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07 05 2015
Sono cominciate all'alba le operazione di sgombero di Scup, lo spazio sociale occupato in via Nola a San Giovanni. Fuori l'edificio, ancora circondato da un ingente spiegamento di forze dell'ordine si stanno radunando attivisti da tutta la città ma al momento non si registrano tensioni. Scup, acronimo che sta per "Sport e cultura popolare", ospitava una palestra, una biblioteca, un'osteria, lo studio di una radio web e decine di attività sociali e culturali. "Siamo un punto di riferimento per questo territorio, un presidio di socialità e democrazia. Non ci vogliamo arrendere allo sgombero di uno spazio che era stato davvero restituito alla cittadinanza per farne un bene comune e sottrarlo alle speculazioni", racconta Bartolo uno degli occupanti accorso alle prime luci dell'alba. Le foto sui social network ritraggono le ruspe in azione mentre sventrano l'edificio. Convocata per le 11.30 una conferenza stampa.
Non è la prima volta che Scup viene sgomberato: le camionette erano arrivate già nel il 25 gennaio del 2013 ma, dopo poche settimane lo spazio era stato nuovamente invaso dagli attivisti. Nel week-end gli occupanti avrebbero festeggiato i 3 anni di occupazione, dove erano attesi per un dibattito sul futuro dell'immobile diversi rappresentanti istituzionali, tra cui il parlamentare del Pd Marco Miccoli e quella di Sel Celeste Costantino.
Corriere delle migrazioni
18 03 2015
Il 10 marzo scorso si è svolta, presso la sede dell’associazione Naga di Milano, la presentazione alla stampa e al pubblico dei dati ricavati dall’indagine Nomadi per forza. Lo studio ha riguardato le politiche sociali messe in atto dal comune di Milano nei confronti delle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti.
Ciò che emerge, a detta anche dei ricercatori che si sono occupati del tema, è una certa continuità da parte della giunta Pisapia rispetto alla precedente, di centro-destra, nell’affrontare la questione come un problema di ordine pubblico. Continua, infatti, la gestione ad opera dell’Assessorato alla Pubblica Sicurezza del comune, che ha previsto lo sgombero dei campi illegali – 191 da gennaio a settembre 2014, per un totale di 2.276 persone sgomberate – e l’allestimento di centri di emergenza sociale, in cui le famiglie rimaste senza un tetto possono essere accolte per circa 200 giorni rinnovabili.
I dati più preoccupanti, però, riguardano le spese e i fondi investiti rispetto ai percorsi di integrazione considerati riusciti dagli stessi organi deputati del Comune: a fronte di circa 900 mila euro spesi finora per la gestione dei centri, soltanto nove sono i soggetti che risultano efficacemente integrati. I numerosi tavoli tematici che si sono susseguiti, con la partecipazione degli organi comunali, delle associazioni interessate alla tematica e dei rappresentanti delle comunità rom e nomadi, sembrano non aver sortito alcun effetto sulle decisioni prese dalla giunta cittadina.
Marina Montuori
Il Fatto Quotidiano
01 12 2014
Riccardo Noury
Portavoce di Amnesty International Italia
Tre settimane fa, in questo blog, avevamo descritto gli attacchi portati dall’esercito israeliano contro le abitazioni della Striscia di Gaza, durante l’operazione Margine protettivo. Attacchi dall’alto, a elevata tecnologia.
Al confine meridionale della Striscia, a Rafah, l’Egitto distrugge le abitazioni in modo più tradizionale: a colpi di dinamite e coi bulldozer.
Non ci sono i morti che provocano i missili dal cielo, ma le macerie sono le stesse e i numeri impressionanti: 802 abitazioni completamente distrutte, 1165 famiglie sgomberate a forza nei giorni successivi al 24 ottobre, quando un attacco al posto di blocco militare di Qaram Al-Qawadis, nel Sinai settentrionale, ha ucciso almeno 33 soldati. Subito dopo, è stato dichiarato lo stato d’emergenza, incluso il coprifuoco notturno e il divieto assoluto per i media di fornire informazioni sulle attività militari nella zona.
Per il diritto internazionale e per la stessa Costituzione egiziana, quella delle autorità del Cairo è stata un’azione arbitraria e illegale. Le demolizioni hanno polverizzato interi edifici. Agli abitanti non è stato dato preavviso, offerto un alloggio alternativo o fornito un risarcimento adeguato.
Le testimonianze raccolte da Amnesty International sono chiare:
“Non mi hanno mai informato dei piani di sgombero, ne avevo solo sentito parlare alla televisione. Nessun funzionario si è presentato da noi per spiegarci come fare domanda per il risarcimento”.
“Ho saputo che dovevo lasciare la mia casa solo quando un bulldozer ha demolito la parete esterna. Poi è arrivato un militare a dirmi che dovevo andarmene immediatamente, dato che la casa sarebbe stata abbattuta il giorno dopo. Di lì a poco, era tutto un pullulare di blindati e il cielo era pieno di elicotteri”.
“I miei vicini hanno rifiutato di andarsene. Li ho visti discutere coi soldati, poi questi hanno fatto irruzione nella loro casa coi cani e con le armi. L’hanno demolita poco dopo, con tutti i mobili e i ricordi di famiglia”.
Per gli sgomberati è stato disposto un risarcimento di 101 euro, più un minimo di 78,50 euro e un massimo di 134,60 euro per metro quadro.
Cifre insufficienti, ammesso che questi risarcimenti verranno effettivamente versati. Anche se a volte permanenti da generazioni, le abitazioni erano state costruite abusivamente su terreni di stato, come è considerata tutta la terra del Sinai.
L’obiettivo dichiarato del Cairo è quello di creare una zona cuscinetto di almeno mezzo chilometro lungo il confine con la Striscia di Gaza, per impedire l’arrivo di armi ed esplosivi dai tunnel e l’appoggio logistico della popolazione di Rafah.
Di questo parla infatti il decreto legge 1875/2014 emesso il 29 ottobre, che dispone l’evacuazione dell’area di Rafah e, in caso di rifiuto, lo sgombero con la forza. L’annuncio è stato dato in televisione, con tanto di ultimatum di 48 ore, e tanto è bastato alle autorità per ritenere singolarmente informate le famiglie prossime allo sgombero.
Il governo egiziano si trova a fronteggiare grandi problemi di sicurezza nel Sinai settentrionale, dove dal 3 luglio 2013 (il giorno della deposizione di Mohamed Morsi) sono stati uccisi almeno 238 membri delle forze di sicurezza, molti dei quali ad opera del gruppo armato islamista Ansar Bait al-Maqdishas.
Proteggere i confini è un dovere di ogni stato ma – questo vale per tutti – ciò va fatto evitando di violare i diritti umani delle popolazioni civili. Al di là delle conseguenze economiche e dell’impatto psicologico delle demolizioni, per la popolazione di Rafah la zona cuscinetto significa un’ulteriore separazione dai parenti che vivono nella Striscia di Gaza. E non è detto che finirà qui.
Il 21 novembre, infatti, il generale Abdel Fattah Harhour, governatore del Sinai settentrionale, ha dichiarato che, dopo aver svuotato un’area lunga 13,8 chilometri e larga 500 metri a ovest di Rafah, l’operazione potrebbe essere estesa per altri cinque chilometri per farvi rientrare e distruggere tutti i tunnel che portano alla Striscia di Gaza.
La massiccia presenza delle forze di sicurezza nel Sinai non sembra peraltro avere alcuna conseguenza sull’operato delle bande che da cinque anni gestiscono un turpe traffico di esseri umani dall’Africa sub-sahariana, che ha coinvolto decine di migliaia di vittime (soprattutto del Corno d’Africa, in particolare eritrei) sottoposte a sevizie, molte delle quali poi uccise.