La 27 Ora
02 07 2015
È arrivato ultimo, ma in un certo senso è il primo. Perché con l’apertura alle studentesse transgender votata dal Barnard College qualche giorno fa, tutte le Seven Sisters — gli storici college femminili privati a indirizzo umanistico del Nordest degli Stati Uniti — hanno modificato le proprie politiche di ammissione per riconoscere la fluidità dell’identità di genere e adattarsi a una società in evoluzione.
«Barnard valuterà per l’ammissione candidati che vivono da e si identificano costantemente con le donne», ha annunciato la presidente Debora Spar. Escludendo, in questo modo, gli uomini trans, cioè coloro che, nati femmine, hanno poi assunto un’identità maschile: per le persone transgender vale sempre il genere di arrivo. Anche se, precisa il college affiliato dal 1900 alla Columbia University, la decisione non toccherà coloro che iniziano la transizione dopo l’iscrizione (e quindi gli uomini trans continueranno a studiare e a laurearsi a Barnard). Questo nel tentativo di conservare la vocazione storica del college, che ha da poco celebrato il suo 125° anniversario, come istituzione femminile. «Se tutte le posizioni in merito erano molto sentite», ha osservato Spar, che negli ultimi mesi aveva indetto sull’argomento vari consigli d’istituto, oltre a consultazioni con ex allievi, «due sono apparse subito chiare e irrefutabili: che Barnard dovesse riaffermare la propria missione di college per le donne e che dovesse ammettere anche studentesse trans».
Una decisione applaudita dalla comunità transgender e non solo, anche se dubbi rimangono sul termine «costantemente», usato in precedenza anche da Wellesley. Perché è difficile, fa notare Genny Beemyn dell’Università del Massachusetts ad Amherst, per un adolescente vivere apertamente da trans negli anni del liceo: anche se i genitori l’appoggiano, può diventare oggetto di bullismo dai compagni.
Nell’ultimo anno, ciascuno degli storici college — che in realtà non sono più sette da tempo, avendo Vassar aperto agli uomini nel 1969 e Radcliffe chiuso i battenti nel 1999, in seguito alla fusione con Harvard — ha messo a punto la propria formula per includere studenti transgender. La decisione di Barnard di aprire alle trans donne è in linea con quanto già fatto da Wellesley a marzo (che in più accetta studenti nati donne ma che non si identificano né con le femmine né coi maschi) e dallo Smith a maggio. Mentre Mount Holyoke, la prima delle Seven Sisters a cambiare, lo scorso autunno, le regole per l’ammissione, e più recentemente Bryn Mawr, hanno optato per ammettere sia donne che uomini trans e genderqueer. Altri college femminili che hanno modificato le proprie politiche per aprire alla comunità transgender sono il Mills College di Oakland, in California, il primo in assoluto a compiere questo passo, un anno fa, e il Simmons College di Boston. Mills, come Mount Holyoke, accetta donne e uomini trans; Simmons, come Wellesley, accetta sia donne trans che studenti nati femmine ma che non si identificano né come donne né come uomini. Come a Barnard, anche a Smith, Wellesley e Simmons, uomini trans che iniziano la transizione dopo l’iscrizione possono comunque laurearsi.
Includere gli studenti trans, e in particolare donne trans, come «aggiornamento» della propria missione, insomma, non come rinuncia ad essa. Una grande dimostrazione di modernità e lungimiranza da parte dei college femminili, la cui vocazione è di proteggere e allevare il pensiero femmina, aiutando le donne a sviluppare il proprio potenziale e diventare leader in una società ancora patriarcale. Un’apertura che manca, invece, ai college maschili. Una decisione, in realtà, non più prorogabile, dopo l’accelerazione della riflessione sull’identità di genere e la comunità transgender che diventa mainstream. Non solo Caitlyn Jenner su Vanity Fair, Laverne Cox di «Orange Is the New Black» su Time e la serie fresca di Golden Globe «Transparent» su un padre che diventa donna. A dicembre, quello di New York era diventato il nono Stato USA, dopo la California, il Colorado, il Connecticut, l’Illinois, il Massachusetts, l’Oregon, il Vermont e Washington (ma c’è anche Washington, D.C.) a obbligare per legge le compagnie assicurative a coprire le terapie ormonali e gli interventi chirurgici per il cambio di sesso in presenza di disforia di genere. A ottobre, in una mossa contestata, l’Oregon era diventato il primo Stato a offrire agli adolescenti trans, attraverso il programma assistenziale pubblico Medicaid, la copertura assicurativa di farmaci per ritardare o sopprimere la pubertà.
E al di qua dell’Atlantico, il St Catharine’s College dell’università di Cambridge, fondato nel 1473 e che aveva aperto alle donne nel 1979, ha rivisto il proprio rigidissimo dress code per permettere agli studenti maschi di indossare gonne e alle femmine di portare i pantaloni alle cene formali. La prima apertura di questo genere, a Cambridge, alla comunità transgender, decisa dopo la protesta di uno studente che l’anno scorso aveva iniziato la transizione a femmina. «Adesso ogni studentessa potrà indossare un completo da uomo, se vorrà, e i maschi non saranno più tenuti a mettere cravatte e pantaloni, ma potranno andare a cena anche col tubino”». Unica regola rimasta, l’eleganza — dopotutto sono inglesi. «Speriamo tutti che il cambiamento farà sentire più a loro agio studenti transgender e genderqueer».
Non tutti sono d’accordo. In Virginia, il college della Hollins University ha ribadito che conferirà diplomi di laurea alle sole donne, e che le studentesse che si sottoponessero a terapie ormonali o interventi chirurgici per cambiare sesso, o che anche solo prendessero legalmente un nome maschile, saranno aiutate a trasferirsi in altri istituti. E a ottobre, quando ancora pochissimi college femminili americani avevano adottato politiche inclusive, il New York Times Magazine aveva dedicato all’argomento una storia di copertina, chiedendosi provocativamente, «Che ne è della missione di un college femminile quando le sue studentesse diventano uomini?».
Il settimanale portava l’esempio del «transmascolino» Timothy, uno di 24 studenti di Wellesley — metà dei quali maschi trans, l’altra genderqueer — che non si riconosceva nel genere femminile. Nato e cresciuto femmina, al liceo Timothy aveva fatto coming out. Poi però, come tanti giovani transgender, aveva scelto un college femminile per tenersi al riparo dal bullismo, e nella domanda di ammissione, compilata con la madre, alla voce «genere» aveva selezionato «femminile». Una volta ammesso, però, aveva chiesto ai compagni di chiamarlo Timothy e usare per lui pronomi maschili. L’anno scorso Timothy ha deciso di candidarsi, come multicultural affairs coordinator, al gabinetto del governo studentesco, la posizione più alta mai ambita da uno studente apertamente trans a Wellesley. Per lo stesso posto correvano tre donne di colore, e quando tutte e tre, per vari motivi, si sono ritirate, su Facebook è partita una campagna per l’astensione, affinché Timothy non raggiungesse il quorum. Le argomentazioni contro di lui erano ovvie: un uomo, specie bianco, quindi membro della maggioranza, non può occupare ruoli di leadership in un college femminile, perché mina la vocazione stessa del college come nutrice di aspirazioni femminili. Timothy aveva replicato che, in quanto membro di una minoranza ancora più ristretta delle donne, era un ottimo candidato a rappresentare minoranze. E però capiva: «Non voglio certo perpetuare il patriarcato».
Va detto che i college femminili non hanno sempre avuto vocazione femminista. Nati nell’Ottocento, quando la maggioranza delle università, americane e non solo, era riservata agli uomini, se da un lato erano considerati radicali perché offrivano alle donne l’accesso all’educazione, dall’altro reiteravano gli stereotipi del tempo. L’educazione universitaria era mirata quasi sempre ad accasarle meglio, con corsi di economia domestica e interior design — tanto che un’espressione popolare era la «laurea in Mrs.», cioè da signora. Donne con un’educazione superiore, si diceva, sarebbero state mogli e madri migliori, avrebbero allevato cittadini informati. Così a Wellesley, anche nei primi anni Sessanta, veniva insegnato alle studentesse come caricare le buste della spesa su una station wagon senza mostrare le cosce.
Con il movimento di liberazione femminile, però, le cose cambiarono. La segregazione accademica basata sul genere apparve sempre più datata. Una grande maggioranza di donne optò per scuole miste, e i college femminili diminuirono da 300 ai meno di 50 attuali. Quelli che sopravvissero si reinventarono come avanguardie del pensiero femmina e «antidoto» al sessismo. Dagli anni Settanta, i college femminili preparano le donne a diventare leader, infondono loro fiducia — e le statistiche confermano. Una studentessa di un college femminile, per esempio, ha più probabilità di altre di scegliere una professione tradizionalmente dominata dai maschi. Le laureate a Wellesley, in particolare, dove hanno studiato gli ex Segretari di Stato Hillary Clinton e Madeleine Albright, hanno più dottorati in scienza e ingegneria di tutte le altre laureate americane.
Oggi, però, sottolineava il magazine del New York Times, la presenza di maschi trans in questi college porta a minimizzare il messaggio «femminocentrico». A Wellesley, che continua a usare pronomi e linguaggio femminili in tutte le comunicazioni ufficiali, la costituzione del governo studentesco ha sostituito ogni riferimento femminile con termini di genere neutro. In molti college, i maschi trans conquistano ruoli di responsabilità storicamente occupati da studentesse: direttori dei dormitori, membri del consiglio studentesco, capigruppo. A Mills, il presidente del consiglio studentesco è un maschio trans, e sono sempre di più gli studenti che contestano la definizione di «college femminile» per queste istituzioni. Un anno fa, Alex Poon, è stato il primo maschio trans a vincere la celebre corsa con il cerchio di Wellesley, una tradizione iniziata 132 anni fa.
Perché certo, il femminismo ha vinto tantissime battaglie, ma la strada per la parità è ancora molto lunga. Mentre nelle università miste le studentesse superano (a volte surclassano) i maschi in rendimento, l’equazione cambia una volta laureate, con la mancata parità salariale e la scarsa presenza femminile ai vertici delle aziende e della politica. Situazione che spinge molti a sostenere che quattro anni in un ambiente femminile, che nutra e rinforzi le ambizioni femmina, ha ancora il suo posto nella società. «Un luogo per celebrare l’essere donna circondata da donne», spiegava una studentessa di Wellesley. «Vieni qui pensando che ogni ruolo di leadership sarà occupato da una donna. Direttore del giornale, presidente, tutto. Ma con i maschi trans non è più così. E se non lo è, allora il valore intrinseco di un college femminile va a farsi benedire». Alcune sottolineano che con la presenza di maschi trans, le donne sono costrette a cedere opportunità agli uomini perfino, ironia, in un college femminile. Dal canto loro, gli studenti trans ribadiscono di fare solo ciò che il college predica: rompere barriere. Molte docenti e studentesse concordano: «Come possiamo noi donne, da sempre marginalizzate e che lottiamo per essere rispettate e per il nostro posto nella società, giustificare di marginalizzare altri? Sarebbe come mettersi dalla parte sbagliata della storia» Altre si chiedono cosa determini davvero l’essere una donna.
Non hanno tutte le risposte. Alla fine, per alcune, è stato un «atto di fede», convinte comunque di andare nella direzione giusta. Così allo Smith, c’è un gruppo di sostegno per aiutare le studentesse in situazioni delicate come la condivisione di una camera di dormitorio o di un bagno, affinché tutti, al di là del genere di partenza, si sentano accettati. A Wellesley un seminario di «sensibilità transgender» è obbligatorio per tutti i leader studenteschi. Mills l’ha definita «una questione di diritti civili». I temi transgender, dicono, sono temi femministi.
Costanza Rizzacasa d’Orsogna
@CostanzaRdO
Lettera 43
30 06 2015
Ci pensa il Texas a rovinare la festa della nozze gay: mentre da San Francisco a New York le parate del Gay Pride hanno acquistato il sapore della vittoria, il superconservatore Stato della stella solitaria ha sparato una cannonata sulla sentenza della Corte Suprema americana, che lo scorso 26 giugno ha fatto la storia legalizzando i matrimoni omosessuali su tutto il territorio nazionale.
«VERDETTO FUORILEGGE». L'Attorney general repubblicano Ken Paxton ha definito «fuorilegge» il verdetto della Corte, proclamando che i funzionari statali potranno rifiutare le licenze nuziali, invocando «l'obiezione di coscienza per motivi religiosi». Paxton ha poi chiarito che chi intenderà scegliere questa via rischia una multa o di essere portato in tribunale. Il procuratore ha però assicurato che «molti avvocati» sono disposti a difendere gratis i funzionari che obietteranno in virtù della propria fede.
NY IN STRADA A FARE FESTA. A fronte dell'ostracismo del Texas, dove a fare da apripista del nuovo corso è stata una coppia di gay 80enni, c'è un'America che è scesa in strada a far festa. A New York, dove gli attori britannici Ian McKellen e Derek Jacobi hanno fatto da Gran marescialli alla parata del Gay Pride, il governatore Andrew Cuomo ha unito in matrimonio David Contreras Turley e Peter Thiede davanti allo Stonewall Inn, il bar dove nel 1969 i gay si ribellarono a un raid della polizia: proprio la scorsa settimana il locale è stato nominato monumento cittadino. Era la prima volta che Cuomo celebrava un matrimonio: il governatore, che nel 2011 ha firmato la legge di New York sui matrimoni gay, ha poi marciato nella parata sotto uno striscione su cui era scritto che «la Grande Mela ha aperto la strada».
IN CERCA DI NUOVE TUTELE LEGALI. Una strada, tuttavia, lungo la quale ancora resta molto da fare nonostante le parole del giudice Anthony Kennedy (l'ago della bilancia che ha guidato la maggioranza della Corte): «Nessuna unione è più profonda del matrimonio, per incarnare gli alti ideali di amore, fedeltà, devozione, sacrificio e famiglia. I gay chiedono uguale dignità agli occhi della legge. E la costituzione garantisce loro questo diritto». La prossima battaglia è quella per ottenere tutele legali sul fronte dell'impiego, del diritto all'abitazione, del commercio. Questo perché, come dimostra il Texas, l'opposizione alle nozze omosessuali passa attraverso le leggi sulla libertà religiosa, invocate da molti Stati nella «cintura della Bibbia» per permettere a datori di lavoro, padroni di casa, ristoranti e alberghi di rifiutare servizi a coppie dello stesso sesso.
In genere
29 06 2015
La Corte Suprema americana ha dichiarato legali i matrimoni gay e lesbici in tutti gli Stati Uniti. Intanto un sondaggio diffuso dal Public Religion Research Institute (PRRI) già rivelava che quasi i due terzi del paese, tra cui il 58 per cento dei repubblicani e il 71 per cento dei democratici, si aspettavano che la Corte Suprema rendesse legali i matrimoni gay e lesbici in tutti e 50 gli stati. In ogni caso, a presindere da quella che sarebbe stata la decisione definitiva della Corte, un recente sondaggio d'opinione diffuso dal Pew Research Center ha registrato che negli Stati Uniti più di sette intervistati su dieci affermano che la legalizzazione del matrimonio omosessuale a livello nazionale sia inevitabile. Secondo il sondaggio, oggi, la maggioranza degli americani, il 57 per cento, sostiene il matrimonio omosessuale, rispetto al 39 per cento che vi si oppone. Una percentuale cresciuta costantemente negli ultimi quattordici anni, che ha portato a una vera e propria inversione di tendenza rispetto al 2001, quando i contrari erano il 57 per cento, e solo il 35 per cento della popolazione si dichiarava a favore.
In particolare, questo sembra essere dovuto in parte a un fattore generazionale. La percentuale dei favorevoli ai matrimoni gay e lesbici è cresciuta anche tra le fasce più anziane della popolazione, è vero, ma sono proprio gli americani più giovani, a esprimere il livello più alto di sostegno alle unioni omosessuali: nel 2015 è favorevole il 73 per cento dei nati dopo il 1981, il 59 per cento dei nati tra il 1965 e il 1980, il 49 per cento dei nati tra il 1946 e il 1964, il 39 per cento dei nati tra il 1928 e il 1945.
Ci sono poi differenze lagate al genere, all'ideologia politica, al partito d'appartenenza, alla professione religiosa, all'etnia di appartenenza. Favorevole alle unioni tra persone dello stesso sesso è il 60 per cento delle donne, il 79 per cento dei liberali, il 65 per cento dei democratici e degli indipendenti, l'85 per cento dei laici, il 59 per cento dei bianchi non ispanici.
Secondo Robert P.Jones, amministratore delegato del PRRI "la preponderanza dei dati sui diritti oggi suggerisce che la maggior parte degli americani non solo sostiene le politiche specifiche sul matrimonio tra persone dello stesso sesso o di non discriminazione; queste persone hanno abbracciato i valori che sottendono alla piena parità di trattamento da parte della legge e della parità di accesso alle opportunità". Leggi tutto il commento su The Atlantic.
inGenere
26 06 2015
Mentre la Corte Suprema americana decide come esprimersi in merito ai matrimoni gay e lesbici negli Stati Uniti, un sondaggio appena diffuso dal Public Religion Research Institute (PRRI) rivela che quasi i due terzi del paese, tra cui il 58 per cento dei repubblicani e il 71 per cento dei democratici, si aspettano che la Corte Suprema renda legali i matrimoni gay e lesbici in tutti e 50 gli stati. In ogni caso, a presindere da quella che sarà la decisione definitiva della Corte, un recente sondaggio d'opinione diffuso dal Pew Research Center registra che negli Stati Uniti più di sette intervistati su dieci affermano che la legalizzazione del matrimonio omosessuale a livello nazionale sia inevitabile. Secondo il sondaggio, oggi, la maggioranza degli americani, il 57 per cento, sostiene il matrimonio omosessuale, rispetto al 39 per cento che vi si oppone. Una percentuale cresciuta costantemente negli ultimi quattordici anni, che ha portato a una vera e propria inversione di tendenza rispetto al 2001, quando i contrari erano il 57 per cento, e solo il 35 per cento della popolazione si dichiarava a favore.
In particolare, questo sembra essere dovuto in parte a un fattore generazionale. La percentuale dei favorevoli ai matrimoni gay e lesbici è cresciuta anche tra le fasce più anziane della popolazione, è vero, ma sono proprio gli americani più giovani, a esprimere il livello più alto di sostegno alle unioni omosessuali: nel 2015 è favorevole il 73 per cento dei nati dopo il 1981, il 59 per cento dei nati tra il 1965 e il 1980, il 49 per cento dei nati tra il 1946 e il 1964, il 39 per cento dei nati tra il 1928 e il 1945.
Ci sono poi differenze lagate al genere, all'ideologia politica, al partito d'appartenenza, alla professione religiosa, all'etnia di appartenenza. Favorevole alle unioni tra persone dello stesso sesso è il 60 per cento delle donne, il 79 per cento dei liberali, il 65 per cento dei democratici e degli indipendenti, l'85 per cento dei laici, il 59 per cento dei bianchi non ispanici.
Secondo Robert P.Jones, amministratore delegato del PRRI "la preponderanza dei dati sui diritti oggi suggerisce che la maggior parte degli americani non solo sostiene le politiche specifiche sul matrimonio tra persone dello stesso sesso o di non discriminazione; queste persone hanno abbracciato i valori che sottendono alla piena parità di trattamento da parte della legge e della parità di accesso alle opportunità". Leggi tutto il commento su The Atlantic.
Frontiere News
19 06 2015
Dalla rivolta degli schiavi nel 1822 agli incontri con Martin Luther King, la storia della chiesa attaccata dal suprematista Dylann Roof è di straordinaria importanza. Diventando negli anni un vero e proprio simbolo della lotta per i diritti civili
Il luogo scelto per la strage di Charleston, (in cui al grido di “io lo devo fare, voi violentate le nostre donne e dovete sparire”, Dylann Roof, un ragazzo bianco di 21 anni, ha trucidato nove persone per il semplice fatto di appartenere alla comunità afro-americana) ha una natura altamente simbolica: la Emanuel African Methodist Episcopal Church è infatti uno dei più antichi ritrovi della comunità nera nel Sud degli Stati Uniti. Vox.com ha riassunto in maniera impeccabile la storia della chiesa, diventata negli anni un vero e proprio simbolo della lotta per i diritti civili.
1816: Fondazione della chiesa da parte di alcuni afro-americani, ex-membri della Charleston’s Methodist Episcopal Church, guidati dal Rev. Morris Brown. La African Methodist Church proveniva dalla Free African Society, un’organizzazione fondata dal 1787 a Philadelphia.
1822: Il 17 giugno del 1822 la chiesa viene bruciata come rappresaglia ad una rivolta degli schiavi. Un’inchiesta della Cnn rivela che Denmark Vesey, co-fondatore della chiesa, aveva organizzato la rivolta; la chiesa venne quindi additata come punto di incontro tra ribelli per “creare isteria di massa tra le due Carolina e il Sud”. Per vendetta Vesey e cinque schiavi vennero uccisi. L’attentato di Dylann Roof è avvenuto esattamente nel 193esimo anniversario della rivolta.
1834: Adorazione in segreto, nonostante le leggi razziste. Nel 1834 tutte le chiese afro-americane vennero infatti dichiarate fuori legge. Ma la African Methodist Church continuò le funzioni religiose clandestinamente “fino al 1865, in cui venne formalmente riorganizzata adottando il nome Emanuel”.
Anni ’60: Un punto di riferimento per i diritti civili. Le chiese afro-americane di tutte le denominazioni giocarono un ruolo vitale nell movimento per i diritti civili, fungendo da fulcro delle leadership e da luoghi di incontro dell’attivismo. A causa del significato storico della Emanuel, molti leader dei diritti civili (tra cui Martin Luther King) scelsero la chiesa come tappa fondamentale del proprio attivismo sociale.
Oggi: È la più grande chiesa afro-americana di Charleston, con 2500 posti a sedere.