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Corriere della Sera
16 06 2014

Una lunga teoria di corpi in vendita. La vetrina è viale Fulvio Testi, luogo storico della prostituzione milanese. Decine di donne, a pochi metri l’una dall’altra. Nella notte tra giovedì e venerdì, il traffico è intenso. ...

Il Fatto Quotidiano
09 06 2014

L’organizzazione Ecpat, che si occupa di proteggere bambini e adolescenti, sta portando avanti la sensibilizzazione anche attraverso i social network. In Brasile ogni anno 500mila minori sono vittime di abusi o sfruttamento. La nazionale azzurra, però non ha ancora aderito

di Ludovica Liuni

“Non voltarti dall’altra parte”. E’ questo il messaggio lanciato dalla campagna Don’t look away! per sensibilizzare l’opinione pubblica sul turismo sessuale in vista dei Mondiali in Brasile che prenderanno il via il prossimo 12 giugno. Questa battaglia è finanziata dall’Unione Europea e dal Sesi e nasce da un’idea della rete Ecpat, che si occupa di proteggere bambini e ragazzi dallo sfruttamento sessuale. Tra le varie azioni di sensibilizzazione portate avanti da Ecpat c’è spazio anche i social media. Il 5 giugno, infatti, giorno in cui la nazionale italiana è partita per il Brasile, #dontlookaway è diventato un hashtag che permette a fan e sostenitori di condividere una propria foto in cui viene mostrato su un foglio o sul corpo il messaggio della campagna.

Moltissimi i personaggi dello spettacolo che hanno aderito; in primis Beppe Carletti, storico leader dei Nomadi, ma anche attori come Alessandro Gassman e Claudia Gerini. I testimonial internazionali della campagna sono invece Kakà e Juninho che con un video-denuncia chiedono di non voltare le spalle al problema e di segnalare eventuali episodi di prostituzione minorile. Sebbene non si possa affermare con certezza che un evento come il Mondiale aumenti lo sfruttamento dei minori, è piuttosto alto il rischio che questo si verifichi. Le dimensioni dello sfruttamento sessuale in Brasile, inoltre, fanno crescere la necessità di una corretta sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul fenomeno. Solo nel 2011, infatti, circa 250mila minori sono stati vittime di prostituzione. Anche se i tifosi non sono un gruppo particolarmente a rischio, in determinate condizioni possono trasformarsi in “turisti sessuali occasionali”. Nel 65% dei casi, infatti, i soggetti coinvolti non sono fruitori abituali; il timore è che in Brasile l’atmosfera festosa, la mancanza di informazione e il senso di impunità derivato dall’anonimato contribuiscano a spingere alcune persone a compiere atti di questo tipo.

E i dati sono impietosi: gli italiani, insieme a tedeschi e portoghesi, sono ai primi posti tra coloro che scelgono il paese sudamericano come meta per il turismo sessuale. Solo per l’Italia, infatti, le statistiche parlano di non meno di 80mila fruitori all’anno. Il turismo sessuale è una piaga sociale di notevoli dimensioni e ogni anno muove un giro di affari intorno ai 100 miliardi di dollari. Un business che non conosce limiti; secondo uno studio del Segretariato Generale delle Nazioni unite sulla violenza nei confronti dei bambini, si stima che oltre 220 milioni di minori nel mondo abbiano subito violenze sessuale o altre forme di sfruttamento. Inoltre, nel 30% dei casi le vittime hanno un’età compresa tra i 7 e i 12 anni, il 60%, invece, ha tra i 13 e i 17 anni. E il Brasile è al secondo posto al mondo per numero di baby prostitute dopo la Cina, con circa 500mila minori coinvolte ogni anno. Nonostante gli appelli rivolti alla nazionale italiana, al momento la Fgci non ha ancora aderito alla campagna; per questo Ecpat ha deciso di chiedere alla squadra di Cesare Prandelli di partecipare con una foto di gruppo all’iniziativa, per dire ‘no’ al turismo sessuale.

 

Difficile stimare quante siano le ragazze che di anno in anno arrivano a Milano,dove vengono prese in carico dalle madam, donne che assumono il controllo della loro vita. C'è chi abita direttamente con chi ne gestisce i guadagni. ...
Per queste donne è difficile trovare un'alternativa, "sono in Italia da più di 15 ma sono illegali e non parlano italiano, dopo essere state sfruttate e segregate nel lavoro tessile". Piuttosto che tornare in Cina si ammazzerebbero, "il progetto migratorio è di natura sociale, se fallisci c'è lo stigma del villaggio di provenienza". ...

Corriere della Sera
29 05 2014

«Quanti uomini si aggiravano tra i vicoli, inquieti. Cercavano noi. Ognuno con il suo desiderio segreto, inconfessabile. Molti venivano vestiti da donna, per farsi trattare al femminile. Ce n’era uno che voleva essere il mio scolaro, io dovevo fare la maestra e fargli fare i compiti: le poesie a memoria, le operazioni di aritmetica. Gli chiedevo quanto fa 81 diviso 9 e lui rispondeva sempre 8. Le sbagliava apposta, per farsi colpire con un frustino. Ne ho viste di tutti i colori. E proprio per questo dopo tutti questi anni mi sono convinta che quella con la sessualità più normale sono proprio io». Rossella Bianchi si aggiusta i capelli biondi, vaporosi, lunghi, e ricorda il suo passato. Tremila incontri all’anno in quasi 50 anni di attività. «Il totale fallo tu, io in matematica non sono mai stata buona». Muove le mani e le dita, le unghie brillanti d’uno smalto rosso acceso, il naso ammaccato dal pugno di un marine americano negli anni Settanta e raddrizzato da un chirurgo di Parigi negli Ottanta. Il totale fa 150 mila. A 72 anni è una delle prostitute transessuali storiche di Genova e tra le più anziane di tutto il Paese.

Da lei sono passati tutti. Manager, direttori di banca, pallanuotisti «tanto belli da vedere», calciatori di serie A e B («alcuni anche famosi»), campioni di pesi massimi e militari, quando facevano scalo con le navi nel porto. Genovesi e stranieri. Spesso sposati, fidanzati o con incarichi di responsabilità. Negli anni ’70 veniva spesso un assessore comunale della Dc («ma il partito, quando si tratta di sesso, conta poco»). C’era anche qualche prete. «Uno arrivava sempre la mattina, non si toglieva nemmeno il collarino. Un altro, grande e grosso, pretendeva incontri più discreti. Mi telefonava, ed ero io ad andare da lui, in canonica. Fino a quando, un giorno, mi immobilizzò a letto e mi urlò: “Basta, mai più, tu sei Satana, la rovina, tu mi induci in tentazione!”. Mi spaventai così tanto che non ci tornai mai più». Donne? Mai («A parte quando accompagnano il marito, ovviamente»). Esercita ancora, «perché la vita costa, per farmi qualche viaggio, per potermi permettere un regalo». L’ufficio è sempre lo stesso, dal 1971. «Un indirizzo, una garanzia».

Lanterne rosse

La storia di Rossella è la storia di una parte di Genova in cui, ancora oggi, la maggior parte dei genovesi non osa mettere piede e dove i turisti, se ci capitano, lo fanno per caso. Siamo nel cuore del ghetto, dove vive la comunità trans più numerosa d’Italia. Poco lontano dalla stazione Principe e dall’Università, quattro strade che si incrociano alla De André, dove il sole non arriva mai, l’umidità si infila su per i muri e i caruggi sono un gomitolo labirintico di varia umanità.

Sopra lo stipite delle porte delle «graziose», sempre al piano terra, sono appese delle lampade rosse. Se sono accese, significa che il «negozio» è aperto. Rossella ha anche la funzione lampeggiante, («per dire che sono dentro con un cliente e stiamo cercando un terzo»).

Dentro, pochi metri quadrati supercurati («Ho una donna delle pulizie»): una collezione di oggetti erotici di varie forme e colori, il letto matrimoniale perfettamente rifatto, cinque o sei parrucche bionde e more per quei clienti che amano vestirsi da donna («io ho i miei capelli)»,un armadio pieno di gonne, scarpe e abiti «da lavoro». Alle pareti qualche ritratto di Marylin Monroe («nel 1978, a Los Angeles, andai a visitare la sua tomba. Mentre sistemavo le rose sulla sua lapide mi tremavano le mani. Era il nostro mito, negli anni Sessanta. Chi non voleva essere come lei?»). E poi le foto d’epoca («vere») di una prostituta che aveva lavorato nelle case chiuse e di cui Rossella era amica negli anni Settanta.

Le sue avventure sono ora raccontate in un libro («In via del Campo nascono i fiori», Imprimatur editore). Duecento pagine che fanno ciao con la mano a Tondelli e Pasolini, dall’eroina alle battaglie per vivere la propria identità, dal carcere alle fughe dalla polizia.

In lotta da cinquanta anni

Rossella nacque Mario, il 14 novembre 1942, in un paesino della provincia di Lucca. Quarant’anni dopo, nell’agosto 1982, con l’elettrocoagulazione e le protesi al seno, iniziò la trasformazione. Ogni decennio ha avuto la sua lotta. «Negli anni Sessanta la polizia ci dava la caccia e ci sequestrava le parrucche e gli abiti da donna, perché travestirsi era un reato lasciato in dote dal fascismo. E io in quel periodo ho fatto più notti in guardina che nel mio letto. Era dura, anche se le anziane di allora ci dicevano: ‘Sono rose e fiori per voi, a noi ci mandavano al confino nelle isole o nei manicomi’».

Si lavorava con la paura delle retate. «Me ne stavo tutto il giorno sull’uscio del mio magazzino in vico Cavigliere 19». Quando ci passiamo, Rossella fa i gradini di corsa. «Ecco, mi mettevo qui», dice, e la sua voce sembra tradire la nostalgia di quei giorni. «Guardavo da una parte e dall’altra della strada come ai semafori, aspettavo i clienti e se invece arrivava la polizia me ne tornavo dentro sbattendo la porta». Adesso lì davanti, sedute in strada su due sgabelli con i cuscini rosa, lavorano altre due trans storiche del ghetto, Lisa (Minelli) e Sandra (Milo). «Cosa credi, qui ci sono tutte le celebrities!», mi dice Rossella, a cui gli amici, quando era ancora un ragazzo, appiopparono il nome dell’eroina di «Via col Vento». «Una volta mi beccarono al bar dell’Esterina con il mio cappottino nuovo. Turchese. Buttai via i tacchi e iniziai a correre nel groviglio dei caruggi, inseguita da tre agenti. Mi raggiunsero e io istintivamente mi portai una mano al petto facendo finta di avere un attacco di cuore. Quelli si spaventarono così tanto che mi lasciarono andare».

Quando il travestitismo smise di essere reato, arrivano gli anni Settanta e l’eroina. Gli Ottanta portarono l’Aids e fu una strage. «Tra overdose, suicidi e omicidi, nessuno moriva più di morte naturale. ‘Franchina la pazza’ la trovarono impiccata da quel terrazzo – dice Rossella puntando il dito verso l’alto – Ma lo sapevano tutti che l’avevano ammazzata». E c’era anche chi, in quegli anni di buio, aveva iniziato a spararsi nel petto siringhe di cera da pavimenti calda e paraffina, «perché qualcuno aveva messo in giro la voce che fosse un buon metodo per crearsi un seno». Finirono male. Si salvarono non le più furbe, ma le più fortunate. «Nei miei album di foto di quegli anni ci sono solo morti». Negli anni Novanta l’immigrazione selvaggia ci creò non pochi problemi, con scippi e microcriminalità che in questi vicoli spaventavano i clienti. E poi i Duemila, «quando il sindaco Vincenzi provò a sbatterci fuori dalle nostre case, perché a suo dire turbavamo la morale pubblica e sociale. Ma vincemmo anche quella volta, con l’aiuto degli abitanti del quartiere e di don Gallo, che per essere più forti, ci fece riunire nell’associazione ‘Princesas’, che esiste tuttora e di cui sono presidente. Mi chiesi spesso il perché di questo accanimento contro di noi. E capii solo col tempo che i trans sono un universo a parte. Derisi dagli uomini – salvo essere usati, spesso a pagamento, per soddisfarne l’omosessualità latente -, compatiti dalle donne, che vedono in noi il disperato tentativo di essere come loro senza poterci riuscire, guardati con un misto di diffidenza, disprezzo, ma più che altro invidia dai gay».

L’amore che conta

Certo ci sono state le storie d’amore. Sempre passionali, spesso infelici («Perché in fondo noi non siamo altro che ruote di scorta, appena il gommista ripara il guasto non ci resta che rassegnarci a rientrare nel portabagagli»), alcune importanti. Cinque, sei, forse di più. («Ma non mi sono mai innamorata di un cliente»). E poi i viaggi. In Jamaica, a Guadalupe, a Singapore, in Egitto. «A volte non è stato facile», mi dice mostrandomi il passaporto con cui negli anni Ottanta a Cuba la fermarono alla dogana rispendendola in Italia, perché la foto del ragazzo in giacca e cravatta non corrispondeva alla bella donna che gli agenti si erano ritrovati di fronte.
«Con Eliseu ci siamo conosciuti nel 1991 in Brasile, dove sono stata più di 40 volte. Dopo il mio ritorno in Italia, mi raggiunse a Genova. Doveva restare per una vacanza di due settimane e invece è ancora qui. Tra poco festeggeremo le nozze d’argento». Lui, un bell’uomo alto, vicino alla cinquantina, cintura nera di karate e campione di capoeira, i capelli brizzolati e lo sguardo innamorato, la guarda, sorride, seduto accanto a lei al tavolo nella loro casa sopra le alture di Principe, con le piante di limoni e le tigri di porcellana sul terrazzo. Quando Rossella va in cucina a preparare i caffè, mi si avvicina e sventola una mano come a dire «quanto ci sarebbe da raccontare».

«Quello che direi al Papa»

«Fino a quando ho creduto di essere l’unica mente malata sulla faccia della terra, avevo pensato a come aggirare l’ostacolo: farmi prete». È finita diversamente, ma la fede è rimasta. «Sono credente – racconta Rossella – E mi piacerebbe incontrare questo papa. Con quello di prima, Ratzinger, era diverso, non mi importava. Ora invece sarei curiosa di sapere cosa pensa Francesco delle persone come me».

E dire che il rapporto con la religione non era iniziato nel migliore dei modi. «Quando ero ancora a Lucca, avrò avuto 15 anni, una volta un frate si sedette vicino a me in un cinema parrocchiale, iniziò a palparmi e mi sussurrò in un orecchio di seguirlo fuori. Mi spaventai moltissimo e corsi via». E fu sempre in quegli anni che una zia bigottona decise di portare Mario a Lourdes, per farlo guarire dalla sua ‘malattia’. «Io ero solo un ragazzino e l’idea di farmi un viaggio all’estero non mi dispiaceva affatto. Così andai. Finì che proseguii da solo per San Sebastián, in Spagna, e trovai il modo di trasformare la crisi in una festa».

Non fu l’unica volta che la famiglia, molto religiosa, tentò di fargli «cambiare idea». «Una volta mamma e papà mi portarono da un medico. Mi fece spogliare, mi osservò bene i genitali e sentenziò che ero normale». Erano altri tempi. Alla sua amica Debora andò molto peggio: «Fu ricoverata alla neuro, la imbottirono di ormoni e le fecero l’elettrochoc». «Nessuna di noi due guarì», ride ora Rossella. Molti anni dopo fu don Gallo a farle fare pace con la chiesa. «Ci fece capire che per noi trans non è obbligatoriamente indicata la direzione dell’inferno, che noi non siamo gli ultimi. Perché gli ultimi non esistono. Chissà se Francesco sarebbe della stessa opinione. Io penso di sì».

Gli ultimi 200 clienti

Oggi Rossella ha ancora 200 clienti. Gli ultimi aficionados, come li chiama lei. «Apro alle 11 e chiudo alle 19. Ormai faccio un part-time. Quando sono in ferie, in Brasile o altrove, metto un cartellino fuori, come fanno i negozi». E come fa Ursula, che ha l’«ufficio» davanti a quello di Rossella da 40 anni e quando passiamo con la telecamera da «piazza don Gallo», come si chiamerà dal prossimo 18 luglio quell’angolo tra i vicoli Fregoso ed Ombroso, ci raggiunge in bilico sui tacchi, con il suo doberman nero che le scodinzola appresso. Il seno prosperoso, l’accento campano che non ha mai perso, sorride e racconta. Negli anni Sessanta era il portiere della Salernitana e della Nazionale militare di serie B. Poi buttò via il pallone e venne a Genova. «Per tutti ero l’ex calciatore travestito e una volta per questo mi misero pure ‘n coppa a internet», spiega. A 72 anni, oggi è quasi difficile immaginarsi quando, negli anni Sessanta, riuscì a scappare dalla polizia «saltando da un tetto all’altro delle case di via Prè».

Come nei film di James Bond. Come se fossero state delinquenti comuni. «Invece eravamo solo ragazzi vestiti da donna, con le parrucche, le gonne e lo smalto sulle unghie», riprende Rossella. «Ed è strano, perché se oggi dovessi isolare uno dei periodi più felici della mia vita, penserei proprio a quegli anni. Alle fughe, alla paura di essere arrestate, a quando tornavamo a casa dopo una notte al Marassi, con la barba che aveva avuto la meglio sul fondotinta e la gente che ci guardava male sugli autobus. Allora non me ne rendevo conto. Ma quella libertà di vivere la mia vita esattamente come volevo, che mi ero presa dalla mia famiglia e dalla società, è proprio quello che mi fa dire che sì, oggi sono contenta di aver vissuto come ho vissuto, e non ho nessun rimpianto».

Federica Seneghini

 

 

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