Cronache di ordinario razzismo
23 09 2014
A giudicare dagli articoli e dal ritmo con cui vengono pubblicati, il quotidiano Il Tempo sembra aver ingaggiato una battaglia contro i cittadini rom presenti a Roma. Non è solo la frequenza con cui vengono scritti che sembra suggerire un’attenzione particolare del quotidiano rispetto all’argomento: i toni usati propongono al lettore una polarizzazione italiani-rom, dove questi ultimi sono identificati come coloro per i quali noi paghiamo ingenti somme di denaro. Lo scrivevamo a maggio, analizzando gli articoli pubblicati dal quotidiano romano “dedicati” alla minoranza rom e sinta presente nella Capitale (l’articolo qui).
Ad oggi, la situazione non è cambiata. Il Tempo sembra voler continuare a portare avanti una “sistematica campagna per diffondere un’immagine indistintamente negativa sulle comunità rom e sinte a Roma”, come scrive l’associazione 21 Luglio nella lettera indirizzata al direttore del quotidiano. Nella lettera, l’associazione chiede le motivazioni di questo continuo attacco mediatico, ricordando inoltre i numeri della presenza effettiva dei rom e sottolineando come la vera emergenza sia rappresentata dalla “discriminazione cumulativa che subiscono i minori rom e le loro famiglie in Italia”.
Sosteniamo l’iniziativa dell’associazione 21 Luglio, e segnaliamo la lettera inviata al direttore de Il Tempo.
Roma, 18 settembre 2014
Egregio Direttore Gian Marco Chiocci,
A partire dal mese di giugno 2014, e in particolare per tutto il mese di agosto, il quotidiano da Lei diretto si è reso artefice di una sistematica campagna di presunte inchieste giornalistiche con target le comunità rom e sinte presenti nella Capitale. In 3 mesi abbiamo assistito alla pubblicazione di 28 articoli, molti dei quali certificati da un apposito bollino “inchiesta”, nei quali si può rilevare un unico leitmotiv: diffondere e alimentare un’immagine indistintamente negativa e fortemente stigmatizzante di rom e sinti.
«La Capitale degli zingari», «Così i rom assediano la Capitale», «Quaranta nomadi assediano il quartiere», «Termini ancora regno delle zingare», «Sparatorie, furti e risse. Così i nomadi ringraziano»: sono solo alcuni dei titoli passati in rassegna nel corso dei mesi estivi. Lessico di guerra, generalizzazioni, continuo ed esclusivo accostamento a condotte antisociali, questi sono invece gli ingredienti scelti dai giornalisti de Il Tempo per preparare le loro “inchieste” e parlare direttamente alla pancia dei loro lettori, rispolverando uno dei più radicati stereotipi, quello dello “zingaro delinquente” in tutte le sue declinazioni. Anche dal punto di vista deontologico paiono ravvisarsi violazioni dei principi della Carta di Roma, visto il continuo ricorso a terminologia inappropriata (“nomadi”) e/o dispregiativa (“zingari”, “zingarelle”) e la continua insistenza sulla connotazione etnica di determinate condotte antisociali.
La “realtà” descritta nelle pagine de Il Tempo risulta parziale, dipinge una città sotto assedio da parte di una minoranza di cui il 50% sono bambini, e produce una stigmatizzazione indistinta e generalizzata in grado di fomentare e consolidare un clima di ostilità e di allarmismo sociale tra il pubblico dei lettori. La situazione di emergenza delineata dall’”inchiesta” non viene del resto supportata dai dati, in quanto a Roma la presenza di rom e sinti rappresenta appena lo 0,23% della popolazione totale – lo 0,07% se ci si riferisce ai soli abitanti degli insediamenti informali – numeri questi che da soli paiono ridimensionare le proporzioni dell’”invasione” paventata nelle pagine de Il Tempo.
L’autorevolezza dell’”inchiesta” risulta gravemente inficiata dall’assenza di pluralità nell’individuazione delle fonti: la voce dei rom, in particolare di coloro presso i quali sarebbero stati realizzati i “sopralluoghi” – protagonisti negativi e di fatto passivi dell’“approfondimento” giornalistico – non è in alcun caso contemplata né ascoltata dagli autori, negando così agli stessi qualunque possibilità di replica. Allo stesso modo, non viene approfondita la condizione sociale di tali comunità limitando fortemente la portata dell’“inchiesta” in termini di utilità ai fini dell’informazione, non essendo in grado, a causa di questi limiti, di fornire un quadro oggettivo della realtà.
Da una inchiesta giornalistica propriamente detta ci si aspetterebbe un approfondimento accurato su di una realtà complessa ed eterogenea, quale quella delle comunità rom e sinte che vivono negli insediamenti formali e informali della Capitale. Una realtà molto spesso caratterizzata da indigenza, quotidiana discriminazione e violazioni dei diritti umani, che difficilmente riesce ad arrivare sulle pagine dei giornali, se non filtrata attraverso la lente del pregiudizio e dello stereotipo.
Effettivamente i dati su rom e sinti parlano di un’emergenza; non, tuttavia, quella riguardante l’assedio profilato da inchieste come quelle realizzate dal quotidiano da Lei diretto, ma l’emergenza rappresentata dalla discriminazione cumulativa che subiscono i minori rom e le loro famiglie in Italia:
un minore rom ha 60 volte la probabilità di un minore non rom di entrare nel sistema italiano di protezione dei minori;
circa 15.000 persone rom sono a rischio apolidia, ovvero prive di documenti nonostante risiedano permanentemente e spesso dalla nascita sul territorio;
nell’anno scolastico 2013/2014 gli alunni rom e sinti sono diminuiti, attestandosi a 11.481 iscritti, il numero più basso degli ultimi sei anni, mentre il 63% delle persone rom rispondenti a un sondaggio dell’UE del 2011 ha dichiarato di aver lasciato la scuola prima dei 16 anni (il 21% ha dichiarato di non aver mai iniziato un percorso scolastico);
il 66% delle persone rom intervistate nel 2011 in Italia per conto dell’UE ha dichiarato di essersi sentita discriminata a causa della sua etnia nel corso dell’anno precedente;
l’Italia è l’unico paese europeo che mantiene e gestisce un sistema abitativo parallelo e segregante riservato a soli rom: i c.d. “campi nomadi”;
in Europa le persone rom hanno un’aspettativa di vita mediamente più bassa di circa 10 anni rispetto al resto della popolazione.
Non possiamo poi dimenticare che nel nostro Paese 4/5 dei rom vivono lontano dalla marginalità sociale dei “campi nomadi”, in abitazioni ordinarie, conducendo una regolare attività lavorativa.
Dare visibilità ai dati di cui sopra e descrivere la condizione di rom e sinti nella sua interezza non è un gesto di bontà ma un indice della volontà e capacità di produrre un’informazione di qualità in maniera professionale, responsabile e al servizio dei cittadini.
Cordiali saluti,
Associazione 21 luglio
Dinamo Press
25 07 2014
Dopo lo sgombero di ieri Zam rilancia la sua battaglia dentro la metropoli milanese che dal prossimo maggio ospiterà l'Expo 2015. Intanto la giunta Pisapia continua a lavarsene le mani.
Inutile nascondercelo, lo sgombero di Zam non è stato solo frutto della non volontà politica da parte di questa amministrazione di prendere parola in merito alla questione degli spazi sociali ma è anche figlio delle logiche di cambiamento e mutamento che stanno attraversando Milano in vista del grande appuntamento di Expo 2015.
In una città che risponde sempre di più alle logiche del mercato, che si sta mettendo addosso il bel vestito della città vetrina un luogo liberato come era Zam in Largo Don Gallo (ex via Santa Croce 19) era scomodo e faceva paura a chi non aveva altri interessi se non quello di normalizzare la zona del Ticinese e proseguire quindi in quel processo di gentrificazione che ha radicalmente cambiato il modo di intendere, vivere e agire la città stessa.
Al termine di una lunga giornata di mobilitazione, iniziata sin dal mattino presto, proseguita con un presidio e la convocazione del tavolo sugli spazi sociali al di fuori delle mura di Zam abbiamo deciso di attraversare Milano con un corteo per ribadire ancora una volta che per noi queste logiche di speculazione e devastazione foriere di debito cemento e precarietà non possono essere accettate e passare sotto silenzio ma che debbono essere combattute e rese pubbliche ogni giorno.
Per questo motivo il corteo che ha preso il via da Largo Don Gallo dopo aver percorso poche centinaia di metri ed essere arrivato in prossimità del cantiere di Expo 2015 sulla Darsena ha deciso di effettuare un blitz dimostrativo all’interno al fine di denunciare tutto ciò.
Il vento di Expo unito alla forza gentile dell’amministrazione arancione è un mostro che va fermato, non possiamo restare passivi di fronte alla devastazione di una città intera e di fronte a sgomberi come quelli visti in questi ultimi 3 anni ( maggiori di numero rispetto anche a quelli effettuati dalla giunta Moratti) perché il filo conduttore è unico ed è sulla base di questo che dobbiamo agire per affermare la nostra esistenza ed identità e lottare.
ZAM (per ora senza fissa dimora)
Lambretta
Dinamo Press
23 07 2014
Ancora uno sgombero per Zona Autonoma Milano. Gli attivisti e le attiviste resistono allo sgombero del centro sociale, arrivato mentre il Comune di Milano apre un tavolo di trattativa con gli spazi sociali. Diverse cariche molto violente e almeno cinque feriti.
Il comunicato di ZAM a sgombero in corso:
Sgombero ZAM, si sta come d’estate sui balconi gli occupanti
Stanno sgomberando Zam: tutti in piazza Santa croce adesso, alle 18.30 tavolo sugli spazi sociali davanti ai cancelli di Zam, alle 19.30 mobilitazione!
6, 13 e 20 settembre: paghi due prendi 3, occupiamo tutti i weekend.
Con le prime luci del mattino, giungono i “signori” dell’ordine vestiti di un blu scuro tendente all’arancione.
Zam, un luogo liberato, riconsegnato alla città dopo anni di abbandono, viene di nuovo svuotato dalla “forza gentile” che ormai da anni promuove il suo silenzioso processo di normalizzazione, creando un deserto che chiama cambiamento.
Noi in questo deserto abbiamo imparato a costruire nuclei di resistenza che non accettano nessun tipo di asservimento alle logiche di governo di questa città, spazi di costruzione politica e produzione di cambiamento, che vanno anche al di là di questi muri.
Ci ritroviamo dunque fuori dai cancelli di Largo Don Gallo (ex via santa croce 19), ma non per questo svuotati e senza una meta.
Il primo passo: riconoscere il mandante e responsabile di questo sgombero, il Comune di Milano.
Questa amministrazione, nella sua totale incapacità di costruire dialoghi reali con gli spazi sociali, si nasconde dietro tecnicismi di dubbia valenza, dimostrandosi (per l’ennesima volta) un generatore di sgomberi.
Un’amministrazione che propone un tavolo di dialogo con la città sul tema spazi senza nemmeno renderlo pubblico sin dal suo principio, senza nemmeno avere il coraggio di nominare i “centri sociali” sui comunicati ufficiali, ma soprattutto senza una reale proposta politica in grado di tradurre in fatti i tanto paventati propositi di valorizzazione degli spazi sociali e delle esperienze che in essi vivono come risorsa per la città, scegliendo piuttosto di continuare a dialogare con l’unico vocabolario che tutti già conosciamo: sgomberi e sfratti.
È chiaro che questo vento prepara la metropoli e l’Italia intera a Expo 2015, una macchina ben più grande e pericolosa, portatrice di debito, cemento e precarietà.
E ora torniamo a questi muri che, seppur a noi molto cari, non sono e non saranno mai l’unico spazio politico in cui agire il nostro conflitto.
Crediamo che la forza di un discorso politico significativo e includente possa e debba attraversare la nostra metropoli, sia all’interno che all’esterno dei nostri muri.
Ed è per questo che ribadiamo la necessità di essere generatore continuo di conflitto e della sua materialità, creando nuovi spazi di discussione, lontani dalla pavidità dei tavoli tremendamente traballanti.
Poniamo sin da ora la nostra risposta a questa ennesima creazione di vuoto, invitandovi ad essere qui con noi da subito, per le prossime ore, ma sopratutto nei prossimi due mesi, al fianco del csoa Lambretta e di tutti i luoghi in pericolo.
In tutti i nostri futuri spazi, che saranno piazze, mattoni e sogni.
E sono tutte queste le ricchezze di cui non vi libererete mai.
#crollateprimavoi, anzi siete già crollati.
Sgombero in corso:
invitiamo tutti i solidali a raggiungerci al presidio permanente piazza sant’Eustorgio
ore 18.30: un tavolo dal basso
Convochiamo noi un tavolo dal basso, invitando tutti i soggetti interessati a partecipare per portare la propria idea sulla questione spazi in città. Davanti ai cancelli di Zam.
ore 19.30: mobilitazione in città
stay tuned.
Settembre:
6/7 settembre 2014
reclaim the space
abbiamo bisogno di spazi, occupiamoli.
13/14 settembre 2014
reclaim the dreams
abbiamo bisogno di sogni, occupiamoli.
20/21 settembre 2014
reclaim the base
abbiamo bisogno di basi, occupiamole.
27/28 settembre 2014
reclaim the voice
minima et moralia
22 07 2014
di Cristiano Armati
In una Roma messa a dura prova dal caldo e da un anno in cui la spinta repressiva ha toccato altissimi livelli, la notizia è stata di quelle comunque in grado di arrivare come una frustata in faccia alla città: «Stanno sgomberando il Volturno!».
Erano le otto e un quarto del 16 luglio quando un indignato passaparola ha fatto accorrere davanti al portone dell’ex cinema occupato un centinaio di attivisti, ma era già troppo tardi. Numerosi blindati avevano sbarrato le vie limitrofe e nutriti cordoni di celerini, facendo ondeggiare ritmicamente il manganello, non nascondevano di certo le loro reali, voluttuose idee di violenza. La stessa violenza che, nel nome della legge, si scatenava sugli spazi del Volturno, aggredito da picconi immediatamente in grado di demolire arredi e pavimenti, producendo nel giro di un’ora un’immagine in grado di commentarsi da sola: ci sono voluti sei anni per fare del Volturno un teatro aperto alla città e uno degli sportelli del diritto alla casa più noti a livello nazionale, mentre nel giro di appena sessanta minuti tutto è stato distrutto senza nessuna remora. Mancano effettivamente le immagini dei celerini che pisciano per dispetto sugli oggetti degli occupanti, ma alla resa dei conti, quando c’è stata la possibilità di entrare per recuperare le cose più importanti, diverse parti dell’impianto luci e audio risultavano assenti: qualcuno tra poliziotti e operai assoldati per l’apertura della porta se li era rubati!
Tra le questioni sociali che in questo momento a Roma scottano di più, c’è senz’altro la ferma volontà della prefettura – autentico sindaco-ombra della capitale – di “normalizzare” gli spazi sociali attivi sul territorio, promuovendo una campagna di sgomberi che mette a rischio, insieme ai luoghi liberati, gli strumenti dell’organizzazione dal basso e dell’autogestione. Lo stesso articolo 5 della mai abbastanza bestemmiata Legge Lupi, d’altro canto, nel momento in cui arriva a imporre il divieto di allacciare utenze a chi vive in spazi occupati, non sferra soltanto un infame attacco alla realtà delle occupazioni abitative, ma estende la sua portata su tutti gli spazi sociali, ed è, in ultima istanza, una delle cause profonde dello sgombero del Volturno a ben sei anni di distanza dalla sua occupazione. Niente di strano, dunque, se un simile atto sia riuscito a raccogliere una solidarietà ampia: la stessa solidarietà che, nella serata di giovedì 20 luglio, ha portato oltre tremila persone a conquistare il percorso di un corteo non autorizzato, ma in grado comunque di attraversare il centro della città, da piazza Indipendenza fino a Porta Pia.
«Il Volturno», si diceva nel corteo parafrasando Vittorio Arrigoni secondo cui l’attacco a Gaza comincia sull’uscio della casa di chiunque, «è la nostra Palestina»: una situazione in cui, di fronte all’incomparabile superiorità di uomini e mezzi messi in campo dalla speculazione, bisogna in ogni caso trovare il modo di autorganizzarsi per dare una risposta concreta, pena un arretramento generalizzato del concetto stesso di diritto all’abitare fino a livelli difficilmente pensabili – nelle intenzioni dei padroni, ovviamente, fino al suo annientamento.
Mentre la rabbia e le lacrime del corteo defluivano, gli speculatori non restavano a guardare, né ovviamente davano prova di alcuna sensibilità. Il primo atto dei padroni del Volturno (le società che risultano eredi di ciò che è stato uno dei lotti messi in vendita dopo il fallimento Cecchi Gori appaiono come una serie di nebulose scatole cinesi), non a caso, è stato il gesto di asportare il murales di Sten e Lex che faceva bella mostra di sé all’entrata dell’ex cinema, per coprire il portone con una triste mano di vernice nera.
Qui le contraddizioni si fanno talmente fitte da riuscire a tagliarsi con il coltello. Il giorno stesso dell’occupazione del Volturno, infatti, si insediava a Roma Giovanna Marinelli in qualità di nuova assessora alla cultura. Una nomina politicamente in linea con le mosse del governo centrale, un personaggio che, iniziando a parlare di cultura a Roma, ha immediatamente specificato come questa possa essere salvata soltanto con l’intervento dei privati. Ed eccoli qui i privati santificati dallo sfrenato neoliberismo renziano: sono gli stessi che, mettendo le mani sul Volturno, procedono immediatamente alla distruzione di un’opera d’arte realizzata da due artisti di strada come Sten e Lex, i classici esempi di artisti che “tutto il mondo ci invidia”, senz’altro tra i nomi più importanti della street art internazionale, artefici di lavori in grado di conquistare gli appassionati di tutti i continenti e di trovare spazio persino in importanti ambiti museali (digitare il loro nome su Google per credere).
Ma parlare di queste cose con gli speculatori, ed evidentemente anche con i politici impegnati nella loro copertura, è davvero gettare le parole al vento. Quale ridicolo buzzurro, infatti, trovandosi in possesso di un’opera d’arte bella e importante come il pezzo di Sten e Lex al Volturno avrebbe come prima cosa deciso di distruggerla?
Quale crasso ignorante avrebbe proceduto a cancellare un pezzo dalla simile portata senza minimamente mettersi nell’ottica della sua cautela?
Ai padroni del Volturno, ma anche ai loro referenti politico-polizieschi, verrebbe da chiedere: che cosa altro fate nel chiuso delle vostre case? Mangiate ficcando il grugno in un trogolo? O per pulirvi il culo usate le mani?
Sarà anche il caso di sottolineare che se Sten e Lex avevano lavorato sul portone dell’ex cinema Volturno, all’interno del cinema c’è o c’era una delle più interessanti collezioni di street art capitolina, con opere di Hogre, Diamond, Solo, Borondo, Omino 71 e di tanti altri grandi dell’arte urbana, come il collettivo teatrale artefice di una serrata programmazione aperta a tutta la città (gratuitamente) e lo sportello per il diritto alla casa, trattati alla stregua di carta straccia dal famigerato partito della legalità, un’accolita di soggetti il cui comportamento – l’accanimento contro le opere d’arte e la loro distruzione – denota nei confronti della “cultura” lo stesso interesse che i palazzinari sono soliti accordare alla qualità del cemento utilizzato per le loro grandi opere speculative.
Lo scandalo dello Sten e Lex distrutto, naturalmente, non ha trovato alcuno spazio sui giornali. Ma come potrebbe essere altrimenti?
Sarà appena il caso di ricordare che ancora recentemente una “giornalista” (?!?) de «la Repubblica» ha appellato con il termine di «imbianchino» un artista come Blu nel momento in cui, tanto per restare sul terreno del rapporto tra arte e spazi occupati romani, dopo essersi occupato delle facciate di Acrobax e prima di dedicarsi ai muri di Alexis, realizzava un capolavoro davvero ammirato in tutto il mondo sulle facciate di Porto Fluviale.
La giornalista de «la Repubblica», dopo l’infelicità del suo pezzo, venne pubblicamente sbeffeggiata da chiunque avesse avuto un minimo di interesse per parole come “riqualificazione urbana” o, semplicemente, “arte” e “cultura”. Nel caso del Volturno, dunque, meglio scegliere il silenzio: continuare a dare corpo alla disinformazione e fare finta di nulla finché negli spazi dell’ex cinema possa finalmente concretizzarsi la destinazione pensata dai padroni, vale a dire una patetica sala slot, l’ennesimo tempio delle macchinette mangiasoldi da tirare su nel cuore di Roma.
Le chiacchiere stanno a zero. E anche la neo assessora alla cultura, in vista del tavolo strappato per il 21 luglio dopo un’azione animata dal collettivo teatrale del Volturno e dagli attivisti del diritto all’abitare, dovrà essere chiamata ad esprimersi chiaramente su questo. L’unico modello di evoluzione degli spazi cittadini presente nella testa dei padroni della metropoli è quello di un degrado assistito dalla presenza di sale slot che spuntano come funghi: poli delinquenziali in grado di far convergere in un unico amalgama e di nascondere dietro macchinette mangiasoldi stratificati interessi di tipo mafioso, dallo spaccio di cocaina in grande stile fino allo sfruttamento della prostituzione. E quale luogo migliore del Volturno per realizzare un progetto del genere?
Roma possiede già intere arterie, basti pensare al tratto finale della via Tiburtina, in cui questo modello di (sotto)sviluppo è più che una realtà: è l’imposizione violenta di quel divieto di pensare e agire che i padroni hanno conquistato impedendo ai cittadini di vivere le proprie strade e di imprimere il segno della loro presenza alle vie che abitano, orientandone aspetto e destinazione d’uso. Siamo davvero, e la distruzione dell’arte contenuta dal Volturno lo dimostra, alla nuova preistoria di pasoliniana memoria: un’epoca in cui, nel nome della messa a valore totalitaria di tempi e spazi, qualunque complessità di tipo intellettuale, culturale ed esistenziale viene messa al bando a favore di progetti capaci di rimuovere ogni sorta di rapporto dialettico con l’essere qui e ora come collettività e di consegnare al futuro le facce di una stessa medaglia: le asettiche e scintillanti vie del centro commerciale per le necessità diurne, le strade sordide delle slot machine per gli impulsi notturni; il trionfo del consumo e la polizia ovunque, la cultura e il diritto all’abitare da nessuna parte. Questo è il mondo che vuole essere disegnato addosso a tutte e a tutti. Mentre se non si sarà in grado di opporre un’argine all’esondazione di arroganza padronale che ha appena sommerso il Volturno, il governo dei comitati d’affari attualmente e schifosamente al potere continuerà a ghignare, a distruggere opere d’arte, ad affondare il grugno in città trasformate in mangiatoie e, per pulirsi il culo, ad usare le (nostre) mani.