto tenerli qui dentro, avere un po’ d’attenzione. Sono agitati come marionette, non stanno nella stanza più di mezz’ora. Non vedono l’ora d’andare a casa, ma la mattina dopo sono felici d’essere tornati qui. Forse s’accorgono che, fuori, c’è chi non può avere nemmeno questo…». Poco lontano dalla scuola s’arriva a uno slargo sabbioso, proprio sullo stradone del lungomare, che chiamano al-Sudaan. E’ deserto. In mezzo, fra tre enormi voragini lasciate da missili israeliani, s’intravvede una postazione mobile di razzi Qassam e una casupola di cemento senza finestre, bruciata dal sole. Sotto, dicono, scorrono i tunnel segreti di Hamas. Non ci vuole stare nessuno, lì: nessuno tranne la famiglia Khura, due poverissimi che sbucano da un buio puzzolente e cencioso con due bambini seminudi e impolverati, il sangue che cola dal naso e nessuno che lo pulisca. Scudi umani, più o meno. I parenti inceneriti dalla guerra, un tetto e nient’altro. «I miei figli non li mando a scuola perché mi servono», dice papà Khura, stropicciandosi gli occhi nella luce accecante di mezzogiorno: «Abbiamo trovato questa casa, dopo un mese passato a dormire sulla spiaggia. Mi vedi? Io sono già un uomo morto. E se il papà muore, i figli dove vanno? No, niente scuola: loro devono starmi vicino».