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Minori, 280mila lavorano anziché studiare

bambini-libriTra le vittime della crisi economica c'è anche la giovinezza (e buona parte del futuro) di 280mila minori italiani, costretti ad abbandonare la scuola per andare a lavorare. 
Paolo Ferrario, Avvenire ...

Nella zona grigia del caporalato pugliese

sfruttamentoC'è poca voglia di parlare. E soprattutto di dire la verità. Perché il rischio, tutt'altro che remoto, è quello di perdere un lavoro che seppur massacrante come quello del bracciante, serve come il pane per mandare avanti la vita di una famiglia.
Gianmario Leone, Il Manifesto ...

I migranti nelle costruzioni, sottopagati e ricattati

  • Giovedì, 10 Settembre 2015 10:20 ,
  • Pubblicato in Flash news

Dazebao
10 09 2015

Giovani, sottopagati e sottoinquadrati, precari e ricattati: questa la fotografia dei lavoratori stranieri impiegati nel settore delle costruzioni, presentata oggi da Fillea Cgil e Fondazione Di Vittorio all'Assemblea Nazionale dei lavoratori stranieri, in corso di svolgimento al Centro Congressi Frentani di Roma.

Nelle costruzioni la presenza dei lavoratori stranieri è strutturale e storica, soprattutto nel comparto dell’edilizia: parla straniero il 17% dell’intera forza lavoro del settore, con punte che in alcuni territori superano il 50%: in tutto 250mila lavoratori (50mila in meno del dato pre-crisi) che, insieme agli altri immigrati presenti in Italia – 5 milioni in totale – producono il 9% della ricchezza italiana, 123 mld di Pil, 20 circa solo le costruzioni. Escludendo ovviamente il lavoro nero, stimata dalla Fillea in almeno 300mila “fantasmi", che sfuggono ad ogni statistica e ad ogni tutela, ma non certo a quell'economia sommersa che vale il 12% del Pil nazionale.

Nonostante una presenza così strutturata dei lavoratori stranieri “quello delle costruzioni continua ad essere un mercato del lavoro duale, in cui gli immigrati sono vittime di segregazione occupazionale, discriminazione, ricatto. E poi la dequalificazione ed il sotto-inquadramento, come dimostrano i dati delle Casse Edili” racconta il segretario generale della Fillea Walter Schiavella, che spiega “il 55% dei lavoratori stranieri ha la qualifica di operaio comune, contro il 28% degli italiani; gli specializzati stranieri sono il 13%, a fronte del 36,5% italiano. E’ un andamento che di anno in anno continua a peggiorare, confermando il sotto-inquadramento come uno degli strumenti preferiti dalle imprese per comprimere i costi del lavoro senza eccessivi rischi. Tre lavoratori inquadrati al primo livello corrispondono più o meno al costo di due operai specializzati, se facciamo due conti possiamo dire che ogni anno spariscono centinaia di milioni di euro di contributi. Otto anni di crisi, a cui si sono aggiunti gli interventi dei governi mirati solo alla deregolamentazione, hanno fatto proliferare meccanismi come questo, o come il finto part time o le false partite Iva o i distacchi comunitari.”

In tutto 76mila, nella Fillea i lavoratori stranieri rappresentano il 24% degli iscritti: maggiore la presenza nelle regioni del centro-nord, con punte che raggiungono il 40% nel Lazio ed in Liguria, mentre tra le regioni meridionali svetta l’Abruzzo con il 26,6%.
E parlano straniero anche tanti delegati e funzionari, provenienti soprattutto da est Europa, Africa, Sud America. Tra loro tante storie, da quella di chi è arrivato vent’anni fa per caso o per studiare (ora con nazionalità italiana), a quelli che in Italia ci sono arrivati da clandestini, su barconi o treni della speranza, e poi la fame, il lavoro nero, il ricatto e le violenze dei caporali..e poi quella prima busta paga e quel permesso di soggiorno costati sangue e fatica. Ed infine, l’incontro con il sindacato, che ha cambiato la loro vita. E che sta cambiando la vita del sindacato.

E sono proprio loro, il piccolo drappello di funzionari migranti della Fillea, i protagonisti di un altro Report presentato oggi dal sindacato, focalizzato sul loro ruolo nel sindacato, che sicuramente consegna agli edili della Cgil importanti spunti di riflessione.
Età media 42 anni, in Italia da almeno tre lustri, titoli di studio prevalenti alti e medio-alti: questo il profilo medio dei funzionari coinvolti nell’indagine, illustrata da Emanuele Galossi, della Fondazione DI Vittorio, che racconta "dalle interviste risulta che le maggiori difficoltà incontrate da questi funzionari nel rapporto con il sindacato e con i lavoratori sono stati la poca conoscenza dei temi sindacali, la diffidenza da parte dei lavoratori italiani nei confronti del sindacalista straniero e la difficoltà nella comunicazioni per via della lingua” gap su cui però il sindacato “è intervenuto con un forte impegno in progetti di formazione.”

Da parte degli intervistati c’è soddisfazione del proprio percorso all’interno del sindacato ma "per più della metà di loro occorre che il sindacato faccia di più, ci sia più coraggio. Ad esempio più funzionari immigrati, più coinvolgimento nelle scelte, più contatto diretto con i lavoratori ed i disoccupati, anche sperimentando nuove forme di rappresentanza e di lotta.”

Richieste che trovano conferma e sostegno nelle parole del segretario generale "più giovani e migranti sono i lavoratori, più giovane e migrante deve essere il sindacato che li rappresenta" ma su questo occorre un impegno di tutto il sindacato "servono scelte concrete e coerenti che accompagnino e favoriscano il ricambio generazionale, dobbiamo rinnovare le forme della nostra azione e quelle della nostra comunicazione con i lavoratori. Il contributo dei nuovi funzionari - penso ai migranti, ai giovani, alle donne - in questo sarà determinante" conclude Schiavella.

 

Puglia, nei campi 40mila donne in nero

sfruttamento-lavoroSi allunga la schiera dei braccianti morti per il duro lavoro nelle campagne di Puglia e Basilicata. [...] Ma sono soprattutto le donne a essere impiegate in maniera irregolare nelle aziende agricole.
Nicola Lavacca, Avvenire ...

Imprenditori o caporali? La linea sottile dello sfruttamento

  • Martedì, 08 Settembre 2015 07:49 ,
  • Pubblicato in Flash news

Linkiesta
08 09 2015

Nell’Agro Pontino la comunità indiana, in un fittizio rispetto della legge, viene impiegata nei campi con paghe irrisorie e orari massacranti.

Carmine Gazzanni

Siamo a Pontinia, piccola cittadina di soli 15 mila abitanti, a metà strada tra Latina e Sabaudia. Qui si vive principalmente di agricoltura, grazie alla presenza di vasti terreni fertili e all’abbondante disponibilità di acqua. Due risorse preziose, che hanno reso l’area dell’Agro Pontino molto appetibile per le grandi cooperative e aziende dedite alla produzione di prodotti agricoli e alla vendita su larga scala. Qui vive anche K. Ha lasciato la regione del Punjab, nel nordovest dell’India, ormai diversi anni fa. «Nell’azienda del mio padrone – racconta – lavoro con altri due indiani. Lavoro tutti i giorni, anche la domenica».

I ritmi sono infernali: «Mi alzo la mattina alle sei e vado in campagna fino alle dodici. Poi ho un’ora di riposo per mangiare e riposare». Dopodiché si riprende, «dall’una fino alle sette di sera, specie in estate perché c’è più luce». Ma non è finita qui. Perché in tempo di raccolta bisogna preparare le cassette che poi, comodamente, viaggeranno oltre i confini per deliziare le famiglie francesi o tedesche. E allora, «alla sera, con altri indiani, andiamo a preparare tutto nei capannoni. Dalle otto di sera fino a mezzanotte. In estate è sempre così: tre turni, tutti i giorni. In tutto sono 15 ore, spesso anche 18». Per un guadagno, racconta ancora K., di mille euro. Però «il padrone non paga sempre. Spesso ci dice di aspettare, di avere pazienza, ma noi non possiamo lamentarci, dobbiamo continuare a lavorare altrimenti ci licenzia. Ma così non va bene: il nostro padrone ci riduce in schiavitù».

«Alla sera, con altri indiani, andiamo a preparare tutto nei capannoni. Dalle otto di sera fino a mezzanotte. In estate è sempre così: tre turni, tutti i giorni. In tutto sono 15 ore, spesso anche 18»

Già: padrone, schiavitù. Parole che si avvertono come lontane nell’Italia del XXI secolo. E invece, mentre nella bella Milano va in scena l’Expo che ha fatto proprio dell’agricoltura il suo vessillo lanciando la «sfida del futuro», nelle campagne italiane si sfrutta, si violenta, si ledono i più elementari diritti umani in nome, spesso, di quella stessa agricoltura. Un’agricoltura che non è solo sinonimo di criminalità organizzata ma anche di imprenditoria, solo apparentemente sana.

È quanto conferma a Linkiesta il sociologo Marco Omizzolo, vicepresidente dell’associazione InMigrazione, da anni impegnata sulla questione del caporalato: «Certamente c’è l’agromafioso che sfrutta il caporalato soprattutto per il riciclaggio di denaro sporco e per l’interramento dei rifiuti tossici. Ma poi nell’Agro Pontino c’è anche l’imprenditore che parla dialetto veneto il quale ha scoperto che, sfruttando i braccianti indiani, risparmia molti più soldi piuttosto che stare lì a rispettare le regole». Il confronto di Omizzolo è scioccante: «Il contratto provinciale del lavoro a Latina prevede per ogni bracciante il pagamento di 9 euro l’ora per 6 ore e 30 minuti. In media danno 2,50 euro l’ora per 14 ore. Vuol dire che si lucra sul lavoro del bracciante almeno 7-8 euro l’ora, considerando anche il monte ore in più. Se una cooperativa arriva a prendere anche 100 lavoratori, parliamo di 800 euro risparmiati in un solo giorno. In un mese risparmia, lucrando sul lavoratore, 24 mila euro».

Un esercito indiano al servizio dei caporali

Ecco che allora parlare di sfruttamento non è più così surreale. In Puglia come nel Lazio. Solo pochi giorni fa la storia di Paola Clemente, bracciante uccisa dalla fatica mentre raccoglieva l’uva nei campi della provincia di Andria, ha lasciato tutti sconvolti, tanto che lo stesso ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina ha rinnovato l’impegno del governo contro la piaga del caporalato. Ma Paola, in realtà, è purtroppo solo una delle tante croci disseminate nei campi italiani.
«C’è l’agromafioso, ma anche l’imprenditore che parla dialetto veneto che ha scoperto che, sfruttando i braccianti indiani, risparmia molti più soldi piuttosto che stare lì a rispettare le regole»

Le persone coinvolte, secondo le ultime stime della Flai-Cgil (Federazione Lavoratori Agro Industria), sono addirittura 400 mila. Di questi, circa 100 mila vivono in condizioni schiavistiche o para-schiavistiche. Più del 60% dei lavoratori e delle lavoratrici costrette a lavorare sotto caporale – la maggior parte stranieri comunitari e non – non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente. E più del 70% presenta malattie non riscontrate prima dell’inserimento nel ciclo del lavoro agricolo stagionale.
Una situazione paradossale che vede uno dei suoi maggiori epicentri proprio nel cuore d’Italia, nell’Agro Pontino. «Nel Lazio – ci dice ancora Omizzolo – il fenomeno è diffuso in provincia di Latina per la presenza di una grossa comunità indiana: qui ci sono casi in cui si testimonia una vera e propria riduzione in schiavitù». Stiamo parlando di una comunità di circa 30 mila indiani, in prevalenza sikh. Un esercito da sfruttare per i caporali, se si pensa che «l’80-85% sono impiegati in agricoltura, tutti nel bracciantato. E la maggior parte sono concentrati lungo la costa, da Aprilia fino a Formia». E, nonostante i salari bassissimi, gli orari improponibili e le condizioni abitative spesso invivibili, nessuno denuncia.

M. è arrivato in Italia con tutta la famiglia. È lui che mantiene la moglie e i suoi due bambini ancora piccoli. «Raccolgo zucchine, ravanelli, cocomeri. Dipende dalla stagione. Ma a fine mese il padrone mi dà sempre solo 300 euro massimo. Io come vivo qui? Abito con altri otto indiani». M. non è in regola con il contratto, ma la sua osservazione è inappellabile: «se io denuncio, poi chi mi trova lavoro? Meglio 300 euro che niente». Un ragionamento condiviso da tanti nell’Agro Pontino. Anche da chi, secondo un’altra testimonianza raccolta da InMigrazione, vive da cinque anni in un container fatiscente, pericolante e in cui ci piove dentro. Sacrifici enormi, in condizioni di evidente schiavitù. Tutto per racimolare pochi soldi e tanti, troppi debiti. «Il mio padrone – racconta ancora un altro indiano – deve darmi ancora 26 mila euro. Io sono 7 anni che lavoro qui in Italia. Qui vicino a Sabaudia. Io prendo da 7 anni 200/300 euro al mese e poi basta. Ma non posso lamentarmi né denunciare: io continuo a lavorare, sette giorni su sette, anche la domenica. Non ho nemmeno più modo di andare al tempio sikh a Sabaudia”.

Doparsi per vivere

Sfruttati e costretti a esserlo, insomma. Perché ogni minima denuncia rischia di far perdere loro anche quella piccola fetta di guadagno. E allora bisogna resistere anche alle estenuanti e interminabili ore di lavoro. Ma l’unico modo per farlo è doparsi, assumere droga, per non sentire il dolore e la fatica, come denunciato già più di un anno fa da InMigrazione. «Io lavoro 12-15 ore al giorno – ci dice un altro indiano sikh – raccolgo zucchine o cocomeri oppure vado col trattore. Tutti i giorni, anche la domenica. Dopo un po’ non reggi più i ritmi: avverti male alla schiena, alle mani. Anche agli occhi perché hai tutto il giorno terra, sudore, cimici. Ma non ci si può fermare, né rallentare, altrimenti rischi di essere sbattuto fuori. E allora dopo sei/sette anni di vita così, che fai? Non lavori più? Io e altri amici prendiamo una piccola sostanza per non sentire dolore. La prendiamo una o due volte al giorno quando c’è la pausa da lavoro».
«Io la prendo – racconta un altro indiano – per non sentire la fatica a gambe e schiena. Dopo 14 ore di lavoro, come pensi sia possibile non sentire dolore? In campagna per la raccolta di zucchine gli indiani lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio». Un assurdo, peraltro, che tocca anche i bambini, secondo quanto denunciato da Save The Children. «Il fenomeno del caporalato – ci dicono dall’associazione umanitaria – è strettamente legato a quello della tratta, anche dei minori. E i bambini sfruttati, anche nelle campagne laziali, affrontano ritmi serrati, specie per un bambino. E allora, per alleviare il dolore fisico, vengono drogati con farmaci antidolorifici, oppiacei, che creano dipendenza, facilmente reperibili anche perché costano molto meno delle sostanze stupefacenti pur avendo gli stessi effetti».


In Italia ci sono 340mila casi di lavoro minorile, spesso è sfruttamento

Marco Sarti

L’illegalità coperta dalla legalità

Sfruttamento, padrone, schiavo . Tutti termini che ora suonano meno “lontani” di quanto pensassimo all’inizio del nostro viaggio tra i diseredati dell’Agro Pontino. Ma manca ancora un anello, forse il più importante che permette tutto questo. Il riferimento, come ci racconta ancora Omizzolo, è a quella «fascia di professionisti al servizio degli imprenditori neo-schiavisti e dei caporali».
Si va ben oltre il lavoro nero episodico e saltuario. Il sistema prevede, al contrario, buste paga e contratti di lavoro in regola per braccianti impiegati, di modo che sia tutto impeccabile in caso di controlli

Parliamo di commercialisti, consulenti del lavoro, ragionieri, avvocati che indicano all’imprenditore o al caporale la strada maestra affinché evitino di cadere nelle reti della giustizia. In pratica, «il caporalato e lo sfruttamento nei campi non potrebbero esistere senza dei consulenti esterni che indichino la rotta». Il motivo è presto detto: «l’illegalità – chiosa Omizzolo – è all’interno di un sistema di legalità, è coperta da un sistema di legalità. Nelle more delle leggi vigenti ci sono spazi in cui si sono inseriti truffatori, trafficanti e mafiosi che agiscono grazie alle consulenze di questi professionisti. È grazie a loro che il sistema si regge».

Al contrario di tante realtà nazionali di sfruttamento della manodopera che si configura con arruolamenti giornalieri a chiamata dei lavoratori in molte realtà agricole del pontino la situazione è diversa. Parliamo, in pratica, di «contratti a sfruttamento indeterminato», come sono stati ribattezzati da InMigrazione. Si va, in effetti, ben oltre il lavoro nero episodico e saltuario. Il sistema prevede, al contrario, buste paga e contratti di lavoro in regola per braccianti impiegati, di modo che sia tutto impeccabile in caso di controlli. Ma solo apparentemente: dietro si nasconde, infatti, un sistema di profondo sfruttamento dato che il lavoratore risulta impiegato per soli due giorni al mese. Il resto delle ore di lavoro, invece, sono sommerse, segnate a matita dal padrone su pezzetti di carta, con costi orari, come abbiamo visto, ben lontani da quelli previsti dal contratto nazionale.

«Quando mi ha assunto, il mio padrone mi ha detto che mi avrebbe dato 800 euro al mese. Ma alla fine me ne ha pagato solo uno»

È il caso di molti lavoratori indiani che ricevono una busta paga con segnati tra i 4 e i 6 giorni di lavoro a fronte del mese intero lavorato (senza, ovviamente, ferie né domeniche di pausa, senza il riconoscimento degli straordinari o dei rischi legati all’attività di bracciante). Ma non c’è fine al peggio. E così al nero si somma la mancanza di ogni garanzia. In altre parole, quanto viene segnato sul semplice pezzetto di carta dal padrone, nemmeno viene corrisposto per intero, proprio perché segnato semplicemente su un pezzetto di carta. «Io lavoravo per una grande cooperativa agricola vicino Terracina – racconta ancora un altro sikh – Quando mi ha assunto, il mio padrone mi ha detto che mi avrebbe dato 800 euro al mese. Ma alla fine me ne ha pagato solo uno. Io però ho lavorato per sei mesi. Lui allora ha scritto su un foglio bianco che mi avrebbe dato altri duemila euro, ma ho ricevuto ad oggi solo 300 euro».

E le istituzioni? Per ora il nulla

Tanto basterebbe a capire perché occorre, con urgenza, occuparsi del fenomeno del caporalato. Il ministro Martina, d’altronde, pochi giorni fa ha assicurato che «sul caporalato c'è un impegno molto forte del governo per un piano d'azione organico e stabile che sarà messo a punto entro quindici giorni». Tante le proposte al vaglio: dalla confisca dei beni per chi si macchia del reato di caporalato fino a una cabina di regia che monitori il fenomeno. «È un elemento certamente positivo – commenta ancora Omizzolo – ma è anche vero che il ministro Martina era a conoscenza del problema già due anni fa. Io stesso sono andato in commissione antimafia a denunciare, insieme alla Flai, quest’emergenza umanitaria, con foto, testimonianze e documenti. Ora bisogna passare dalle parole ai fatti. Gli annunci vanno anche bene, a patto che poi ci sia l’azione concreta».
Proposte di legge, in effetti, sono state già presentate dalle associazioni. Peccato, però, che siano rimaste chiuse nel cassetto. «Bisognerebbe innanzitutto ridefinire la legge contro il caporalato», chiosa Omizzolo. Per un piccolo ma clamoroso buco normativo: la legge a oggi punisce il caporale ma non il datore di lavoro che utilizza il caporale per reclutare manodopera. Ma le contraddizioni non finiscono qui: «Noi abbiamo proposto anche l’interruzione immediata dei finanziamenti pubblici, europei e non, a quelle aziende che reclutano tramite caporalato». Ecco l’assurdo: mettiamo caso un’azienda venga smascherata e si accerti che questa sfruttava lavoratori tramite il caporalato. A pagare, oggi, è solo il caporale. Se nulla dovesse cambiare, i vertici dell’azienda potranno dormire sonni tranquilli, continuando a godere – ciliegina sulla torta – dei lauti finanziamenti pubblici.

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