Le persone e la dignità
15 06 2015

Nella settimana che precede la Giornata mondiale del rifugiato di sabato 20 giugno, torniamo a parlare dello sgombero della “Comunità della pace” di Ponte Mammolo, nella zona orientale di Roma, avvenuto ormai oltre un mese fa.

Come avevamo ricordato in questo blog, la “Comunità della pace” ha subito uno sgombero cruento ad opera del Comune di Roma. Dopo più di un mese, alcuni sgomberati vivono ancora accampati in strada.

Il 5 giugno, Amnesty International aveva scritto al sindaco e al prefetto di Roma, chiedendo spiegazioni sulle modalità dello sgombero e informazioni sugli sviluppi successivi.

Un’altra lettera l’hanno scritta il 14 giugno i rifugiati eritrei (iniziamo a chiamarli come devono essere chiamati: né migranti né profughi). Destinatari, il sindaco e il prefetto di Roma e l’assessora alle Politiche sociali e abitative del comune di Roma.

Ecco il testo:

“Siamo i rifugiati eritrei della Comunità della Pace da anni residenti a Ponte Mammolo (Roma), con la presente, fraternamente salutiamo tutti augurando pace, serenità, prosperità e sviluppo.

Più di un mese fa, l’11 maggio 2015, a noi residenti in Via delle Messi D’Oro, Roma, è capitata una cosa del tutto inaudita ed assurda: il Comune di Roma, con l’appoggio della Prefettura, ha demolito senza alcun preavviso le case che avevamo costruito con le nostre mani con tanto sacrificio, fatica e sudore. Totalmente abbandonati a noi stessi dallo Stato Italiano ci siamo auto-organizzati con la speranza che questa soluzione precaria fosse soltanto transitoria e favorisse la nostra reale inclusione socio-economica ed abitativa.

La Comunità della Pace è nata spontaneamente più di 15 anni fa e nel tempo si è popolata di persone provenienti da vari Paesi: alcuni di noi l’hanno vista nascere e modificarsi negli anni. Eppure, la mattina dell’11 maggio scorso, il Comune è venuto a distruggere quel poco che avevamo, buttandoci di nuovo per strada. Non ci hanno neanche permesso di prendere quella poca roba che avevamo dentro.

È proprio strano e disumano!

A seguito di uno sgombero illegale, costretti a spostarci nel parcheggio antistante, le istituzioni ci hanno negato qualsiasi forma di aiuto, compreso quello per il soddisfacimento dei bisogni primari; hanno rifiutato persino di fornirci i bagni chimici! Il sostegno è arrivato solo dal quartiere, da privati cittadini, da associazioni e centri sociali.
Arrivati in Italia, costretti a lasciare il nostro Paese da una dittatura che sta continuando a calpestare i diritti del nostro popolo, ci aspettavamo una vita migliore, un trattamento diverso, più umano e libero. Invece, stiamo amaramente subendo delle ingiustizie ed un trattamento poco cortese. Ed è per questo motivo, per richiamare alle proprie responsabilità lo Stato Italiano ed in modo particolare, il Comune di Roma, che abbiamo deciso di scrivere questa nostra lettera.

Pertanto, umilmente chiediamo al Comune di Roma e al governo italiano:
1. Un trattamento umano e una soluzione abitativa autonoma. Siamo delle persone, non siamo dei numeri. Abbiamo una storia e una dignità da conservare. Quindi, per favore, trattateci nel rispetto delle leggi italiane ed internazionali e dei diritti umani.

2. La soluzione dei problemi legati al rinnovo dei nostri permessi di soggiorno. Senza un indirizzo di residenza, le questure negano il nostro diritto al rinnovo del permesso di soggiorno, in questo modo il Comune di Roma, la Questura e la Prefettura creano gravi conseguenze sullo stato legale della nostra presenza in Italia impedendoci di fatto l’accesso a diritti fondamentali. Senza la possibilità di trovare un lavoro, non possiamo permetterci di prendere le case in affitto, saremo obbligati quindi ad essere dei senza fissa dimora. Come fare per avere una residenza? Chi deve darci questo indirizzo fisso? Perché lo Stato Italiano e il Comune di Roma ci hanno abbandonato in balia di nessuno? Dovremmo sposare la malavita per vivere? No! Siamo venuti in Italia, a Roma, in cerca di una vita dignitosa.

Stiamo gridando ad alta voce rivendicando il nostro diritto ad una vita libera ed autonoma!”

Check Point Ponte Mammolo

  • Martedì, 19 Maggio 2015 08:29 ,
  • Pubblicato in Flash news

Qcodemag
19 05 2015

UNA SETTIMANA DOPO LO SGOMBERO DEL CAMPO SPONTANEO DI PONTE MAMMOLO A ROMA, CONOSCIUTO COME LA “COMUNITÀ DELLA PACE”, SONO ANCORA IN TANTI A VIVERE NEL PARCHEGGIO. SOLO POCHE PERSONE DIROTTATE IN ALCUNI CENTRI DI ACCOGLIENZA


testo, video e foto di Andrea Cardoni

Mancano sette mesi al Giubileo straordinario annunciato da Papa Francesco e quando i pellegrini parcheggeranno i loro autobus nel check point D, a Ponte Mammolo, non avranno davanti agli occhi un insediamento spontaneo di 400 persone che c’era fino a lunedì scorso, 11 maggio. Oggi troverebbero un pallone da calcio sgonfio, una sedia da ufficio di quelle girevoli, un carrello, la camera di sicurezza dell’Atac sopra la colonnina dell’SOS, una scacchiera di cartone, pedine fatte con i tappi colorati, bagni pubblici chiusi, sedie bianche di plastica, una scritta su un marciapiede “Hanno preso la mia casa, ma non prenderanno il mio futuro” e una (“Casa dolce casa”) sul una colonnina dell’acqua all’ingresso del parcheggio.

Troverebbero delle tende che entrano precise nelle piazzole disegnate con il contorno blu sull’asfalto per i loro autobus, e poi, nel caso i pellegrini arrivassero stasera, troverebbero un po’ di coperte con dentro persone. Le stesse persone che erano dentro al campo di fronte al parcheggio fino a una settimana fa. Poi sono arrivate le ruspe e hanno buttato giù tutto, senza preavviso. A oggi ancora non si è capito chi le ha mandate

.
Sabato 16 maggio è arrivato l’assessore alle politiche sociali del Comune di Roma Francesca Danese e ha detto che non le ha mandate lei. Dopo lo sgombero, alle persone rimaste a Ponte Mammolo è stato proposto di andare al centro Baobab, a Via Cupa, ma è da lì che sono scappate. Non ci sono mediatori culturali e una trattativa basata sulla fiducia, visto quel che è stato fatto lunedì scorso, non può avere buon esito: c’è la paura del riconoscimento attraverso le impronte digitali e molte delle persone che sono qui non vogliono essere riconosciute. Il rischio è poi di essere “dublinati” (spostarsi in un paese diverso da quello in cui è entrato in Europa e che, per l’applicazione del rego­la­mento di Dublino, essere rispediti dove gli sono state prese le impronte digi­tali per la prima volta). Non vogliono restare in Italia e in tanti stanno partendo: “dice che vanno a Bolzano, poi a Berlino”, dice uno dei tanti del quartiere che è venuto a dare una mano. Tutti stanno avvertendo familiari, amici, che si stanno mettendo in viaggio per l’Italia e Roma, che la “Comunità della Pace” (così era chiamato il campo di Ponte Mammolo), dove ci è venuto pure il Papa pochi giorni fa, è stato butatto giù dalle ruspe.

Per i bus turistici la sosta prevista non può superare le 24 ore, c’è scritto su tutti i cartelli del parcheggio, ma se stasera i pellegrini dovessero restare, come le persone del campo che questa notte dormiranno qui, di fronte a quella che era la loro casa, si sentirebbero urlare “A merde!” da una macchina blu che corre sulla strada e poi vedrebbero la scritta “LIBERO” fatta con le luci gialle sotto il cartello del parcheggio per le macchine. Poi vedrebbero le persone del quartiere portare casse d’acqua e marmellata, l’amuchina, le frittate e le coperte per chi ha lasciato le tende alle donne e ai bambini. Ancora non si sa cosa accadrà tra sette mesi. Di sicuro, appena usciti dal parcheggio i pellegrini incontreranno il centro di raccolta per rifiuti ingombranti, faranno una grande curva a destra con un cartello con scritto “sottocosto letto matrimoniale a 279 euro”, poi una curva a sinistra e la promozione di “sistema d’allarme a 299 euro, per avere una casa più sicura”. E poi torneranno nelle loro case.
Buona strada.

"E se piove? Vi prego, non potete restare qui. Dovete dire agli altri che Messi d'Oro non esiste più. Esiste qualcosa di meglio". L'assessore Francesca Danese, si sbraccia, cerca di arrivare a un compromesso. Poi tira fuori una sigaretta. A porgerle l'accendino è Kibrom. Eritreo, vive da sei anni a Roma ed è uno dei cento profughi che lunedì scorso hanno visto crollare ancora le proprie certezze. Sgomberato dalla baraccopoli di Ponte Mammolo, rasa al suolo dalle ruspe, ora bivacca con i suoi connazionali in un parcheggio a poche centinaia di metri dalla metro B. 
Lorenzo D'Albergo/Viola Giannoli, La Repubblica ...
Ieri mattina romani e turisti che passavano in piazza Indipendenza, a due passi dalla Stazione Termini, vedevano intere famiglie del Corno d'Africa iniziare la giornata nei giardinetti e nei portici, dove avevano dormito sui cartoni, davanti al Csm. Nuovi profughi giunti chissà come? No: rifugiati richiedenti asilo tra le centinaia di sgomberati dalla baraccopoli di Ponte Mammolo, demolita all'improvviso lunedì dopo 10 anni. 
Anubi D'Avossa Lussurgiu , Il Fatto Quotidiano ...

Una città come Roma non si amministra con gli sgomberi

Internazionale
13 05 2015

E così qualche giorno fa a Roma hanno sgomberato Scup. Ossia un palazzo a via Nola, tra San Giovanni e Pigneto, che era stato occupato tre anni fa e riqualificato, fino a diventare uno spazio multifunzionale (cucina, biblioteca, palestra popolare, cinema, ludoteca, anche luogo di incontro per l’associazionismo). A dire la verità, Scup non è stato solo sgomberato: sono arrivate le ruspe alle 6 del mattino e hanno distrutto quello c’era, raso al suolo le mura.

Nonostante la violenza dell’azione di sgombero, c’è da dire che per molti versi non è stata una sorpresa. Sono almeno un paio d’anni che la questione degli spazi pubblici a Roma viene considerata un mero problema di ordine pubblico. Per esempio a febbraio scorso le ordinanze e i sigilli erano toccati al Rialto, e nel 2014 all’Angelo Mai, al Valle, al cinema America. Certo, ognuno di questi spazi ha una storia a sé (in alcuni casi ci sono delle trattative in corso, in altri il posto è stato riassegnato), ma che ci sia una tendenza a considerare la questione solo dal punto di vista dell’ordine pubblico è chiaro anche dalla notizia di un altro sgombero, quello di un insediamento di migranti, tra cui vari rifugiati eritrei, a Ponte Mammolo.

A essere costante è anche l’imbarazzo dell’amministrazione comunale, o almeno di parte di essa. Ogni volta il vicesindaco Luigi Nieri (Sel) rilascia sconfortate dichiarazioni del tipo: “Non voglio entrare nel merito delle decisioni della magistratura, ma queste realtà vanno difese”. Il che lo fa sembrare più un simpatizzante o addirittura un attivista che un uomo di governo. E lascia capire, quanto meno, che questa ondata di sgomberi sia l’espressione di una tensione tra poteri, in cui la giunta comunale di Ignazio Marino o è connivente o è imbelle.

Gli occupanti di Scup, mentre le ruspe ancora erano in azione, hanno trovato un altro luogo abbandonato, un vecchio deposito molto malmesso a via della Stazione Tuscolana, e da una settimana sono all’opera per ricostruire, con molta fatica, l’esperienza di Scup. Tre giorni fa sono stato a un’assemblea molto partecipata (duecento persone) in cui ci si chiedeva come riorganizzarsi, controllare che non ci siano strutture pericolanti, rimuovere i calcinacci, eliminare la polvere, programmare attività.

Quando si ha a che fare con le occupazioni ci si accorge che mostrano sia un’esigenza sia una proposta e che le amministrazioni non sono in grado di capire.

In un’intervista che feci qualche mese fa all’assessora alla cultura Giovanna Marinelli a proposito della disastrosa – non per colpa sua – situazione dei teatri a Roma (sì, agli sgomberi vanno aggiunte le chiusure del Palladium e dell’Eliseo, per dire, il taglio dei fondi al festival RomaEuropa, il collasso di molti piccoli teatri), lei distingueva giustamente le diverse situazioni e poi difendeva una politica capace di far interagire il pubblico e il privato, a seconda dei casi (“Il teatro del Lido a Ostia l’abbiamo pensato con una gestione diversa da quella del Quarticciolo”).

Ma su una questione sembrava impreparata: l’idea che la gestione del teatro Valle si potesse trasformare in una fondazione dei beni comuni, ossia in quel progetto politico-amministrativo che era nato e cresciuto nei tre anni di occupazione del teatro. “Mi sembrano immaturi”, disse, e più che un’affermazione ingenerosa e liquidatoria, mi parve riflettere un pregiudizio culturale e un deficit politico.

Quello che non viene riconosciuto da amministratori pur abili come Marinelli è che né il pubblico né il privato intercettano alcuni bisogni della città sempre più pressanti, né riescono a valorizzare una vitalità artistica e immaginativa.

Parliamo ancora di teatri. Non c’è bisogno di ricordare come dal Rialto, per esempio, o dal Valle, o dal Kollatino Underground, siano venute fuori tra le compagnie più interessanti della scena romana degli ultimi dieci anni, e come di fatto uno spazio occupato come il Nuovo Cinema Palazzo sia uno dei pochi posti dove poter vedere spettacoli interessanti oggi.

E che se è vero che per fortuna ci sono direttori capaci di gestire spazi pubblici (Antonio Calbi al Teatro di Roma) o spazi privati (Fabio Morgan al Teatro dell’Orologio), la maggior parte dei teatri a Roma è in mano a dei locatari, a gente che affitta la sala e guadagna in questo modo, senza nessuna progettualità artistica, spesso senza nemmeno sensibilità teatrale: cercando di far cassa sull’economia dell’offerta, invece di provare a far crescere la domanda.

Per questo negli ultimi anni, gli attori, i registi, gli scenografi, i tecnici hanno cominciato a occupare. Non in nome di una libertà artistica, come poteva essere nelle cantine degli anni settanta, ma semplicemente per poter fare teatro, per incontrare un pubblico. Con una concezione delle politiche culturali che, anche nei casi in cui è spontanea, mostra un che di rivoluzionario.

Questa rivoluzione è quella descritta in un libro importante uscito qualche settimana fa per Derive Approdi, Del comune, o della rivoluzione nel XX secolo di Pierre Dardot e Christian Laval: ed è la sfida di rivendicare un diritto d’uso che vada a sostituire il diritto di proprietà.

Facciamo un esempio: il processo costituente avviato durante l’occupazione del Valle – la scrittura dello statuto della fondazione – andava proprio in questa direzione. Tentare di fare tesoro del fatto che decine di migliaia di persone sono entrate nel teatro non solo per vedere gli spettacoli, ma per partecipare ad assemblee, per tenere puliti gli spazi, per dare e ricevere formazione, per progettare spettacoli.

Quello che non è stato compreso in quel caso è che gli occupanti, e anche i semplici utenti, non erano semplicemente contro la privatizzazione o per il recupero del teatro alla gestione pubblica, ma ambivano a governare direttamente quel luogo. In nome del fatto che lo “usavano” (il che vuol dire anche lo custodivano, lo volevano trasformare, l’avevano imparato a vivere veramente come loro), volevano ripensare delle regole che fossero adatte al reale uso che le persone richiedevano. Biglietti accessibili, per esempio, aperture lunghe, gestione partecipata, ampliamento delle funzioni.

I critici delle esperienze di occupazione, che sia quella del Valle o quella di Scup, le stigmatizzano accusandole di essere delle privatizzazioni di fatto, che operano nell’illegalità. Questi critici non notano che queste esperienze incarnano delle forme di cittadinanza molto matura, studiata e presa a modello da studiosi dei beni comuni come Elinor Ostrom, che Dardot e Laval citano spesso per sottolineare soprattutto “le pratiche del comune”, piuttosto che i beni comuni. Non si tratta di appropriarsi di qualcosa, ma di renderlo utilizzabile, e vivo.

All’interno della società esistono delle modalità collettive di accordarsi e di creare regole di cooperazione non riconducibili al mercato e allo stato. E questo può essere empiricamente dimostrato in quei numerosi casi in cui dei gruppi hanno fatto a meno della coercizione statale o della proprietà privata.

Il punto è questo: che fare della qualità dell’organizzazione espressa dalle occupazioni? E delle relazioni che si creano? Le buttiamo? Le riduciamo a un problema di ordine pubblico?

Ecco che anche senza studiarsi Dardot e Laval, per leggere quello che accade a Roma basta l’evidenza. Chiunque può riconoscere che viviamo in una città asfittica, provinciale, governata come si può o da una gestione pubblica che ha sempre meno fondi o da società private che erodono pezzi sempre più significanti di amministrazione (come ben racconta per esempio Tomaso Montanari nel suo ultimo Privati del patrimonio). O ancora: una città perduta tra le retoriche dell’indignazione (quelle incarnate da siti tipo romafaschifo, prese in giro da Zerocalcare domenica scorsa su Repubblica e criticate da dinamopress) e un’invasione commerciale che sta trasformando in pochi anni una presunta e potenziale metropoli in una fiera.

In un giorno qualunque, andate a farvi un giro in una qualunque delle periferie vecchie e nuove – Ponte Mammolo, Casalotti, Spinaceto, Palmarola – per vedere come sono luoghi che vivono solo del riflesso di quello che non possono essere, senza nessun progetto se non quello di una sempre più evanescente “riqualificazione”.

Oppure, andate a farvi una passeggiata nel centro storico: la “grande bellezza” è solo una proiezione, che si dissolve nel fumo di decine di nuovi negozi di patatine olandesi o delle costose apericene di sedicenti wine bar. Non esiste uno spazio in cui non si debba pagare per entrare: e quest’economia quasi mai produce relazioni, cultura, e alla fin fine sicurezza (cos’altro è la cosiddetta movida con le risse di Campo de’ Fiori se non un rituale riot del consumo?). Così il tentativo meritorio di Andrea Valeri, l’assessore alla cultura del primo municipio, di censire per poi riassegnare gli spazi abbandonati del centro, ha incontrato di fatto solo ostacoli.

Roma – e non è un caso isolato – è una città logora, che viene abusata invece di essere usata. Il mancato decoro è l’evidente riflesso di una città non vissuta dai suoi stessi abitanti. Le casse comunali si riempiono grazie alle licenze commerciali e alle multe di chi cerca di accedere agli spazi comuni senza riuscirci: varchi elettronici e strisce blu finiscono per diventare il dispositivo di un’amministrazione classista della città.

Quaranta anni fa un assessore alla cultura, Renato Nicolini, portava alla luce, con l’estate romana e la politica dell’effimero, l’ambizione di far sentire i cittadini parte di un vissuto comune.

E per questo è ovvio che se quest’idea di città non parte da un desiderio di appartenenza, ma di consumo, non si potrà mai pensare di modificarne la cultura del governo, e sarà sempre una città amministrata sul filo dell’emergenza o sull’orlo del tracrollo.

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