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"San Berillo non è uno zoo piccolo borghese"

  • Venerdì, 02 Gennaio 2015 09:48 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

l'Espresso
02 01 2015

Il quartiere di San Berillo, a Catania, è un luogo sospeso nel tempo. Dove la complessa storia sociopolitica della città si annoda alla letteratura e al cinema, imprimendo nell’immaginario collettivo suggestioni e verità piene di contraddizioni. Dalle fascinazioni sensuali di Vitaliano Brancati alla realtà più sofferente di Goliarda Sapienza. Perfetta sintesi delle due anime che abitano le vie dello storico quartiere della città etnea, sventrato alla fine degli anni ’50 a causa di una speculazione immobiliare che ne deportò gli abitanti in periferia, a San Leone, e diventato il quartiere a luci rosse più importante del Mediterraneo. Tra i pochi palazzi fatiscenti rimasti e un degrado sempre più dilagante, rifugio di prostitute e transessuali provenienti da tutta Italia. Fino a quando, nel 2000, un blitz delle forze dell’ordine costrinse nuovamente gli abitanti ad abbandonare le loro abitazioni, lasciando per le strade del quartiere solo pochi fantasmi in calze a rete strappate, affacciati alle portefinestre di case terrane pericolanti.

Fantasmi di ieri e di oggi, esistenze dolenti lasciate ai margini quasi ad espiare chissà quali colpe, sulle cui tracce si è messo il regista catanese Edoardo Morabito con il documentario “I fantasmi di San Berillo”, girato insieme ad Irma Vecchio e vincitore nel 2013 della sezione Italiana.doc al Torino Film Festival.

È stato proprio Morabito, nei giorni scorsi, a segnalare su Facebook con «sconcerto, tristezza e sgomento» la nascita di una nuova iniziativa nel cuore di San Berillo, ad opera di un’associazione locale, la PanVision, che “per offrire un’opportunità di riscatto e di lavoro in ambito turistico-culturale ai travestiti ed alle ex prostitute del quartiere che vogliono cambiare vita” – è quanto si legge sul sito promozionale – organizza il “Catania Segreta Tour”. Ovvero un giro guidato all’interno del “Borgo delle Belle”, comprensivo di incontri culturali con i trans storici e alcune ex prostitute del quartiere, previo tesseramento obbligatorio all’associazione e versamento di un contributo di 10 euro a persona, necessario per prenotare la visita.

«Questa operazione rappresenta un’idea malsana e non disinteressata di riqualificazione del quartiere – ci spiega Edoardo Morabito, mentre ci accompagna nei meandri del quartiere – e si basa su una spettacolarizzazione della vita di esseri umani che, in questo caso, vengono sfruttati come merce di scambio per capitalizzare fini pseudo artistici o, peggio, sociali, trattati come personaggi folkloristici e disumanizzati come fossero animali di uno zoo piccolo-borghese in cui bisogna pagare il biglietto per entrare. Invece parliamo di persone. Uomini e donne abituati a vendersi per sopravvivere, ma spinti spesso da motivazioni problematiche e dolorose. Forse sono anche contenti di racimolare qualche soldo in più, non è questo il problema. La questione è che così si mercifica la loro anima, la loro dignità».

Il regista catanese ha vissuto a contatto con la realtà del quartiere per quattro anni, durante la lavorazione del documentario, e non trattiene il personale disagio nei confronti di un’iniziativa che, sfogliando le pagine del sito promozionale, appare più un tentativo di business. Arrivando ad offrire dietro compenso - a partire da 100 euro a sessione - anche supporto logistico nel quartiere per set e workshop fotografici, dopo avere però raccomandato discrezione ai visitatori perché i trans e le prostitute non amano essere fotografati o ripresi. E sempre dopo avere offerto il tour guidato del quartiere a luci rosse, pur mettendone in evidenza la desolazione e il degrado che certo non lo rendono accattivante e turistico come quello di Amsterdam.

Come se ci fosse differenza tra l’occhio di una telecamera o di una macchina fotografica e l’occhio di persone che pagano per andare a curiosare.

«Uno dei problemi della società di oggi – osserva Morabito – è la perdita di indignazione. Ci facciamo passare tutto davanti con una semplicità “da aperitivo”. Ormai si è raggiunto un tale livello di alienazione dalla vita che la realtà viene spettacolarizzata nelle sue più abominevoli espressioni e tutto, diventando spettacolo, ha perso consistenza trasformandoci da spettatori in complici. Come scriveva Guy Debord, lo spettacolo è il capitale arrivato ad un tale punto di accumulazione da diventare immagine e questa operazione su San Berillo ne è l’esempio. Alcuni abitanti si sono lasciati coinvolgere, ma sono soggetti deboli di cui la società si è sempre presa gioco facendo promesse».

È stato uno di loro a confidare a Morabito, in una circostanza analoga, la spiacevole sensazione di essere trattati come animali allo zoo. Da qui il post sullo “zoo piccolo-borghese di San Berillo” scritto dal regista, dopo il quale alcune associazioni che operano attivamente nel quartiere hanno preso le distanze dall’iniziativa del tour. Stuzzicata, forse, dai riflettori accesi di recente sul quartiere con il film “Più buio di mezzanotte” di Sebastiano Riso, arrivato a Cannes, e con il documentario “Gesù è morto per i peccati degli altri” di Maria Arena, da poco presentato al Festival dei Popoli.

Girati entrambi negli stessi vicoli già percorsi da Edoardo Morabito ne “I fantasmi di San Berillo”, le cui immagini erano state inizialmente usate senza autorizzazione dai gestori del sito del tour, tanto da spingere il regista catanese a chiederne la rimozione. Ed è proprio il documentario di Morabito ad offrire una chiave di lettura di questa vicenda. Laddove si chiude con le parole di Goliarda Sapienza, riannodate dal regista e affidate alla voce dell’attrice Donatella Finocchiaro, per spiegare il delicato rapporto tra Catania e le sue “belle”, oggi sostituite soprattutto dai trans, in un quartiere che fatica a sopravvivere nella sua malinconica, struggente, emarginata solitudine.

"Queste donne – scriveva Goliarda, autrice de “L’arte della gioia”, cresciuta in via Pistone, nel cuore di San Berillo – mi hanno chiuso la bocca per tanti anni. Perché essendo derelitte, vittime della società, io fui costretta ad amarle, a conoscere le loro storie, metterle in un altarino e scrivere solo di loro. Ma essendo io nata e vissuta al secondo piano, piano nobile come si diceva, che potevo saperne...Con terrore mi accorsi che non sapevo niente di loro e che sotto quell’amore sacro che avevo per queste donne si nascondeva un’indifferenza piccolo-borghese. Oggi come allora, non sono che una straniera. Finalmente l’ho capito e non devo fingere più di amarle. E anche loro l’hanno capito. Hanno finalmente capito che sono una nemica che viene a sfottere, a curiosare, e poi se ne torna al secondo piano a studiare, a suonare il pianoforte".

Ornella Sgroi

 

 

 

 

 

 

Smontare narrazioni tossiche. La prostituta nigeriana

  • Martedì, 30 Dicembre 2014 10:56 ,
  • Pubblicato in Flash news

Abbatto i muri
30 12 2014

Da Incroci De-Generi:

In un intervento presentato nel 2005 al convegno “Il mito del buon italiano tra repressione del ribellismo e guerre civili” che aveva come oggetto i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, Nicoletta Poidimani analizzava come la rappresentazione delle donne africane, somale, eritree etiopi, ma anche libiche, a partire dal colonialismo liberale di fine ottocento è stata volta al loro appiattimento sull’identità sessuale, per di più connotata da ipersessualità. Tale rappresentazione, culminante nel mito della Venere nera, è stata autorizzata anche all’inizio del fascismo per legittimare lo stupro coloniale e per convogliare forza-lavoro maschile in quei territori.

Il mito della Venere nera, calda, sensuale, lussureggiante, feconda, selvaggia, con una ipersessualità che attendeva solo di essere appagata dal maschio bianco, è durata fino alla proclamazione dell’Impero, quando la formazione di una identità imperiale italiana impose la necessità di rimuovere i pericoli per la contaminazione della purezza della razza bianca, contaminazione rappresentata dai figli meticci che nascevano a causa delle relazioni di concubinaggio, note come madamato. La Venere nera, lungi dal perdere i suoi connotati ipersessuali, comincia allora ad essere rappresentata come minaccia, alla quale il regime fascista contrappone, quale argine alla lussuria, la bianca purezza della donna italiana, morigerata madre e moglie.

Se da un lato il colono doveva dimostrare di saper mantenere il controllo di sé per non insabbiarsi, da un altro l’ ardua impresa gli veniva facilitata dal massiccio trasferimento in colonia di italiane, alle quali spettavano compiti di tutela della razza non solo a livello biologico, ma anche sotto il profilo morale.

L’Italia non ha ancora fatto i conti con il suo passato coloniale, non ha ancora provveduto a decodificare e smontare comuni miti propagandistici quali quello del fardello dell’uomo bianco, degli italiani brava gente e della Venere nera, che rappresenta l’acme di una propaganda sessuata in cui si intrecciano politiche sessuali e politiche razziali. Questa mancanza di riflessione, di metabolizzazione e dunque di superamento di narrazioni coloniali, altamente tossiche, fa sì che queste riemergano anche sotto mentite spoglie. E’ il caso della prostituta nigeriana vittima di tratta, il casus per eccellenza impugnato dalle abolizioniste della prostituzione per muovere gli animi e le pance verso la necessità di combattere una piaga rappresentata, guarda caso, proprio dalla donna nera ai bordi delle strade. La prostituta nigeriana è una narrazione tossica perché raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità ( Wu Ming).

In diverse ci siamo domandate più volte perché le abolizioniste chiamino in causa sempre “la nigeriana”. Da un lato, forse, le ragazze di Benin city avranno suscitato un forte impatto emotivo su un pubblico che ha poca dimestichezza con la complessità e finisce così per semplificare al massimo riducendo ciò che è complesso e polimorfo ad una sola casistica. Ma da un altro, la prostituta nigeriana è una cornice nella quale, mutate le mutande, riemergono molti di quegli elementi della propaganda coloniale con la quale continuiamo a non voler fare i conti: l’ ipersessualità, la condizione per così dire “selvaggia” perché carente di civiltà e di istruzione, la povertà e, non da ultimo, la pelle nera. E’ soprattutto quest’ultima, la pelle nera, dunque il dato razziale, che connota il frame della prostituta nigeriana: una donna nera – a prescindere dalle tonalità dell’incarnato e dalla nazionalità, l’importante è che sia non bianca – povera, indifesa, diciamo pure sprovveduta perché, partita da un paese povero verso l’Eldorado occidentale in cerca di fortuna, si ritrova impigliata nelle maglie dello sfruttamento sessuale e da queste non riesce a districarsi. Del resto, è una vittima. Nella retorica abolizionista, il frame della prostituta nigeriana vittima di tratta essenzializza la condizione delle prostitute che provengono non solo dall’ Africa, ma più in generale da fuori dei confini europei. E sono tutte rappresentate come vittime, riproducendo così continuamente vittimità, in maniera non dissimile dalle immagini di quei volti tumefatti che dovrebbero servire a combattere la violenza maschile sulle donne e invece la rinforzano. Del resto, è così che funziona il discorso neoliberale, che mentre simula di volta in volta la denuncia della violenza di genere, del maschilismo, del razzismo, dell’omofobia, in realtà li sta rinforzando, essenzializzando e rinchiudendo in un frame la donna, il/la migrante, la puttana, il frocio e via discorrendo. Basti pensare alle performance razializzate e orientaliste di Molly Crabapple per farsene un’idea.

La prostituta nera, appiattita sull’identità sessuale, povera, incapace di agire e reagire e quindi bisognosa di tutela, è senza dubbio il retaggio coloniale della rappresentazione essenzialista, ipersessualizzata, razializzata e genderizzata delle donne africane, così come la missione di salvataggio morale, abbracciata con irremovibile fermezza dalle abolizioniste nostrane, rappresenta il lascito della missione moralizzatrice e civilizzatrice delle donne bianche che in epoca fascista si trasferivano nelle colonie per evitare che la razza si insabbiasse. Un vero e proprio passaggio del testimone, l’uomo bianco passa il suo fardello alla femminista bianca. Non sarà allora un caso che anche le parole strillate con tanta foga dalla retorica abolizionista siano prese a prestito direttamente dal vocabolario coloniale. Tratta e abolizionismo sono infatti termini in relazione con la schiavitù e non appartengono ai movimenti per la conquista dei diritti civili delle prostitute. Elisabeth Bernstein, nel saggio The Sexual politics of the New Abolitionism, sottolinea come dagli inizi del XX secolo, proprio in seguito ai processi di trasformazione capitalista innescati dalla seconda rivoluzione industriale, comincia a proliferare la narrazione della schiavitù sessuale intrecciata a retoriche nazionaliste basate sulla razza, alla difesa della proprietà privata e alla nozione biblica del peccato. La battaglia contro la schiavitù sessuale viene così condotta dalle donne del ceto borghese per dar sfogo alle frustrazioni causate loro dagli standard della doppia morale. Oggi, continua Bernstein, la nuova ondata abolizionista è parte integrante dell’agenda sessuale del neoliberalismo, che rappresenta le diseguaglianze sociali in termini di devianze individuali, finge di cercare soluzioni rafforzando il sistema legislativo e carcerario e si appella alla beneficienza delle classi privilegiate, evitando rigorosamente di mettere a tema l’empowerment degli/delle oppresse e proteggendo così da ogni accusa le strutture economiche e sociali che sono causa di oppressione, sfruttamento, schiavitù.

Le abolizioniste finiscono così per essere uno strumento nelle mani dello stato neoliberale. In linea con le vecchie prassi colonialiste, continuano ad attingere risorse umane dall’Africa per costruire e utilizzare una narrazione tossica con cui colpire dritto alla pancia, ma si guardano bene da analisi e lotte di sistema. E’ questa una delle molteplici forme in cui si concretizza il neocolonialismo. Ne è riprova il fatto che le abolizioniste non si applicano con altrettanta passione alla denuncia e alla lotta contro la tratta di tutt* i lavoratori e le lavoratrici. Per esempio, quelli schiavizzati nel mercato ittico asiatico che fornisce pesce a catene americane ed europee come Walmart e Carrefour, oppure gli operai e le operaie nelle fabbriche dei suicidi delle Apple, o, ancora, gli schiavi e le schiave del caporalato in molte campagne italiane. Non sono, forse, anche queste forme feroci di sfruttamento?

Ma c’è di più. Il frame della nigeriana vittima di tratta viene utilizzato per confondere le acque ed assimilare tutta la prostituzione allo sfruttamento sessuale. E’ questa una mistificazione della realtà, operata scientemente per conseguire i propri obiettivi. Ad esempio, invisibilizzare e sottrarre agibilità politica e sociale ai movimenti che da anni lottano per i diritti delle prostitute, come il comitato delle lucciole, delegittimando le prostitute medesime. Oppure, distogliere l’attenzione dal fatto che lo sfruttamento della prostituzione è già reato in Italia. In particolare, l’articolo 3 della legge 20.02.1958 n 75, conosciuta come Legge Merlin, punisce con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 258 a euro 10.329 chiunque induca una persona a recarsi nel territorio di un altro Stato o comunque in luogo diverso da quello della sua abituale residenza, al fine di esercitarvi la prostituzione ovvero si intrometta per agevolarne la partenza; chiunque esplichi un’attività in associazioni ed organizzazioni nazionali od estere dedite al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione od allo sfruttamento della prostituzione, ovvero in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo agevoli o favorisca l’azione o gli scopi delle predette associazioni od organizzazioni; (articolo 3 commi 6 e 7). Dal momento che la cosiddetta tratta è già reato e purtuttavia non cessa di esistere, ne consegue che provvedimenti legislativi isolati e slegati da un approccio sistemico, che sovverta i dispositivi economici e sociali che producono sfruttamento e oppressione, rappresentano dei correttivi di sistema completamente inutili.

Pertanto, ci si chiede e si chiede: poiché lo sfruttamento sessuale è già reato, quale altro provvedimento legislativo viene invocato dalle abolizioniste? Si tratta forse del divieto di disporre liberamente del proprio corpo, eredità, questa, tanto delle frustrazioni delle abolizioniste di inizi secolo XX quanto delle istanze moralizzatrici e razziste delle matrone di epoca fascista?

Ancora una volta, sono le donne del continente africano ad essere sfruttate, ridotte a mera identità sessuale e abusate nei loro corpi come pretesto per costruire una narrazione tossica che pretende di essere rappresentativa di tutta la realtà, ma che è invece una mistificazione utile a perseguire una serie di obiettivi in linea con gli interessi di chi usa quel frame, nessuno dei quali, però, contempla l’empowerment delle prostitute medesime, l’uguaglianza, la giustizia sociale e la conquista di diritti.
In questo accanimento repressivo e disciplinatorio, si potrebbe almeno smettere di sfruttare le donne d’Africa fino all’osso, sfoggiando l’espressione candida della femminista bianca che regge sulle spalle il fardello della civiltà?

Ma l'Italia consuma i corpi delle donne

  • Domenica, 14 Dicembre 2014 11:17 ,
  • Pubblicato in Il Libro
maddalena prostitutaRiccardo Iacona, Pagina99
13 dicembre 2014

Gli utilizzatori finali, i tanti clienti delle tante prostitute sono una avanguardia attiva che pratica più o meno frequentemente il consumo del corpo della donna, su un mercato che è diventato sempre più grande e sempre più vario nelle forme, nei modi e anche nelle tante mercanzie che mette in vendita. ...

Ma l'Italia consuma i corpi delle donne

maddalena prostitutaGli utilizzatori finali, i tanti clienti delle tante prostitute sono una avanguardia attiva che pratica più o meno frequentemente il consumo del corpo della donna, su un mercato che è diventato sempre più grande e sempre più vario nelle forme, nei modi e anche nelle tante mercanzie che mette in vendita.
Riccardo Iacona, Pagina99 ...

Roma Today
09 12 2014

Presenze silenziose che fanno molto rumore. Tutti i romani sanno, in pochi li conoscono. Anni fa era per necessità, oggi per riempirsi il portafogli. Ecco i moderni ragazzi di vita che si vendono tra le stradine buie di villa Borghese

Mary Tagliazucchi 

Dei marchettari di Valle Giulia ogni romano sa o crede di sapere tutto. Ma nessuno immagina e in pochi hanno visto davvero cosa accade lì, tra le vie buie e nella penombra di Villa Borghese. Ragazzi di ogni età e nazionalità vendono il proprio corpo. Lo fanno alla luce del sole. Lo fanno da sempre, tanto che ormai Valle Giulia è famosa per essere una delle piazze della prostituzione maschile più frequentate. Ma cosa fanno? Perchè lo fanno? E con chi? Ma soprattutto chi sono questi marchettari?

“Scoparmi un vecchio di 70 anni non è il massimo ma pagano bene. Per un rapporto orale arrivano a darmi anche cinquanta euro. A volte faccio anche duecento euro al giorno. Sono bravo a soddisfarli. E se loro mi fanno schifo, i loro soldi, no”. A parlare è Aasim, un giovane egiziano. Le sue parole trovano conferma nell’abbigliamento firmato e l’Iphone di ultima generazione. E' un anno che fa “la vita”.

I clienti, spiega, non sono di zona e vengono principalmente dalla periferia romana: Tiburtina, Tuscolana, Prenestina, Collatina e alcuni anche da fuori Roma. Poche le donne che richiedono le sue prestazioni e quando accade non è poi così male. E aggiunge: "Non faccio uso del preservativo anche se dovrei. Ma ai clienti piace così e mi da l'opportunità di chiedere loro più soldi visto il rischio. In una giornata posso arrivare anche a dieci rapporti. Attivo o passivo? Sceglie il cliente” Poi tiene a precisare che lui non è gay, si prostituisce con gli uomini solo per soldi . Mentre ci racconta la sua esperienza, la vita cittadina scorre come sempre, gente che scende dal tram, turisti in visita alla Galleria nazionale d’Arte Moderna e sportivi che fanno jogging .

Tutto nella norma, tutto regolare come la macchina nera che in lontananza arriva. I vetri appannati nascondono l’identità del guidatore ma non quella del passeggero che scende subito dopo. E’ un ragazzo, alto dai capelli scuri. Sale i gradini della scalinata, saluta Aasim . Lo conosce e per questo, Leon questo il suo nome, accetta di parlare con noi.

In Italia da poco, è di origine romena. Dichiara di avere 24 anni ma è chiaro che ne ha a malapena 18. Vive con sua madre, badante in una casa signorile dei Parioli la quale, a suo dire, è all’oscuro di quello che fa per vivere: “Non lo sa ma neanche si chiede da dove arrivino i soldi che le porto. A lei fa comodo non sapere e a me che chieda nulla”.

Gli chiediamo chi l’ha accompagnato e lui: "Uno stronzo impaccato di soldi a cui ho appena fatto un servizietto. Adesso ne arriva un altro, lo conosco è un cliente abituale. Mi porta a casa e la tariffa sale, così per oggi ho finito". Il contrasto fra le sue parole e la sua giovane età è netto ma lui sembra a suo agio in questo ruolo che la vita gli ha imposto di interpretare . Poi vede una macchina ad attenderlo, saluta e sparisce .

La gente? Finge di non vederli. Passano indifferenti e incuranti davanti a loro, come se fossero le stesse, silenziose statue di Villa Borgese. E proprio sotto ad una di esse fermiamo una coppia e Simona dichiara : “Molte volte è impossibile far finta di niente. Ma ormai qui è consuetudine vederli soli, o “all’opera” quello che rammarica è la loro giovane età” . Il ragazzo invece è più duro al riguardo: “ E’ uno schifo e non capisco come mai la polizia non faccia nulla per arginare questo degradante fenomeno” .

 

Ci spostiamo e andiamo alla fermata del tram e riusciamo a fermare qualche passeggero in perenne fretta. La risposta unanime è : “ Sappiamo che ci sono. Li vediamo ma fingiamo per pudore e per paura di pericolose conseguenze di non vedere”. La signora Veronica, ottanta anni appena compiuti, ha le idee più chiare: “ E’ da quando ero ragazza io , dai tempi del grande Pasolini che sti’ giovincelli battono a Valle Giulia e non solo. Passano gli anni ma l’esigenza di soldi facili , no. E per questi poveracci a volte, è l’unica soluzione per sopravvivere. Non mi fa piacere vedere questo degrado ma evidentemente a qualcuno sta bene così”.

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