Dazebao News
18 09 2015
Secondo i dati trasmessi prima dell’estate dal Ministero dell’Interno, sono mediamente 30.000, in Italia, le donne che annualmente denunciano un uomo per soprusi di vario tipo: violenza, stalking, maltrattamenti psicologici ed economici. Un numero impressionante se si considera il sommerso. Proprio quest’ultimo risulta il più inquietante, un po’ perché lascia intravedere una cultura maschile della prevaricazione che a dispetto dell’evoluzione sociale e tecnologica sembra inossidabile, ma anche perché denuncia ancora una forte componente di ignoranza, nel senso buono del termine. Donne che non sanno come difendersi e soprattutto non considerano che la Legge, lo Stato e una serie di organismi del mondo civile sono dalla loro parte, pronti ad aiutarle.
A questo scopo, un gruppo di professioniste impegnate nella lotta alla violenza subita da donne e minori - grazie a un’idea di Alessia Sorgato, la penalista vittimologa autrice di “Giù le mani dalle Donne” – ha recentemente aperto una pagina Facebook opportunamente denominata “Donne che imparano a difendersi”. Una porta aperta per tutte coloro che, vivendo una situazione drammatica di sistematici soprusi, vogliono capire come uscirne, in modo legale.
“Dopo un ventennio di esperienza professionale – dichiara Alessia Sorgato – “insieme ad alcune amiche, psicologhe e assistenti sociali, ho deciso di fondare questa ‘comunità’, con l’intenzione di diffondere una cultura della dignità, del diritto e dell’affrancamento da qualsiasi tipo di prevaricazione. Il più grande nemico di una donna che subisce in silenzio è la paura di parlarne e di riconoscere che questo tipo di problema non si risolve mai da solo. Questo è lo spirito della nostra comunità: infondere sapere e coraggio. Chiunque voglia avere un consiglio o sapere come difendersi, producendo prove oggettive a dispetto del classico ‘La mia parola contro la tua’, può scriverci senza nessun obbligo. Solo per iniziare a ragionare sulla base di un’informazione qualificata. Risponderemo a tutte, utilizzando il vasto Know-how che abbiamo accumulato affrontando le situazioni più disparate. Chiedere può essere l’inizio di un percorso che porta alla liberta e alla riconquista di quella dignità e di quei valori che dovrebbero essere alla base della vita di ogni essere umano”.
Dinamo Press
18 09 2015
Zuckerberg vuole davvero inserire il tasto col pollice verso sulle nostre bacheche? Probabilmente no, ecco perché.
Con ogni probabilità, se state leggendo questo testo è perché qualcuno – un compagno delle scuole medie su Facebook, un influencer su Twitter – lo ha diffuso nei social network. Avrete così modo di assegnare un bel mi piace nel caso sia comparso sulla vostra timeline o di cliccare sulla stellina nel caso sia stato propagato tramite cinguettio.
Se, al contrario, disapprovate questo scritto, perché non siete d'accordo o perché riferisce cose che vi preoccupano, non vi sarà sufficiente un semplice clic. Avrete un solo modo di esprimere il vostro disappunto oppure il vostro sgomento: dovrete commentare, scrivere qualche parola, lasciare il mouse e utilizzare la tastiera per mandare l'autore a quel paese, manifestare sdegno o spiegare garbatamente dissenso.
Qualche giorno fa, nel corso di una session di Question&Answer al quartier generale di Menlo Park, il grande capo di Facebook Mark Zuckerberg, ha annunciato quella che è parsa una piccola rivoluzione. “La gente ha chiesto il pulsante non mi piace per molti anni e oggi è un giorno speciale perché è il giorno in cui dico che ci stiamo lavorando e siamo molto vicini al lancio del test”. Ha proseguito sostenendo che il tasto dislike “potrebbe permettere agli utenti di esprimere le emozioni in modo più realistico, piuttosto che avere una sola scelta“.
Ad una prima lettura pare lineare. Facebook ha lo scopo di spingere un miliardo e mezzo di utenti a condividere in tempo reale le proprie vite per metterle a valore. È grazie a questo coinvolgimento diretto che raccoglie l’8 per cento della pubblicità on line, tallonando Google con 17 miliardi di dollari di fatturato. Lavora più sulle emozioni che sugli elementi razionali e accontenta una richiesta. Col tasto non mi piace produce un'offerta che possa incrociare la domanda sul mercato delle passioni, delle condivisioni della cooperazione. La notizia si è diffusa come accade quando arriva un annuncio atteso, è stata accolta con sollievo, quasi come una vittoria democratica. I giornali rilanciano la cosa e sulle bacheche fioccano i like. Finalmente il tasto non mi piace, è quello che chiediamo da anni!
L'innovazione è apparsa meno netta già all'ascolto della dichiarazione integrale del Ceo di Facebook, Zuckerberg spiegato che non si limiterà a introdurre un bottone di dissenso e che la vicenda è più articolata. La questione del piacere o non piacere, insomma, non è liscia come sembra. E ci sono diversi motivi per ritenere che l'Operazione Dislike non convince appieno il management del Libro delle facce. In primo luogo, c'è il fatto che dopo anni di diffusione esponenziale, Zuckerberg e soci sanno benissimo che la giostra delle bacheche funziona molto grazie alla polarizzazione dei contenuti.
Torniamo alla questione dalla quale siamo partiti: se scrivo qualcosa che ti trova d'accordo o se posto un'immagine che incontra il tuo gradimento, ti limiterai a mettere mi piace. Tuttavia, la spinta condividere e produrre contenuti (che è ciò che interessa all'Uomo in Ciabatta) viene più facilmente dal disaccordo che dall'empatia. Per questo motivo è esistito soltanto il tasto mi piace. Perché, al di là della semplice (e fugace) dimostrazione di consenso, si scrive, si producono altri post, ci si dilunga, allo scopo di manifestare dissenso, marcare differenze, polemizzare, costruire affinità. Se esistesse il tasto non mi piace, in altre parole, si rischierebbe di arginare un dispositivo essenziale, uno spazio maggioritario e decisivo ai fini del coinvolgimento: quello del flame, della diatriba, del contraddittorio che a sua volta ne produce altri, costringe a schierarsi e a cercare consenso, a scrivere altri post o più facilmente a mettersi al traino di utenti forti che fungono alla bisogna e che attirino, questa volta sì, dei like funzionali a pareggiare i dislike manifestati per iscritto, o con immagini e video. È una dinamica non unidirezionale e neanche per forza futile: per l'eterogenesi dei fini e per via del fatto che non esistono poteri perfetti e controlli assoluti, ha prodotto anche moti di indignazione.
La faccenda pare relegata ad aspetti di costume 2.0 ma è di fondamentale importanza, visto che è su piattaforme come Facebook che ormai molti selezionano le notizie, si fanno un'idea del mondo. Come sarai oggi? Spaventato oppure ottimista? Ci sarà un'invasione di migranti oppure avrai modo di salvare il mondo cliccando sul sito che difende i coniglietti abbandonati? Il modo in cui dall'algoritmo EdgeRank in poi Facebook seleziona i contenuti che appaiono sulla linea del tempo di un utente influenza direttamente il suo umore.
È la vita che scorre ogni giorno sulla nostra timeline a insegnarcelo.
Giuliano Santoro
Huffington Post
27 08 2015
Vedono la foto di questo profugo siriano nei social, lo rintracciano a Beirut per aiutarlo a sfamare la figlia
Un profugo siriano è stato rintracciato a Beirut grazie al passaparola degli utenti Twitter che si sono mobilitati dopo aver visto una foto dell'uomo mentre vende penne Bic lungo la strada.
L'immagine è stata condivisa centinaia di volte anche su Facebook, provocando una intensa commozione soprattutto per il fatto che il profugo porta in braccio la figlioletta addormentata.
"Vorrei aiutarlo, chi sa come trovarlo?", propone a un certo punto un commentatore. Sul profilo di Sakir Khader improvvisamente un utente, molto probabilmente libanese, dichiara di avere già visto l'uomo e indica la strada dove pensa di averlo incontrato con la figlia. A quel punto nasce un account Twitter con il nome #BuyPens (compera le penne) per provare a rintracciare il protagonista della foto e aiutarlo.
In poche ore l'attivista di una ong di Beirut, "Lebanese for refugees", annuncia di aver trovato il richiedente asilo.
Laura Eduati
La Stampa
02 04 2015
C’è un Medioriente che rimbalza sui media internazionali attraverso immagini di guerra, città assediate, popolazioni in fuga, onde di giovani e libertari sognatori in apparenza condannate a infrangersi sulle mura delle caserme o delle moschee. Ma c’è un Medioriente meno rumoroso, più quotidiano, vitale nella sua routine al punto da non fare notizia. È il Medioriente che gli abitanti immortalano ogni giorno con gli smartphone, armi di costruzione di massa per una normalità su cui i social network appuntano il marchio unico dell’eccezione.
In Giordania, in Iraq, in Turchia, negli Emirati, in Tunisia, Instagram, sorta di variante fotografica di Facebook e Twitter, va per la maggiore. In Egitto la fashion blogger Farah Emara ne ha fatto la passerella per le sue creazioni accessoriate di turbante, in Libia i giovani che nel 2011 iniziarono la rivoluzione contro Gheddafi lo usano come finestra sulla loro resistenza quotidiana alla tragica dissoluzione del Paese.
C’è vita in Medioriente e a raccontarla ci pensa la mostra fotografica «Everyday Middleast», 80 scatti realizzati con il tablet che accompagnano la sesta edizione di Middle East Now (www.middleastnow.it), il festival internazionale di cinema, musica e cultura mediorientale che si svolge a Firenze dall’11 aprile al 10 maggio (la mostra è nella Galleria Etra Studio Tommasi).
Cercando la normalità
L’idea è un po’ quella dell’insostenibile e per questo salvifica leggerezza dell’essere, vale a dire come sopravvivere quando tutto complotta per sabotare la routine. I 25 fotografi di «Everyday Middleast», tra cui alcuni professionisti di fama internazionale, tratteggiano esistenze per nulla diverse dalle nostre nonostante in lontananza, alle spalle di chi scatta, si possa immaginare l’eco dei bombardamenti o l’esplosione di una autobomba.
In fondo è sempre stato così, la guerra e la violenza del terrorismo non hanno mai impedito agli uomini e alle donne di continuare a vivere. Ma oggi la possibilità che chiunque ha di fissare al volo il momento in cui i propri figli mangiano il gelato davanti a un commissariato di polizia del Cairo appena colpito da un attentato rende la normalità più forte della paura. Così, per esempio, l’immagine dei ragazzi e delle ragazze di Manama intorno ai tavolini del caffè Lilou descrive una gioventù viva che nel 2011, pur ignorata dal mondo, ha animato le piazze del Bahrein esattamente come facevano i coetanei dell’Egitto e della Tunisia.
Quando i media internazionali che 4 anni fa si sono innamorati delle primavere arabe si chiedono dove siano finite quelle società civili, la risposta è nella quotidianità, nel privato, nello spazio di libertà recuperabile dal presente.
Avanti, nonostante tutto
«I ragazzi sono molto più vivaci oggi che prima della rivoluzione del 2011, ma più che per l’attività politica usano il Web per fare attività sociale» ragiona un noto blogger egiziano in una Cairo in cui lo stridore di clacson e freni copre quello delle sirene della polizia in azione ad ogni allarme attentato (almeno quattro volte al giorno). Le due vigilesse in bianco della foto della mostra sono un po’ l’icona di un Paese che va avanti come se niente fosse, come se il traffico non strangolasse la città (rispettare il codice della strada era una delle massime della leggendaria piazza Tahrir), come se le divise potessero restare davvero immacolate in barba a un inquinamento senza eguali, come se le donne in mezzo alla strada non venissero sistematicamente molestate, come se fermare la realtà senza ritocchi e senza mediazioni la rendesse più fluida e godibile. Anche per noi, da qui, così lontani dal Mediterraneo e così vicini.
Francesca Paci