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Tor Sapienza, un anno dopo . "Così si evitano le rivolte"

  • Venerdì, 23 Ottobre 2015 09:29 ,
  • Pubblicato in Flash news
Avvenire
23 10 2015

Tor Sapienza un anno dopo. Informare e coinvolgere i cittadini, invece di imporre decisioni, è l'unica via per prevenire incomprensioni, intolleranze, strumentalizzazioni degli spacciatori di paura. Banalità buoniste? Facili utopie ? No. A individuare la ricetta per gestire territori e problematiche sociali è uno studio del Dipartimento di scienze sociali ed economiche della Sapienza, in collaborazione con l'Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo: un focusgroup di abitanti del quartiere periferico si divide tra favorevoli e contrari, ma dopo un'informazione corretta, che scioglie paure e pregiudizi, in molti cambiano idea. ...

Luca Liverani

Internazionale
25 09 2015

Il guaio è se lo scopre Donald Trump. L’anno prossimo, mentre le elezioni degli Stati Uniti diffonderanno la loro luce sull’occidente, compirà cent’anni un libro che ha influito come pochi altri sulla vita di quel paese, e che in molti poi hanno voluto dimenticare.

Il suo autore, Madison Grant, era nato nel 1865 a New York, in una di quelle famiglie che si ritenevano patrizie perché erano sbarcate qui nel seicento, quando bisognava essere molto poveri per voler emigrare su quest’isolotto selvaggio.

Grant studiò giurisprudenza a Yale e alla Columbia, non esercitò la professione di avvocato perché non ne aveva bisogno e si dedicò soprattutto alla caccia grossa. Nel 1916, ormai cinquantenne, pubblicò la sua opera magna: si chiamava The passing of the great race, la caduta della grande razza, e fu un successo.

La grande razza era ovviamente quella bianca e il libro lamentava la sua presunta decadenza. Per spiegarla cominciava classificando i “caucasoidi”, di gran lunga superiori ai “negroidi” e ai “mongoloidi”, in tre tipologie. I “nordici” erano i migliori, poi venivano gli “alpini” e infine, come una piaga viziosa, pigra e stupida, i “mediterranei”: greci, italiani e spagnoli.

Da cui la sua tesi centrale: l’immigrazione indiscriminata di questi esseri inferiori stava distruggendo l’America, e i bruti si riproducevano così tanto che la loro carica genetica stava rovinando il nordico popolo americano. Era una vergogna, diceva Grant, che i suoi compatrioti “volessero vivere una vita facile e agiata per una manciata di generazioni” importando quella manodopera a basso prezzo che avrebbe spazzato via la loro razza.

L’America stava crollando, ma Grant le offriva delle soluzioni: per i casi più estremi di degradazione proponeva “un rigido sistema di selezione attraverso l’eliminazione dei deboli e dei disabili” – in altre parole, dei fallimenti sociali – “che nel giro di cent’anni ci consentirà di disfarci degli indesiderabili che riempiono le nostre carceri, i nostri ospedali e i nostri manicomi”.

Non era neanche necessario ucciderli, diceva: bastava sterilizzarli. “È una soluzione pratica, misericordiosa e inevitabile che può essere applicata a una cerchia crescente di rifiuti sociali, a cominciare dai criminali, dai malati e dai pazzi per poi essere estesa gradualmente ai tipi che potremmo chiamare non più difettosi ma deboli, e infine alle tipologie razziali inutili”.

L’eugenetica era una corrente molto forte, e The passing of the great race fu la sua bandiera. Il suo discorso funzionò: pochi anni dopo la corte suprema degli Stati Uniti dichiarò che la sterilizzazione dei “deboli di mente” non violava la costituzione. Nei dieci anni successivi furono sterilizzate 60mila donne.

L’ammirazione di Adolf Hitler
Fu uno dei successi di Grant e dei suoi. Ma il più grande arrivò quando la sua insistenza riuscì a mettere fine all’immigrazione che aveva creato il suo paese. L’Inmigration act promulgato nel 1924 da un governo repubblicano stabilì delle quote che limitavano l’arrivo di italiani, polacchi, cinesi, giapponesi ed ebrei e chiuse la prima grande ondata migratoria americana.

Di tanto in tanto qualcuno ristampa The passing of the great race, anche se i suoi editori non osano mettere in copertina l’opinione di Adolf Hitler: “Questo libro è la mia Bibbia”.

Dette così, a grandi linee, le sue idee possono sembrare intollerabili o ridicole. All’epoca erano considerate scientifiche ed ebbero effetti importanti: ricordarle serve a domandarci quali delle idee che oggi prendiamo sul serio sembreranno ridicole o inaccettabili tra poche decine di anni. Ma dietro la parvenza di correttezza politica, i suoi concetti rispuntano per ogni barcone nel Mediterraneo, in ogni Trump che grida, in molte conversazioni da bar.

Madison Grant morì nel 1937. Il suo libro era studiato, le sue idee erano influenti, i suoi discepoli aumentavano. Ossessionato dalla conservazione della natura, Grant aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita all’ambiente, e si fece notare anche in quel campo: sembra che si debba a lui la sopravvivenza del bisonte e di altre grandi bestie minacciate dall’uomo.

Martín Caparrós

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Corriere della Sera
25 09 2015

L’uomo è seduto sulla sua sedia a rotelle. Un poliziotto si avvicina e gli urla di deporre la pistola. Si sente un sparo. Il poliziotto e un collega lo raggiungono. Lui si muove, si i tocca i jeans, prova a sollevare il bacino. E viene colpito da una scarica di pallottole. Si accascia, morto. È lo sconvolgente video girato da un passante che ha assistito alla sparatoria di Wilmington, nello stato americano del Delaware. Secondo le sequenze, Jeremy McDole, 28enne disabile nero, è stato freddato dalle forze dell’ordine.

Il filmato amatoriale
Il filmato amatoriale, in cui non si vede alcuna pistola riconducibile a McDole, è attualmente nelle mani degli investigatori che ne stanno esaminando la veridicità. La polizia sostiene che mercoledì 24, il giorno della sparatoria, una calibro 38 è stato trovata al fianco della sedia a rotelle. La famiglia di McDole, paralizzato dalla vita in giù da 10 anni dopo essere stato colpito da uno sparo accidentale di un amico con cui stava fumando marijuana, non è di questo avviso: «È stata un’esecuzione», ha detto lo zio di McDole Eugene Smith all’Ap. Smith ha affermato di essere stato con il nipote fino a un quarto d’ora prima della sparatoria e di non aver visto alcuna pistola.

La madre cerca risposte
La madre del 28enne, Phyllis McDole, ha interrotto la conferenza stampa della polizia per chiedere «risposte» appellandosi al video amatoriale: «C’è un video che dimostra che non ha tirato fuori un’arma». Il capo della polizia di Wilmington Bobby Cummings e il sindaco Dennis Williams hanno assicurato «sarà condotta un’indagine approfondita e trasparente».

I parlamentari hanno diritto di rivolgere insulti razzisti a singoli o a interi gruppi? Hanno diritto a non essere oggetto di nessun tipo di censura, anche quando utilizzano un linguaggio che suscita disprezzo e odio nei confronti di altri, spesso non in grado di difendersi?
Chiara Saraceno, la Repubblica ...

Immigrazione, i mille volti dell'Italia razzista

  • Lunedì, 14 Settembre 2015 13:45 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

L’Espresso
14 09 2015

Un parroco può perdere il controllo delle parole? Quando a Tirrenia, tremila abitanti inzuppati dal mare alle porte di Pisa, vedono qualche rom in giro, una mano femminile preoccupata scrive a padre Marcello. Sulla pagina Internet da cui il prete comunica con i fedeli, la donna gli confessa di avere paura per sé e per i bimbi. E lui, padre Marcello, il parroco di San Francesco arrivato anni fa dalla Romania, risponde ad altezza d’uomo: «Avete un fiammifero?». «Per la benzina», aggiunge a quel punto un’altra parrocchiana, «offro io». No, non è razzismo, dirà il sacerdote quando la notizia esce su “La Nazione”: «Ho scritto quel post perché nella nostra chiesa mancano i fiammiferi nei candelieri e anche per invitare a stare attenti i miei parrocchiani a non aggiungere benzina sul fuoco. Ognuno», sostiene padre Marcello sul quotidiano toscano, «capisce quello che vuole». Appunto. «Gli italiani no, non sono razzisti...», butta lì Joseph Giuseppe Alabi, 59 anni, diploma da ragioniere e contratto a termine da aiuto cuoco. Joseph Giuseppe, africano del Togo, ti guarda con il sorriso simpatico in attesa di una reazione alla sua provocazione. E si corregge, sicuro dei venticinque anni da immigrato passati a lavorare nelle cucine da Roma a Padova: «Il razzismo è come la mafia: non si vede, ma è dappertutto».

Ecco l’Italia. Quella delle battute imprudenti, al massimo si fa sempre in tempo a correggerle. E quella dell’intolleranza militante, invisibile ma violenta nelle parole e da qualche mese anche nei fatti. In poco più di un anno, nove fra centri profughi e future strutture di accoglienza sono stati danneggiati o distrutti da attentati incendiari: dalla baita bruciata sulle montagne del Trentino all’auto in fiamme lanciata contro l’ex caserma Gasparro, nel rione Bisconte a Messina. In mezzo ai due estremi, una massa di italiani, cittadini, elettori ha cambiato idea e si riconosce oggi nell’identikit: «Non sono razzista, ma...». Un ripensamento, proprio quando i tedeschi e il loro governo sorprendono l’Europa e aprono i confini agli esuli, selezionando a modo loro la solidarietà: «Solo siriani, danke». Mentre da noi, al contrario, sta evaporando l’umanità che dal 3 ottobre 2013, giorno dei 366 profughi annegati a Lampedusa, aveva fornito consenso all’accoglienza.
VEDI ANCHE:
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Da Perugia a Molfetta, chi accoglie i migranti

A dire "welcome" non sono soltanto i cittadini tedeschi, ma anche tanti italiani. Che da Nord a Sud contribuiscono come possono ad aiutare chi è appena arrivato

Nemmeno la foto simbolo del corpicino di Aylan al-Kurdi, il bimbo siriano di tre anni annegato durante la traversata dalla Turchia alla Grecia, sembra aver scalfito il cuore. Forse perché è una storia apparentemente lontana. Nelle ultime ore in cui il bambino scappato da Kobane era ancora vivo, molte redazioni dei giornali e dei telegiornali italiani decidevano di non pubblicare le foto di altri piccoli siriani ritrovati pochi giorni prima a faccia in giù sulla spiaggia di Zuwara, in Libia lungo la rotta per la Sicilia, molto più vicino a noi. Ma poi eccoli tutti a rincorrere la storia di Aylan, dopo la pubblicazione sui quotidiani inglesi. Stessi profughi, stessa tragedia, due misure.

Forse troppo dolore disturba gli italiani. È anche colpa dei numeri epocali dell’esodo: come spiegano i sociologi, non si può fingere che una pressione migratoria così massiccia, e per ora senza sosta, non provochi una reazione sociale. Ma non è questo l’unico fattore a risvegliare la xenofobia. Il governo e alcune sue prefetture nella loro azione dimostrano di muoversi senza piani condivisi, con provvedimenti dettati più dalla disperazione. Come la caccia, in questi giorni, del ministero dell’Interno a ulteriori ventimila posti letto da allestire a pagamento ovunque: case sfitte, hotel in crisi, capannoni, tendopoli. È giusto che quanti richiedono asilo ricevano la dovuta assistenza. Questo tra l’altro elimina il rischio, tra coloro che hanno perso tutto, di dover commettere reati per sopravvivere. Fra due, tre, cinque anni, però, cosa succederà? Senza una vera ripresa economica, per quanto tempo saremo in grado di garantire oltre settantamila pasti tre volte al giorno a un numero crescente di disoccupati stranieri senza nessun futuro?

Non dobbiamo meravigliarci se nei prossimi mesi, in contrapposizione ai cortei di leghisti, xenofobi e neofascisti, vedremo manifestare anche richiedenti asilo che non hanno più nulla da perdere. Come è accaduto nei giorni scorsi a Bresso, a Nord di Milano. Le condizioni del cibo sono spesso solo il pretesto. Insomma, una bomba sociale pericolosamente innescata.

È questo il tappeto altamente infiammabile su cui cresce il popolo dei “non sono razzista, ma”. Dove si incontrano? La pagina ufficiale di Matteo Salvini, europarlamentare e segretario della Lega Nord, è una delle piazze più affollate. L’abbiamo osservata come termometro di una nuova borghesia arrabbiata che non ha remore a esporsi su Facebook con foto, nome, cognome, professione, minacce o insulti. A questo punto bisogna avvertirvi che i lettori minorenni, come si usa per i film in tv, andrebbero accompagnati. Il linguaggio di una certa frangia politica è ormai da bollino rosso. Ma è proprio qui, su Internet, al di fuori del galateo, della decenza e a volte del codice penale, che viaggia il nuovo consenso.

Abbiamo escluso dalla ricerca i giorni con fatti di cronaca gravi: lì è ormai scontato raccogliere manifestazioni di odio contro tutti gli immigrati. Eccoli invece in giornate qualunque. Li provoca Salvini, dopo la protesta dei richiedenti asilo a Bresso: «Vogliono i documenti? Col cacchio. Sono ospiti a spese nostre e rompono pure i coglioni». È sempre la sua pagina ufficiale: in appena cinque ore raccoglie 26.460 “piace” e 2.967 condivisioni. Rispondono subito in centinaia con i loro commenti.

Ecco Teresa Luglini, viso pacifico, sorriso e occhiali da Reggio Emilia: «Li hanno accolti spalancando braccia e gambe? Bene. Tutti questi a casa di coloro che hanno aperto il culo». Bruno Collerio, impiegato di Milano, foto con moglie e figlia il giorno della laurea e gli auguri a Mussolini per il compleanno del Duce: «Salvini, fa qualcosa, questi si riforniscono di armi e per noi italiani è una strage». Carmine Cioffi: «Ammazzateli di botte e mandateli a casa loro». Andrea Riviero: «A casa ingrati parassiti». Alberto Lodi Rizzini, comandante dei vigili urbani in provincia di Mantova, ora in pensione: «Ributtiamoli tutti in mare». Michele Lecchini, imprenditore toscano: «Questi ci ammazzano tutti». Matteo Lancia, tifoso della Lazio: «Olio di ricino a tutti questi». Mauro Calogero, manager in una tv satellitare, fa un comizio: «Gli europei sono naufragati nel meticciato, sommersi da orde di immigrati afro-asiatici. La piaga dei matrimoni misti produce ogni anno migliaia di nuovi individui di razza mista... l’integrazione equivale a un genocidio».

Insulti che nessuno rimuove anche per la presidente della Camera, Laura Boldrini: «Presidente più inutile della Storia», lancia Salvini. «Vorrei vedere se la Baldracca camminerebbe senza scorta di sera o di notte per strada e si trova davanti un branco di clandestini cosa farebbe», commenta nel suo italiano Brenda Wolsh, pseudonimo di una fan che nei messaggi si presenta poi come una ragazza di 19 anni di Caserta, Daiana F., con lavoro precario come colf. «Io vi ho chiesto di specificare se l’orgia vede solo la Boldrini come donna...», insiste Niccolò Re, 29 anni, giornalista ligure, replicando ad altri commenti: «Io ne facevo un problema terminologico. Orgia con una donna è gang-bang...».

Ce n’è anche per il premier, dopo il duplice omicidio di Catania per il quale è stato arrestato un richiedente asilo della Costa d’Avorio: «Renzi maledetto. Le bestie clandestine uccidono, violentano le donne, rapinano, rubano e tu, persona inutile, ostenti menefreghismo. Ti auguro che questi animali penetrino in casa tua di notte dalla tua famiglia...». È il livello del dibattito sulla pagina ufficiale del nuovo leader della Lega, un milione e 83 mila frequentatori abituali, più di Renzi e di Silvio Berlusconi. Quando vuole Salvini interviene: ma solo se gli danno del fascista o deridono i suoi sostenitori. Nel frattempo gli insulti ai profughi che protestano a Bresso guadagnano ancora consenso: in meno di 48 ore totalizzano 22.406 “piace”, 37.440 condivisioni, addirittura 7.030 commenti.

La differenza con i gruppi neonazisti tedeschi è che la Lega è stata un partito di governo e al governo ci vuole tornare. Allora immaginate cosa accadrebbe in Germania se un leader politico con un incarico istituzionale lasciasse sul suo sito un osanna a Hitler. In Italia niente. Questa è la vetrina ufficiale su Facebook di Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e presidente leghista della Regione Lombardia. «Hitler dove sei?», scrive sulla pagina Giancarlo Spinelli, che si presenta come chimico nucleare di Gorgonzola, provincia di Milano. E sempre lui: «Duce come ti rimpiango». Rosetta Maiorino sugli stranieri che protestano: «Sparargli e fuori dai coglioni». Paolo Mantovani: «Ma quando andiamo a legnare cazzo».

C’è perfino la foto dell’ex ministro Kyenge con la scritta “Sono italiana anch’io” e sotto: «No, tu hai semplicemente rotto i coglioni», regalo inviato al governatore da Giovanni Dragotto di Cinisello Balsamo. Non si risparmia nemmeno l’ex assessore lombardo Davide Boni, messo in panchina dalla Lega in attesa che gli elettori dimentichino la bufera sulle spese pazze in Regione. Il 23 agosto tra la Libia e l’Italia affonda l’ennesimo barcone, 20 cadaveri recuperati, 170 dispersi. Nelle stesse ore Boni, attualmente amministratore delegato di una società di consulenze fiscali, pubblica su Facebook il fotomontaggio di un pescecane che si mangia un gommone carico di profughi africani. E la didascalia: «Nel Mare nostrum arrivano solo meduse tropicali, squali no?». Quella stessa mattina critica anche l’arrivo di quarantacinque profughi in un hotel a Mantova. E un fan aggiunge: «Spero che gli brucino l’albergo». Giocano con il fuoco. E non solo.

Massimiliano Bordignon, giornalista di Milano e qualche anno da emigrante a Toronto in Canada, il giorno della manifestazione a Bresso scrive la sua su come i profughi che protestano andrebbero trattati: «Ragazzi, qui bisogna organizzarsi e scendere in piazza. Bloccare questa gentaglia e fare capire alla polizia che non ci difende che sappiamo difenderci da soli». Difendersi da soli, in che modo? «Il mio appello era rivolto alla gente perché possa tornare consapevole e mobilitarsi di fronte al crimine, da qualsiasi parte venga, mentre uno Stato sempre più assente si limita al contenimento dei danni», spiega serio a “l’Espresso” Bordignon: «Lo dimostra l’azione nei confronti dei black bloc durante l’inaugurazione di Expo. Le persone devono poter pesare maggiormente sulle scelte politiche. La piazza deve tornare a essere il punto d’incontro di chi, senza restare chiuso in casa, abbia voglia di dire no senza farsi strumentalizzare».

Stessa agitazione per Antonio Ciraci, 50 anni, imprenditore in Lombardia: «Inizia una nuova stagione calda. Con l’apertura delle scuole ricordatevi di aumentare la sicurezza dei bambini e delle mogli a casa», scrive sarcastico qualche settimana fa: «L’aumento degli ormoni nei profughi, il cibo scadente somministratogli, le suite malandate, la garanzia scaduta sugli iPhone causerà troppo disagio e qualcuno di loro potrà manifestare la sindrome del macete. Si raccomanda di munirsi di porto d’armi e armi leggere. In bocca al lupo». Ma siamo davvero così in pericolo? «Le armi non sono la soluzione a questa situazione», risponde a “l’Espresso” l’imprenditore: «Penso però che prossimamente queste persone siano in grado di aggredirci a un semplice comando di qualche imam. Condivido l’uso delle armi a scopo difensivo, non offensivo. I bambini sono stati ripetutamente usati allo scopo di inculcare la commiserazione dei cosiddetti profughi». I bambini spesso muoiono. «Converrà con me», dice Antonio Ciraci, «che i rifugiati che stanno attraversando l’Ungheria sono ben diversi dai rifugiati in Italia».

Non è vero. Ma qualche preoccupazione sull’altissimo numero di stranieri che non hanno ottenuto asilo è fondata. La loro percentuale sul totale delle persone sbarcate è passata dal 29 per cento del 2013 al 50 per cento attuale. L’aumento dei respingimenti è legato all’arrivo di un maggior numero di cittadini africani da Paesi devastati dalla crisi economica permanente, ma non da guerre o dittature ufficialmente riconosciute dalle commissioni di valutazione. Sono ragazzi giovanissimi e costituiscono quella generazione con scarsa preparazione scolastica e nessuna formazione professionale che la Germania, la Francia, la Svezia rifiutano.

Significa così che la metà di quanti sono sbarcati negli ultimi mesi e continuano a sbarcare non riceverà nessun documento, se non il foglio di via: il ministero dell’Interno stima che, concluso il ciclo dei ricorsi ai tribunali amministrativi e al Consiglio di Stato da parte dei respinti, già quest’anno trentacinquemila persone ospitate tra il 2013 e il 2014 diventeranno clandestine. Mantenendo queste percentuali, a loro si aggiungerà la metà degli oltre centomila richiedenti asilo sbarcati quest’anno e così via. Scenario reso ancor più incerto dai numeri ereditati dalla precedente “Emergenza Nord Africa” e dai permessi di soggiorno nel frattempo scaduti e mai più rinnovati: oltre 262mila nel 2011, 166mila nel 2012, 145mila nel 2013 secondo l’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali istituito dalla Presidenza del Consiglio, che nell’ultimo rapporto annuale ammette: «Non è dato sapere, tra gli immigrati non comunitari i cui permessi di soggiorno sono scaduti senza essere rinnovati, quanti si siano trattenuti in Italia».

Eppure nei Paesi da cui proviene o transita gran parte dei richiedenti asilo africani, come Gambia, Mali e Niger, l’Italia non ha nemmeno un ambasciatore che la rappresenti. E senza rapporti internazionali è impensabile tentare di rallentare le partenze, formare i futuri immigrati, rimpatriare chi non ha diritto all’asilo. Il piano, che in questi giorni ci viene chiesto anche dalla Commissione europea per poter accedere allo smistamento dei profughi tra gli Stati membri, semplicemente non esiste.

Torniamo in Veneto. Fabio Brasiliani, portavoce del comitato contro i profughi a Due Carrare, venti chilometri da Padova, annuncia che due africani arrivati in paese sono stati trovati positivi all’epatite B. Mostra perfino il referto medico di uno dei due, un ragazzo di 20 anni, che soltanto lui sa come ha avuto in violazione di ogni norma sulla privacy. Brasiliani però dimentica di spiegare che, come i due profughi, almeno 75 mila venetissimi concittadini sono portatori cronici della stessa forma di epatite: secondo le pubblicazioni dell’Istituto superiore di sanità, l’incidenza nella popolazione italiana è infatti dell’1,5 per cento. Lo scopo è tenere alta la tensione. Ricordate il muro di via Anelli a Padova? Quella barriera di ferro fatta costruire nel 2006 dall’allora sindaco di centrosinistra Flavio Zanonato per separare il quartiere degli immigrati dalle villette a schiera dei veneti.
Via Anelli, il quartiere fantasma di Padova

Sgomberarono tutti i palazzi per cacciare gli spacciatori, anche se alcuni stranieri erano proprietari della loro casa. Partito Zanonato, promosso ministro, in città ha vinto la Lega. Ma quei condomini dopo quasi dieci anni sono ancora vuoti: cento appartamenti abbandonati, diventati covo di ratti, piccioni e zanzare. «Chiamiamo, chiamiamo in Comune, ma non vengono più nemmeno a tagliare l’erba», protestano Gianni Borille e Pietro Minin, pensionati. E la casa agli italiani? Solo uno slogan.

Joseph Giuseppe, l’aiuto cuoco del Togo da venticinque anni in Italia, se ne sta seduto su una panchina del Giardino Cavalleggeri, centro di Padova. È il suo giorno libero. Osserva due ragazze e tre ragazzi nigeriani, giovanissimi, arrivati da poche settimane. Loro dormono nella caserma Prandina, qui accanto, trasformata in centro d’accoglienza. Si fotografano a turno con il telefonino e caricano gli scatti su Facebook, così gli amici in Nigeria vedranno dove sono arrivati. Risaltano le Nike nuovissime ai piedi di uno di loro. «È una vergogna per l’Europa e per l’Africa. Guarda questi ragazzi», dice Joseph: «Partono senza saper fare un lavoro. Si preoccupano di avere un paio di Nike, il telefonino. Ma nessuno sa, nemmeno loro, cosa faranno tra un anno. Intanto mettono le foto su Facebook, dicono che si sta bene e anche i loro amici partono. Quelli che arrivano dai Paesi dove non ci sono guerre vanno fermati e, se possibile, rimandati indietro. Nessuno di loro da qui racconterà agli amici che hanno lasciato la sofferenza in Africa per venire a soffrire in Europa».

Per caso, le piace Salvini? «No, per niente. Con lui si sa da dove si comincia, non dove si finisce. È un coltello a due lame. Ma i governi europei devono fare pressioni sui governi africani per fermare l’emigrazione, prima che sia troppo tardi». Stasera Salvini incontra i leghisti vicino a Padova, le va di andarlo a sentire? «No, se succede qualcosa a lui finisce che mi denunciano e perdo il permesso di lavoro». Ma perché? Andiamo insieme. «Perché sono nero e ho paura».

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