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"Renzi ricatta una generazione di docenti"

buona-scuolaManuela, Angela e Elena. Tre donne decise a non cedere al ricatto. Come decine di migliaia di altri docenti precari nella scuola, il governo Renzi le sta trattando come pacchi che possono essere spostati da una parte all'altra del paese, senza una vita né relazioni. 
Roberto Ciccarelli, Il Manifesto ...

Il "risiko" dei trasferimenti nella "buona scuola" di Renzi

  • Venerdì, 31 Luglio 2015 12:44 ,
  • Pubblicato in La Denuncia
Renzi e la buona scuolaRoberto Ciccarelli, Il Manifesto
29 luglio 2015

Sono iniziate le procedure per l'assunzione dei precari della scuola. Dureranno fino alle 14 del 14 agosto. Da ieri i docenti candidati ai 102.734 posti messi a bando dovranno caricare un modulo sul sito del Ministero dell'Istruzione per partecipare alle cosidette "fasi B e C" della "buona scuola". ...

Finanziatori unitevi per la scuola

Internazionale
31 07 2015

Ha già superato otto milioni di firme la petizione #UpForSchool. Lanciata da grandi organizzazioni educative non governative come A world at school e Plan internacional, è sostenuta da Gordon Brown, inviato speciale dell’Onu per l’educazione. Il risultato della raccolta di firme è stato annunziato durante la conferenza internazionale Educazione per lo sviluppo, ospitata a Oslo dal governo della Norvegia. La petizione è molto semplice: “Noi, giovani, insegnanti, genitori, cittadine e cittadini di tutti i paesi ci rivolgiamo ai nostri governanti perché mantengano la promessa, da loro fatta all’Onu nel 2000, di assicurare entro il 2015 a ogni bambino e bambina di andare a scuola e realizzare il suo diritto all’educazione superando gli ostacoli che impediscono di sprigionare attraverso la scuola il suo potenziale”.

L’obiettivo è lontano. Børge Brende, ministro degli esteri, ha annunziato che la Norvegia raddoppierà la somma destinata alle scuole di paesi poveri. Ma tra il 2010 e il 2015 i fondi degli altri stati sono diminuiti. Oslo propone di creare una commissione internazionale presieduta da Gordon Brown per reperire fondi ordinari e, distinti da questi, fondi per le emergenze straordinarie che oggi vivono Nepal, profughi siriani, paesi centroafricani. Spendiamo per difesa, cibo, salute, ma quasi niente in istruzione. La Norvegia ha ottenuto un summit dell’Onu in settembre per correggere questa cecità grave oggi e per il futuro di milioni di bambine e bambini.

Tullio De Mauro

ICI e Chiesa, lo scandalo della "legge uguale per tutti"

  • Giovedì, 30 Luglio 2015 09:43 ,
  • Pubblicato in Flash news

MicroMega
30 07 2015

La normalità talvolta desta interesse, scalpore e persino indignazione. Si parla ancora una volta di tasse, uno dei temi più dibattuti e controversi della storia della Repubblica italiana, in un avvenimento che alcuni hanno già definito storico: la quinta sezione civile della Suprema Corte di Cassazione, il 20 maggio scorso, ha riconosciuto legittima la richiesta di pagamento dell’ICI dal 2004 al 2009 da parte di due istituti scolastici religiosi al comune di Livorno, condannandoli al pagamento degli arretrati di circa 420.000 euro.

Per la prima volta in Italia due sentenze della Cassazione intervengono a chiarire definitivamente la questione a lungo dibattuta, nonostante la Corte fosse già intervenuta più volte con svariate sentenze (n. 5485 del 2008, n. 27165 del 2011, n. 4502 del 2012), dichiarando nella n.16612 del 2008 che «per integrare il fine di lucro è sufficiente l’idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio; né ad escludere tale finalità è sufficiente la qualità di congregazione religiosa dell’ente».

Le imposte vengono quindi applicate agli immobili, e non al progetto educativo. Nessuno vieta alle istituzioni religiose o ad altri enti di aprire e gestire scuole paritarie di ogni ordine e grado, ma la Cassazione ricorda che il fatto stesso di pagare una retta assoggetta gli istituti a una attività di carattere commerciale, «senza che a ciò osti la gestione in perdita», ribadendo anche che l'esenzione è «limitata all'ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione e di culto». La Chiesa Cattolica non svolge in questo caso attività in forma gratuita, ma offre un servizio a pagamento, nulla di più evidente.

Sembrerebbe tutto risolto dunque, e invece le novità sono nate proprio in questi giorni. Il Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, colei che dovrebbe avere più a cuore le sorti della scuola pubblica italiana, appena preso atto del verdetto interviene affermando che «forse c'è una riflessione da fare», ricordando che in regioni come il Veneto, senza paritarie, Stato e Regione «si troverebbero in enormi difficoltà economiche e strutturali».

C’è chi ancora si sta domandando cosa voglia dire il suo invito a una riflessione, tentando di decifrare i criptici messaggi di un ministro dal quale ci si auspicherebbe un accoglimento di buon grado di una decisione così importante per la tutela di principi quali l’eguaglianza e la giustizia sociale.

Ancora più curioso il suo secondo pensiero che delegittima gravemente il ruolo delle istituzioni pubbliche del Veneto, trasmettendo tra le righe il messaggio che, tutto sommato, bisognerebbe ringraziare gli istituti religiosi per aver sopperito a una lacuna scolastica del territorio. Siamo tutti più sollevati dopo tutte queste rassicuranti dichiarazioni, volte ad esprimere con estrema chiarezza l’importanza della scuola pubblica “subappaltata” alle istituzioni religiose per questioni economiche. Emerge una certa incoerenza in quanto espresso fin ora, a cominciare dalla discrasia tra il ruolo istituzionale ricoperto da Stefania Giannini e le sue affermazioni.

Ovviamente non poteva mancare la reazione del segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana Nunzio Galantino, secondo il quale «bisogna fare informazione corretta e ricordare che non sono solo cattoliche le scuole paritarie. [...] È pericolosa (la sentenza n.d.r.) perché mette in condizione le scuole di non poter assolvere al loro compito di formazione». Occorre fare chiarezza su alcune inesattezze appena riportate: è vero che non tutte le scuole paritarie sono religiose, ma dati alla mano, è altrettanto vero che il 63% degli istituti dell’infanzia lo sono, come riporta l'Ansa in un suo grafico.

La percentuale delle cattoliche cala poi nei gradi di istruzione più alti per attestarsi al 40% nelle scuole superiori.

Lo stesso segretario della Cei ha affermato che “tutti coloro che gestiscono scuole pubbliche paritarie, ripeto pubbliche, secondo la legge Berlinguer, si rendano conto di che cosa sta accadendo in questo periodo”. Non solo Galatino denota una scarsa e approssimativa conoscenza dei principi legislativi di base della legge 62/2000 cosiddetta “legge Berlinguer”, fortemente voluta dal governo D’Alema bis e dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, ma anche una grossolana imprecisione equiparando le scuole paritarie, definite dall’articolo 1 come “scuole paritarie private”. Tali scuole infatti accolgono solamente chi accetta il loro progetto educativo, non configurandosi come un servizio pubblico il quale non può di certo permettersi il privilegio di selezionare indirettamente i futuri studenti.

A far sentire la sua voce è stato anche il sottosegretario del Miur Gabriele Toccafondi (Ncd), affermando: «Molte aumenteranno le rette o chiuderanno. [...] L'Imu le scuole pubbliche statali non la pagano ed è giusto che lo stesso valga anche per le scuole pubbliche non statali».

Il caso vuole che né lui né il segretario della Cei siano intervenuti l'11 aprile 2012 quando l’Uaar denunciò pubblicamente la disparità di trattamento tra le scuole paritarie laiche e quelle cattoliche, le prime obbligate al pagamento dell’IMU, le seconde del tutto esonerate.

Già tre anni fa il presidente dell’associazione nazionale Istituti non statali di educazione ed istruzione, Luigi Sepiacci, fece notare che «se il governo vuol fare un favore alle scuole cattoliche lo dica chiaro e tondo», aggiungendo anche che «la Corte di Cassazione ha stabilito che l’attività scolastica, ancorché senza scopo di lucro, se svolta dietro corrispettivo, è un’attività commerciale». Ebbene sì: la Corte si era già espressa, ma politici e rappresentati delle istituzioni religiose hanno spesso la memoria corta.

La levata di scudi ha coinvolto i principali esponenti di gran parte dei partiti, a cominciare dall’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini (FI), che ha addirittura affermato che «si tratta di un esagerato egualitarismo», fino ad arrivare al consiglio della Regione Lombardia, che in una nota informativa sul sito, dichiara di «intervenire eventualmente con misure ad hoc per le scuole religiose paritarie del sistema lombardo e scongiurarne la chiusura».

C’è poi un altro tema: quello del fantomatico risparmio di sei miliardi di euro per lo Stato grazie all’esistenza delle scuole paritarie. La cifra è il risultato della moltiplicazione del milione di studenti che frequenta oggi le scuole paritarie al costo medio di seimila euro l’anno che costa ogni alunno agli istituti pubblici. Ma secondo la Fondazione Agnelli non è così: in un dettagliato resoconto, emergono i dati concreti relativi a questa “bufala ecclesiastica”.

Una delle poche voci fuori dal coro che emergono da questo clamore mediatico e politico è quella dell’ex direttore della Scuola Normale di Pisa, Salvatore Settis, che, intervistato dal Corriere della Sera, esulta esclamando: «È la vittoria della Costituzione sull’interpretazione dei politici». Già nel 2013 fu uno dei firmatari di un appello contro i finanziamenti alla scuola privata ispirato alla Costituzione, ribadendo fermamente la sua posizione alla luce della nuova sentenza della Cassazione. L’ex direttore afferma inoltre che il «verdetto fa scalpore perché è in controtendenza con quello che fanno i governi, compresi quelli di centrosinistra. La Costituzione all’articolo 33 parla di scuola pubblica e aggiunge che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione ma “senza oneri per lo Stato”. Invece, negli ultimi anni non è stato così».

Il monito che emerge nelle dichiarazioni di Settis è che, viste le recenti modifiche della Carta Costituzionale, ci sia il rischio che il governo si intrometta nel delicato articolo 33 al fine di “americanizzare” la scuola pubblica. Negli Stati Uniti d’America infatti è ben noto l’altissimo livello formativo di gran parte delle scuole private, ma è altrettanto famoso e tristemente noto il livello di degrado della scuola pubblica, con il risultato di essersi creata nei decenni una forte disparità tra coloro che si possono permettere un’istruzione di alto livello e chi invece non possiede disponibilità tali da garantire ai propri figli un insegnamento adeguato. Se tutto ciò dovesse lentamente accadere in Italia sarebbe un grave danno alla scuola pubblica italiana, sottolinea Settis, nonché una grave violazione dei principi costituzionali.

Ad aggravare il quadro generale e a delegittimare il ruolo della più importante Corte nell’ordinamento italiano, quella di Cassazione per l’appunto, interviene anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti (Pd), economista e professore universitario di economia politica presso la Facoltà di Economia dell'Università di Roma La Sapienza, che per conto del Governo afferma: “Le paritarie non pagheranno”.

Emerge dunque che il governo abbia l’intenzione di introdurre una norma “salva paritarie” per eludere l’ultima emblematica sentenza della Cassazione che ha tanto indignato la CEI in questi giorni. Un provvedimento che nasce con l’annuncio dell’avvio di un “tavolo di confronto” per arrivare “a un definitivo chiarimento normativo”. Come se ci fosse bisogno, vista la chiarezza espositiva della Suprema Corte nella sentenze 14225 e 14226. Saranno forse state le pressioni della Conferenza Episcopale italiana a far correre ai ripari il governo del Partito Democratico? Certo è che parole come “sentenza pericolosa”, “ideologica”, che intacca gravemente "la garanzia di libertà di educazione richiesta anche dall'Europa", e “è a rischio la sopravvivenza delle scuole paritarie”, possano aver intimorito una classe politica troppo spesso preoccupata delle ripercussioni sull’elettorato che sulla reale tutela dei principi di laicità ed equità sociale.

In cambio di privilegi e immunità, tanti e particolarmente insopportabili in tempo di crisi, il Concordato impone un solo limite alla Chiesa Cattolica: che rispetti l'indipendenza e la sovranità della Repubblica italiana, invece delle ingerenze continue e sfacciate. La classe politica italiana non sembra (ancora) in grado di abolire questo ingiusto trattato, sistematicamente violato da una delle due parti. Sarà almeno capace di far applicare le molteplici sentenze della propria Suprema Corte di Cassazione che impone l'ovvio principio che “la legge è uguale per tutti” e le tasse si pagano?

Tobia Invernizzi

Vuoi studiare in Italia? Paga

  • Mercoledì, 15 Luglio 2015 11:56 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO

Il Manifesto
15 07 2015

Li chia­mano «Neet», lavo­rano in nero, finan­ziano un sistema che lo Stato vuole liqui­dare. Il rap­porto Cnsu 2015 rac­conta come cin­que anni fa l’Italia ha deciso di fare a meno del diritto allo stu­dio e del wel­fare. Oggi que­sta è la realtà, rac­con­tata con numeri e fatti drammatici.

Vuoi stu­diare? Allora paga. È il prin­ci­pale effetto dei tagli (1,1 miliardi di euro) impo­sti dal governo Ber­lu­sconi al sistema uni­ver­si­ta­rio. Stu­dia chi può per­met­ter­selo. E se c’è qual­cuno che pro­prio si ostina, allora gli si rende la vita impos­si­bile al punto da spin­gerlo a lavo­rare in nero per man­te­nersi agli studi. Que­sto è il rac­conto della con­di­zione stu­den­te­sca con­te­nuto nel rap­porto 2015 del Con­si­glio nazio­nale degli stu­denti uni­ver­si­tari (Cnsu), un orga­ni­smo com­po­sto da 28 rap­pre­sen­tanti degli stu­denti e un dot­to­rando a cui andrebbe rico­no­sciuta più ampia rap­pre­sen­ta­ti­vità e legit­ti­mità nell’azione legislativa.

Sette anni dopo la cura da cavallo con la quale il governo Ber­lu­sconi (Tre­monti all’economia, Gel­mini all’Istruzione) ha ridotto l’università ad uno stato coma­toso, gli stu­denti oggi affron­tano vio­lente discri­mi­na­zioni sociali e ter­ri­to­riali; cre­scenti dise­gua­glianze e una dif­fusa cul­tura clas­si­sta nell’accesso ai saperi e alla for­ma­zione utile per difen­dersi dai ricatti del mer­cato del lavoro. Tra i paesi Ocse, l’Italia è l’unico ad avere tagliato le risorse negli anni della crisi glo­bale. Nes­suno, tanto meno il governo Renzi, ha pen­sato di rifi­nan­ziare un sistema al col­lasso. Anzi. La riforma dell’università, con il gigan­te­sco appa­rato valu­ta­tivo diretto dall’Anvur, serve ad ammi­ni­strare un sistema sot­to­fi­nan­ziato dove la regola è la com­pe­ti­zione tra i pochi, il lavoro pre­ca­rio e gra­tuito dei molti, men­tre le fami­glie finan­ziano lo Stato che ha tagliato risorse e ser­vizi essenziali.

Quando i diritti si pagano
Que­sta figura esi­ste solo in Ita­lia. Pur pos­se­dendo i requi­siti di red­dito e di merito, nel 2013/2014, 46 mila stu­denti uni­ver­si­tari non hanno rice­vuto la borsa di stu­dio (l’importo medio va dai 2887 euro in Basi­li­cata ai 4.083 della Toscana) a causa dei tagli dello Stato e per la scar­sità di risorse da parte delle regioni. Que­sti ragazzi sono stati costretti a rinun­ciare agli studi, a lasciare la città dove si sono tra­sfe­riti per­ché non ave­vano un posto nella casa dello stu­dente o si sono arran­giati con lavori part-time o in nero per fare gli esami. Dal 2009 al 2013 lo Stato e le Regioni hanno garan­tito una borsa di stu­dio media­mente solo al 76% degli ido­nei, lasciando senza borsa in media 42.400 stu­denti ogni anno. In defi­ni­tiva si potrebbe riem­pire La Sapienza di Roma con tutti gli stu­denti ido­nei non bene­fi­ciari degli ultimi 5 anni.

Que­sta situa­zione è stata creata dai tagli al fondo nazio­nale per il diritto allo stu­dio, rifi­nan­ziato in maniera insuf­fi­ciente dal governo Letta. Il fondo inte­gra­tivo, dopo un picco nel 2012, si è sta­bi­liz­zato a 150 milioni. Finan­ziato dalle regioni e dallo Stato è del tutto insuf­fi­ciente. Le risorse regio­nali si fer­mano al 23,6% con pic­chi oppo­sti: l’Umbria con il 52,9%, il Veneto con un misero 7% e il Pie­monte con zero euro. Il sistema resta in vita solo gra­zie alle tasse regio­nali ver­sate dagli stu­denti: il 42,2% delle borse esi­ste gra­zie a loro. Rispetto a paesi come la Ger­ma­nia o la Fran­cia, i ser­vizi al diritto allo stu­dio in Ita­lia sono fermi alla pre­i­sto­ria. Coprono solo l’8,2% dell’attuale popo­la­zione stu­den­te­sca che ha regi­strato un calo delle imma­tri­co­la­zioni di oltre 30 mila unità in ter­mini asso­luti (da 307.713 a 266.162) tra il 2003 e il 2013.

Tasse alle stelle
Negli ultimi 10 anni le tasse uni­ver­si­ta­rie sono cre­sciute del 63%, men­tre sono dimi­nuiti gli iscritti all’università sono dimi­nuiti del 17%. L’aumento della con­tri­bu­zione stu­den­te­sca è stata accom­pa­gnata dal taglio del Fondo di Finan­zia­mento Ordi­na­rio che ha por­tato gli Ate­nei ad aumen­tare gli oneri a carico degli stu­denti. Le tasse sono ormai un’entrata vitale per i bilanci degli atenei.

È il risul­tato di una pre­cisa volontà poli­tica che intende fare a meno della finanza e sfrutta i suoi frui­tori. In que­sta dire­zione è andata la «libe­ra­liz­za­zione» delle tasse avviata dalla spen­ding review del Governo Monti nel 2012 che ha escluso le tasse degli iscritti fuori corso dal rap­porto tra le tasse e il fondo per gli ate­nei. Que­sta norma ha per­messo di sal­vare dal default molte uni­ver­sità. Le tasse ven­gono usate come stru­mento puni­tivo per pena­liz­zare eco­no­mi­ca­mente gli stu­denti fuo­ri­corso che sono la mag­gio­ranza, in par­ti­co­lare quelli che lavo­rano. Qui il cer­chio si chiude. Da ido­nei senza borsa a pre­cari fuo­ri­corso, la vita dello stu­dente è pra­ti­ca­mente un incubo.

I più sfa­vo­riti sono al Sud dove gli eso­ne­rati dal paga­mento della tassa di iscri­zione sono il 15% con­tro il 10% al Nord e il 9% al Cen­tro. Ma le dise­gua­glianze esi­stono anche in ter­ri­tori con­si­de­rati omo­ge­nei. I livelli medi di tas­sa­zione oscil­lano tra i valori mas­simi dell’Università Iuav di Vene­zia (1.782) e del Poli­tec­nico di Milano (1.711) a quelli minimi delle Uni­ver­sità di Parma (953) o del Pie­monte Orien­tale (946). «Que­sti mec­ca­ni­smi spe­re­qua­tivi agi­scono creano bar­riere nell’accesso alla for­ma­zione e alla ricerca» com­menta Alberto Cam­pailla, por­ta­voce del Coor­di­na­mento Link.

Il paese del numero chiuso

E’ noto che l’Italia sia al penul­timo posto tra i paesi Ocse per numero di lau­reati. Il fal­li­mento del “3+2″ della legge Ber­lin­guer — di recente tor­nato in auge come spon­sor uffi­ciale della “Buona scuola” di Renzi — è ormai con­cla­mato. Dopo avere avviato il cosid­detto “Pro­cesso di Bolo­gna”, l’Italia avrebbe dovuto sfor­nare lau­reati a getto con­ti­nuo. Con titoli usa e getta, rica­vati sulle esi­genze vola­tili di un mer­cato rite­nuto capace di gene­rare sem­pre “nuove pro­fes­sioni”, quei rifor­ma­tori inge­nui pen­sa­vano di rag­giun­gere il 40% dei lau­reati. Si sono fer­mati a molto meno, al 22%. Le mira­bo­lanti pro­messe della «società della cono­scenza» in cui il centro-sinistra pro­diano cre­deva fer­ma­mente sono ormai un lon­ta­nis­simo ricordo.

Oggi si chiude tutto, si sbar­rano gli accessi alle facoltà e, soprat­tutto alle spe­cia­liz­za­zioni. Anche qui vige la legge: se vuoi andare avanti, paga. Anche se non c’è alcuna cer­tezza nell’occupazione. Nasce così l’idea che per avere «suc­cesso» la for­ma­zione supe­riore dev’essere pagata cara, strin­gendo le maglie del numero chiuso (il 54 per cento dei corsi di lau­rea), senza per que­sto risol­vere il pro­blema dell’accesso alle pro­fes­sioni. Per fare un esem­pio, un terzo dei circa 10 mila aspi­ranti medici che di solito pas­sano il test di ammis­sione alle facoltà di medi­cina non acce­de­ranno alla specializzazione.

Il rap­porto Cnsu riporta un esem­pio che rende l’idea del cir­colo vizioso in cui vivono oggi gli studenti.Chi non passa il test a Medi­cina, di solito si iscrive a facoltà affini nella spe­ranza di poterci rien­trare negli anni suc­ces­sivi. A Padova, ad esem­pio, que­sto tra­sfe­ri­mento ha com­por­tato un aumento di imma­tri­co­la­zioni nei corsi di area bio­lo­gica che hanno di con­se­guenza intro­dotto il «numero pro­gram­mato» che è arri­vato anche a scienze natu­rali e scienze e tec­no­lo­gie ambientali.

Dot­to­rato gra­tis
La regola aurea dell’università ita­liana — pagare per avere un diritto o per lavo­rare — segna pro­fon­da­mente anche l’esperienza di chi fa un dot­to­rato, il primo gra­dino per chi vuole fare ricerca. L’introduzione del vin­colo di coper­tura con borsa di almeno il 75% dei posti a bando, adot­tato dalle “Linee Guida” su indi­ca­zione dell’Anvur, ha gene­rato una gra­vis­sima emor­ra­gia. Tra il 2013 e il 2014 si è pas­sati da 12.338 a 9.189 posti, con una dimi­nu­zione del 25,5%. Gli ate­nei hanno ridotto le posi­zioni, invece di aumen­tare le borse. Ciò ha pro­vo­cato la cre­scita dei dot­to­rati senza borsa: 2.049 su 9.189 per il XXX ciclo. Con­tro que­sti gio­vani lavo­ra­tori privi di red­dito gli ate­nei si acca­ni­scono con tasse arbi­tra­rie. «Anni di tagli stanno por­tando alla con­cen­tra­zione del dot­to­rato in pochi poli situati nelle aree forti del paese» sostiene Anto­nio Bona­te­sta, segre­ta­rio dell’Adi.

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