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Extracomunitari, immigrati, migranti, espatriati

  • Lunedì, 07 Settembre 2015 14:23 ,
  • Pubblicato in DINAMO PRESS

Dinamo Press
07 09 2015

Una riflessione, a partire dal dibattito sulla stampa internazionale, sulla definizione dei fenomeni migratori che abbiamo di fronte e sul suo utilizzo politico.
Le recenti tragedie dell'immigrazione hanno aperto un interessante dibattito internazionale sulla semantica che il termine “migrante” ha assunto negli ultimi tempi. Il primo a sollevare la questione con decisione è stato il Guardian con un articolo del 16 Agosto di Stephen Pritchard dal titolo esemplificativo “The Semantics of Migration”.. Pritchard sottolinea come l'utilizzo da parte dei media e della politici stia connotando negativamente un termine neutro che indica semplicemente persone che si spostano da un territorio ad un altro. Sui titoli di giornale il migrante finisce per non essere più un essere umano, ma il suo ruolo. Il migrante diventa così una figura disincarnata su cui è più facile riversare xenofobia e odio.
La correttezza politica del rifiuto di etichette come “clandestino”, “irregolare” o “illegale” ha determinato che quelle connotazioni negative si siano estese alla categoria di “migrante” nel suo complesso.

Ecco allora che Al Jazeera English decide di non utilizzare più il termine “migrante” ma solo quello di “rifugiato”. Come un editoriale programmatico del 20 Agosto, “Why Al Jazeera will not say Mediterranean migrants”, Barry Malone spiega: “Non sono sono centinaia di persone quelle che affogano quando un barca affonda nel Mediterraneo, non sono nemmeno centinaia di rifugiati. Sono centinaia di migranti. Non è una persona come te - con una storia, delle speranze, delle idee – quella che sui binari che fa ritardare il treno. È un migrante. Una seccatura”.
Il Guardian e Al Jazeera hanno così aperto un ampio dibattito sulla stampa internazionale al punto che il 27 Agosto, Adrian Edwards, portavoce di UNHCR, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in una lunga nota dal titolo “Refugee or migrant. Which is right?”ha voluto precisare: “i migranti scelgono di spostarsi non a causa di una diretta minaccia di persecuzione o di morte, ma soprattutto per migliorare la propria vita attraverso il lavoro, o in alcuni casi per l'istruzione, per ricongiungersi con la propria famiglia o per altri motivi. A differenza dei rifugiati che non possono tornare a casa senza correre rischi, i migranti non hanno questo tipo di ostacolo al loro ritorno. Se scelgono di tornare a casa, continueranno a ricevere la protezione del loro governo. […] Assimilare rifugiati e migranti può avere gravi conseguenze per la vita e la sicurezza dei rifugiati. Confondere i due termini svia l'attenzione dalle specifiche protezioni legali di cui i rifugiati hanno bisogno”.

Si tratta di una pericolosa distinzione perché come notano Liberti e Manfredi su Internazionale (tra le poche testate italiane a occuparsi della questione) distinguere rifugiati e migranti “rafforza un diktat ormai imposto all’opinione pubblica: la divisione tra buoni (i profughi che vanno accolti) e cattivi (i migranti economici che cercano surrettiziamente di entrare nel nostro mondo ricco ma in crisi, per sottrarci risorse e renderci poveri, e che pertanto devono essere bloccati)”.
Invece sono propri i migranti economici quelli a cui - come cittadini europei in regime di austerity - possiamo sentirci più prossimi. Sono quelle le condizioni che - con gradi diversi - accomunano il 99% del popolazione mondiale.

Ovviamente dal punto di vista terminologico l'UNHCR ha ragione. Secondo la Convenzione di Ginevra infatti: “è un rifugiato solo chi fugge da un paese in cui ha giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.
Si potrebbe però controbattere che fin quando non sono concluse le pratiche per la richiesta d'asilo queste persone su una nave non sono dei rifugiati ma ancora semplici migranti e, allo sbarco, soltanto dei richiedenti asilo. Saranno rifugiati solo dopo che la loro condizione è vidimata istituzionalmente. Quindi sono tutti “migranti”.
All'opposto, ricorrendo all'Articolo 13 della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo secondo cui “ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio”, ogni migrante nel momento in cui lascia il proprio paese non avendo trovato modo di farlo legalmente potrebbe essere essere automaticamente considerato discriminato. La sua potenziale morte nello spostamento diventa la sanzione di una “persecuzione” che lo include nelle norme della Convenzione di Ginevra. Quindi sono tutti “rifugiati”.

Certo la difesa dei rifugiati (e del termine rifugiato) è un più comoda linea di difesa per l'UNHCR e per le tante associazioni che si occupano di richiedenti asilo. Presenta inoltre l'indubbio vantaggio di poter fare comunicazione con cifre precise e numeri più esigui rispetto alla totalità di un fenomeno migratorio che spesso rifugge l'identificazione alle frontiere. Si arriva però così al paradosso di considerare la guerra “l'unica vera fabbrica di migranti” (Wired, 31 Agosto) con buona pace delle diseguaglianze economiche globali di cui la guerra è solo uno degli esiti.

Migrante o rifugiato quindi? Fino ai primi anni novanta il termine giornalistico più utilizzato per descrivere la stessa condizione era extra-comunitario. Un termine che indicava la semplice presenza sul territorio europeo di qualcuno che non lo era. Anche questo termine, di per se neutro, finì per disincarnare gli esseri umani che venivano così etichettati in termini negativi come estranei alla comunità. Segui un ampio dibattito e prese piede un “nuovo” termine: immigrato.
L'idea era quella di ricollegare l'esperienza migratoria ha quella che aveva caratterizzato l'Europa della prima metà del secolo. Gli immigrati erano i nostri nonni che andavano nelle americhe, non erano diversi da noi. Anche “immigrato” finì però identificare non una persona, ma una funzione: quella di chi veniva a prendere il posto dei nativi, a togliere lavoro e se non ci riusciva a delinquere.

Ecco così comparire sulla scena il più politicamente corretto migrante. Il migrante non arrivava qui per restare, la sua è una condizione temporanea: i migranti vogliono tornare al loro paese d'origine. Un po' come accade a tanti cittadini europei che si spostano per motivi di studio o di lavoro. Un po' come un Erasmus.
Ora anche migrante è giunto al capolinea. Qualcuno potrebbe pensare che trovare un ulteriore alternativa sia tempo perso. Invece non è così. Sebbene qualunque alternativa finirà per avere lo stesso destino se non muta la realtà materiale, ogni passaggio semantico non è infruttuoso.
È nel momento del divenire, nel tempo intermedio d'adozione di un significante che si infonde una rinnovata percezione al significato. È nel periodo in cui si dice “l'unica differenza rispetto a me è che non sono comunitari”, “sono come mio nonno emigrato in Argentina”, “sono come mio figlio che è andato a lavorare in Germania” che si imprime una nuova traccia semantica nella memoria delle persone.

Cosa dovremmo fare allora? Accogliere l'appello di Al Jazeera e chiamare tutti rifugiati a dispetto e contro l'UNHCR?
Qualche mese prima che si aprisse con più forza il dibattito sul Guardian sono apparsi due diversi articoli entrambi firmati da giornalisti “immigrati”.
“Per un anno o due ho immaginato di essere un expat [espatriato]” - scrive il giornalista indiano Ritwik Deo nel suo editoriale “The British abroad: expats, not immigrants” “Sono venuto dall'India per studiare al St.Andrews con una borsa di studio. Mi sono mescolato con i compagni di classe con passaporto multiplo, i cui genitori erano expat a Zurigo, Dubai, New York e Tokio. Ma mentre mi meravigliavo della facilità con cui volavano in Francia, prendevano treni in Croazia e facevano amici tra i beduini in Giordania, io avevo prolungate discussioni con i doganieri che spulciavano i miei documenti ogni volta che ho provato a fare un salto in Irlanda o in Francia. Questa accoglienza mi ha fatto capire che non ero mai stato un expat, ma solo un immigrato. Sembra impossibile essere un indiano espatriato.”

Il giornalista togolese Mawuna Remarque Koutonin (“Why are white people expats when the rest of us are immigrants?” è stato ancora più esplicito: “Expat è un termine riservato esclusivamente per i bianchi occidentali vanno a lavorare all’estero. Gli africani sono immigrati, gli arabi sono immigrati, gli asiatici sono immigrati. Tuttavia, gli europei sono expat perché non possono essere allo stesso livello di altre etnie. Loro sono superiori. Immigrati è un termine riservato alle “razze inferiori”.
Ecco forse expat, espatriato, potrebbe essere la nuova parola giusta. Una parola “bianca” destinata alle persone che lasciano il proprio paese, i propri affetti e le proprie cose. Un corto circuito per gli xenofobi che credono alla parola patria. Un segno comune a chi fugge i drammi della guerra o dalla fame, della discriminazione, dell'ingiustizia o dalla povertà. Senza separazioni. Qui o altrove. E quando la parola sarà vecchia, forse assieme a essa sarà vecchia anche l'idea di una patria da difendere dallo “straniero”.

Cronache di ordinario razzismo
22 04 2014

E’ iniziata la campagna elettorale. A dircelo, più che i programmi politici e le proposte, sono i messaggi della propaganda elettorale intrisi di xenofobia e di razzismo, tanto più utili in un periodo di crisi economica e sociale. In mancanza di risposte efficaci per fermarla niente di più facile che spostare l’attenzione su chi non può votare, o ha meno voce per farsi sentire, e trasformandolo in un capro espiatorio di una situazione che, in realtà, non si sa (o non si vuole) gestire politicamente.

“Il lavoro prima alla nostra gente. Stop ai concorsi pubblici per immigrati”, recita un manifesto della Lega Nord, che ripropone la dicotomia “noi-loro” che le è tanto cara, perpetrata prima tra italiani (Nord e Sud) e ora tra italiani e cittadini stranieri.

Riccardo Sensi, candidato sindaco di Forza Italia per Montecatini Terme, inserendosi in quello che è un discorso cavalcato sia dai media sia dalla classe politica sceglie di far affiggere dei manifesti con una donna, che secondo le rappresentazioni più diffuse per gli abiti che indossa si presume essere rom. Sotto, la frase stop al degrado, restituiamo decoro alla nostra città.

Anche sforzandoci, non riusciamo a intravedere degrado nel manifesto. Non ci sono, ad esempio, cumuli di spazzatura, oppure strade divelte. C’è solo una donna, di spalle. A quanto pare, per Sensi il solo fatto che possa, forse, essere rom basta a trasmettere un’immagine di noncuranza della città, che il sindaco a quanto pare dice di voler cambiare. C’è effettivamente un problema di degrado nella città? Che dati ci sono? Eventualmente, come pensa di risolvere questo problema il candidato? Non si sa: quello che importa, è trovare qualcuno da stigmatizzare, contro cui schierarsi.

E’ una strategia ben nota e che da anni monitoriamo e denunciamo, come abbiamo fatto con uno dei casi più eclatanti, quello dei manifesti in cui campeggiava la parola “zingaropoli”, affissi nel 2011 da Lega Nord e PDL contro il candidato sindaco Giuliano Pisapia, accusato di voler consegnare la città ai rom e ai fedeli musulmani. Per questi manifesti, e per la campagna dai contenuti fortemente discriminatori portata avanti, Lega Nord e PDL furono condannati per discriminazione in base all’art. 2 c.3 del D.lgs 215/03 (ne abbiamo parlato qui).

Un precedente che dovrebbe essere tenuto ben presente dai candidati alle elezioni europee e dai loro consulenti per la comunicazione, ma anche da parte dell’opinione pubblica. Le campagne elettorali che si fondano solo o prevalentemente sulla stigmatizzazione e sull’odio verso chi di volta in volta e a seconda della convenienza viene identificato come “altro da noi”, nascondono l’incapacità di avanzare proposte politiche efficaci. A farne le spese siamo tutti noi.

Giornalettismo
20 12 2013

Su Facebook nelle ultime ore viene condivisa una fotografia che ha per protagonista un bambino biondo in braccio ad una donna rom, immortalate alla stazione metropolitana di Roma Tiburtina. L’immagine è corredata da un appello in cui s’invita a divulgare l’immagine perché la bambina piangeva tanto.

L'ALLARME - Questo il testo della didascalia a corredo dell’immagine:

Vi prego divulgate….ho visto questo bambino a Tiburtina adesso in braccio a una zingara che piangeva tanto.

Ma come ha dimostrato la cronaca negli ultimi mesi, anche i rom possono avere dei bimbi biondi e se l’allarme non è giustificato si rischia di cadere nel penale. Nove Firenze ci ricorda la denuncia per diffamazione e procurato allarme intentata contro alcuni utenti Facebook a causa di una fotografia scattata da un residente di Montevarchi, in provincia di Arezzo, che venerdì 4 ottobre immortalò su un autobus di Firenze due donne rom insieme ad una bimba bionda.

Il pregiudizio sul colore ha portato all’affermazione che le due avessero rubato la piccola scatenando una serie di commenti razzisti salvo poi scoprire, grazie all’interessamento della rappresentanza Rom, che la piccola era davvero figlia di una famiglia rom di Quaracchi, in provincia di Firenze.

IL CASO DI MARIA - La responsabile della fotografia, invitata a chiedere scusa ai genitori, ha cancellato la foto non ammettendo di aver violato la legge fino alla denuncia. Ed a proposito di pregiudizi, in Grecia la polizia aveva dichiarato il 24 ottobre di aver trovato una bimba bionda in un campo rom, rapita da una famiglia. In ventiquattro ore si moltiplicarono le segnalazioni provenienti da tutta Europa relative ad una piccola somigliante a Maria, questo era il suo nome. Il giorno dopo si scoprì che la bambina venne venduta dalla madre naturale, Sasha Ruseva, per 250 euro. Il motivo? Non poteva mantenerla. Eppure secondo il pregiudizio la piccola venne rapita. Segno che bisogna aspettare prima di esprimere giudizi.

Maghdi Abo Abia

Abbatto i muri
21 03 2013

L’istruttrice di aerobica, step, gag, pump e tutti gli acronimi di questo mondo, oggi pomeriggio non c’è. La sostituisce il tizio che sorveglia la sala attrezzi e che si dedica alla mattina agli sport acquatici.

Lui non ha la stessa delicatezza della sua collega e sto guardando alcune signore che vengono redarguite mentre non riescono a replicare alcuni movimenti che secondo me sono gli unici che l’istruttore conosce.

Lui è corrispondente al modello nazi-pilota d’aereo militare.

Alto, spalle larghe, faccia non attraente, collo taurino, capelli a spazzola, biondo, muscoli esibiti, torace ampio e culo ristretto, ha una forma conica rovesciata, cammina con la punta e si allarga man mano che alzi lo sguardo per misurargli la faccia.

Parla come una specie di caporale delle truppe d’assalto e una signora lo sta brutalmente mandando a quel paese perché abbassandosi di colpo ha quasi compromesso l’uso di un ginocchio.

La cosa più avvilente di tutto ciò è che nella zona più prossima a quella dove le donne e qualche uomo vanno a fare ginnastica si fermano spesso dei cretini che prendono in giro quelle donne e fanno una speciale graduatoria (questa si, questa no) con apprezzamenti anche piuttosto volgari.

Così grazie a loro nel villaggio si sa che c’è una “chiattona”, una “panzona”, una col culo a pera le tette a mela, le braccia a ciliegia e le gambe a banana.

In realtà questi gentili signori non sono uomini qualunque. Appartengono alla speciale razza dei fruttivendoli. Sono ortolani rivestiti da villeggianti e guardano l’umanità tutta come si trattasse di vegetali. Loro stessi, d’altronde, alla fine sono né più e né meno che dei carciofi abbronzati. E il bello è che poi si ostinano a dare del “finocchio” a chi non li segue in questa attività di valutazione ortofrutticola.

Non mi sono mai posta il problema di chi mi guardasse mentre svolgevo una attività fisica ma non deve essere piacevole tentare di rimettersi in forma, per se stesse, per buttare via un po’ di tossine e sudore, e avere alle spalle degli idioti che mi considerano solo come merce in esposizione per il loro divertimento.

Perché questi uomini dal cervello a forma di ananas avariata non trovano altro da fare che questo: rompere le scatole alle ragazze che reputano carine (che chiamano “scopabili”) e sfottere le donne per fare sapere al mondo che quelle femmine no, non meritano la loro attenzione.

Mai che gli venisse in mente che sono gli uomini così che non meritano attenzione.

L’istruttrice in genere chiede a chi non fa allenamento di sgomberare l’area. L’istruttore invece si tiene la clack ed è anche sua la responsabilità di quello che succede.

Le signore osservate, un paio delle quali (le conosco) sono madri di alcuni bimbi che io intrattengo la mattina, non si sentono a proprio agio e non le invidio per niente  perché pagare per una vacanza e poi trovarsi a vivere anche questo stress non deve essere semplice. Fossi in loro chiederei risarcimento danni perché ci deve pur essere un luogo in cui le donne non siano carne da macello e possano stare bene senza dover essere sottoposte a nessuna sfilata del cavolo.

A proposito: per sabato è prevista la sfilata per miss ospite del villaggio. Mi hanno chiesto di segnalare ragazze appetibili (non lo farò mai!). Tra i giudici della speciale commissione (in premio c’è nientemeno che un week end in più al villaggio, che culo!) c’è anche il mio boss capo animazione.

Questo non è un luogo di divertimento per tutti. E’ un luogo di sollazzo per gli uomini di un certo tipo e uno scannatoio per le donne.

Ringrazio di aver avuto l’opportunità di aver visto tutto questo da un punto di vista privilegiato, come lavoratrice precaria. Io e i villaggi turistici abbiamo chiuso. Definitivamente.

NB: Malafemmina, diario di una precaria qualunque, è un personaggio di pura invenzione e un progetto di comunicazione politica. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale.


Le ultime scritte risalgono alla settimana scorsa: ingiurie pesanti ai danni dei gay spruzzate con le bombolette sui cancelli del liceo Socrate della Capitale. Agli inizi di febbraio invece le offese sono comparse sui muri del liceo Tacito: si riferivano a un compagno di scuola omosessuale dichiarato ed eletto rappresentante d'Istituto. ...

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