Dinamo Press
19 01 2015
Barili e corpi non conformi bloccano l’interstatale di Boston contro la violenza della polizia nei confronti degli afroamericani. Traffico in tilt per 3 ore e 23 attivisti arrestati.
Un’azione che per la sua composizione e modalità rispecchia tutte le contraddizioni e, potenzialmente, le virtù dell’ondata di proteste che, in via definitiva, chiamiamo non più “Ferguson”, ma “Black Lives Matter #BLM”: un movimento di protesta diffuso, costante nel breve termine e dalla composizione eterogenea. Quest’ultimo elemento è senz’altro la novità maggiore.
Il passaggio dal caso specifico Mike Brown alla più generale questione della criminalizzazione dei neri si è già dato nell’autunno scorso. Quando si sono moltiplicate le piazze e i nomi di centinaia di neri rimasti uccisi sulle strade per mano della polizia. Quando si è puntato il dito contro l’agitazione dei soli nomi maschili, mentre sulle strade del paese vengono uccise numerose donne. Quando i giovani latinos hanno scritto i loro nomi sui cartelli di molte manifestazioni, in particolare nel sudovest statunitense.
Nonostante alcuni abbiano tentato di riappropriarsi del movimento gridando “All Lives Matter”, le azioni –condivise o anche solo di solidarietà – di vari “gruppi razziali” (e razzializzati) hanno smorzato e immediatamente emarginato i sintomi di un ritorno alla bianchezza prevalente che ha caratterizzato la maggior parte dei volti di Occupy, con la felice eccezione di Occupy Home.
Tanto quanto Occupy, BLM si è diffusa in tutto il paese con appuntamenti costanti e flash mob alla portata di tutti: niente di più semplice e fortemente simbolico del “die-in”, rappresentazione collettiva della morte distribuita dalla polizia alla popolazione nera che fa ormai parte del repertorio di molte manifestazioni. Il problema dell’organizzazione, sottolineato spesso nei confronti dei movimenti statunitensi – per alcuni dovuto al rifiuto del leader, maschio e carismatico (intervento di Alvaro Reyes su Euronomade) – permane tuttora anche in BLM. Composizione, pratiche e organizzazione restano i nodi centrali attorno a cui ruota il dibattito negli ultimi mesi, soprattutto tra gli intellettuali più radicali. Ecco, credo sia necessario uscire dall’alone di eccezionalità che da anni aleggia sui movimenti statunitensi, dal momento che questi tre nodi permangono irrisolti in numerosi movimenti a livello globale, ancora incapaci di dispiegarsi nel medio-lungo termine e rispecchiare l’eterogeneità sociale, spesso incapaci di vincere.
Negli ultimi anni, con tutti i loro limiti, i movimenti statunitensi hanno dato segni di vitalità e novità importanti, dai lavoratori dei fast-food ai migranti contro le deportazioni. Non si tratta di ribaltare l’eccezione negativa in apologia. Tutt’altro. Si tratta di affinare un lessico della traduzione per mutuare pratiche e intrecciare il dibattito politico, proprio quando alcuni terreni di battaglia, come il tristemente attuale TTIP, richiedono urgentemente uno spazio atlantico di confronto e organizzazione dei movimenti.
Il blocco di Boston ci immerge nella vertigine della contraddizione, dove questi nodi politici si esprimono in modo acuto e la divergenza tra comunità nera e non-nera si complica nella metropoli a maggior mobilità di forza lavoro altamente qualificata, prevalentemente bianca e proveniente dai BRICS. Una città tradizionalmente democratica dove le manifestazioni degli ultimi mesi sono state gestite perlopiù da gruppi di giovani neri, sostenuti anche da alcuni agenti della polizia locale, che non hanno trovato sintonia con i gruppi più radicali e completamente bianchi.
Oltre all’incredibile durata, il blocco è stato particolarmente interessante per la composizione degli attivisti e delle loro affermazioni: il nesso classe-razza-genere è divenuto il manifesto con cui si assume la responsabilità dell’azione, il dovere non solo alla solidarietà, ma all’azione politica che tenta di ricomporre i movimenti LGBQT e gli studenti bianchi, i migranti senza documenti e le comunità non-nere. Un’azione che ha tentato di dare un segnale per le manifestazioni che ci saranno la settimana prossima. Un gruppo dall’organizzazione informale e temporanea – come lo fu quello dell’occupazione del ponte di Brooklyn nel 2011 durante Occupy – che ha utilizzato la catena di barili come hanno fatto in precedenza i movimenti di Seattle.
La pratica del blocco ci parla della possibilità di moltiplicare pratiche non soltanto simboliche, ma di interruzione della mobilità della metropoli a maggior produzione cognitiva degli States. Barili per incatenarsi. Barili per interrompere la produzione, corpi legati a barili. Quale migliore immagine per il paese che ha fatto dell’oro nero la sua frontiera e del corpo nero il suo confine?
Forse resterà un’azione isolata, ma la proliferazione – negli anni e attraverso uno spazio enorme – di pratiche e coagulazioni, più che coalizioni, così composite e che rispecchiano la società statunitense, è certamente un segno, il segno più temuto. Infatti, non ha perso tempo Jeffrey Brown – reverendo nero della chiesa battista di Roxbury, lo stesso che incitava alla “costruzione di comunità” contro i riot subito dopo il verdetto su Brown – per il quale azioni del genere non possono essere a sostegno di BLM senza che l’organizzazione ne sia a conoscenza. Il capo della polizia William Evans ha dichiarato che i manifestanti non hanno idea di cosa voglia dire essere neri negli Stati Uniti: certamente i suoi capelli biondi e gli occhi azzurri hanno un punto di vista privilegiato su cosa sia la blackness! La stampa si è affrettata a etichettare l’azione come pericolosa e opera degli “anarchici di Occupy”.
L’estensione delle pratiche oltre il confine della razzialità resta un nodo politico arduo, ancora lungi dall’essere sciolto, ma ieri la democratica e qualificata Boston si è bloccata davanti a un segno, quello della possibile ricomposizione tra i blocchi dei migranti senza documenti e i blocchi dei giovani LGBQT altamente qualificati, arrestati perché Black Lives Matter.
Comunicato Stampa degli attivisti che questa mattina hanno bloccato la interstatale 93 a nord e sud dell’area metropolitana di Boston durante l’ora di punta. 15.01.2015
Somerville/Milton/Boston, Massachusetts
Alcuni attivisti hanno bloccato la Interstatale 93 in direzione nord e sud durante l’ora di punta mattutina per i pendolari che entrano a Boston, per “interrompere le consuete attività” e protestare contro la violenza della polizia e dello stato contro i neri.
Due diversi gruppi di attivisti hanno legato i loro corpi attraverso dei barili in azioni coordinate a nord e sud di Boston. Questa azione è stata fatta in solidarietà con il movimento Black Lives Matter. Questo variegato gruppo non-nero di Pan-asiatici, Latinos, e bianchi, alcuni dei quali sono queer e transgender, hanno agito per far fronte all’oppressione sistemica dei neri a Boston.
“Oggi, la nostra azione diretta e non-violenta ha significato esporre la realtà di Boston, una città dove i pendolari bianchi e gli studenti usano la città e la lasciano, mentre le comunità nere e latinos diventano obiettivo della polizia, sfruttate, e rimosse”, ha detto l’attivista coreano-americana Katie Seitz.
Negli ultimi 15 anni, gli agenti di polizia di Boston hanno ucciso Remis M. Andrews, Darryl Dookhran, Denis Reynoso, Ross Baptista, Burrell “Bo” Ramsey-White, Mark Joseph McMullen, Manuel “Junior” DaVeiga, Marquis Barker, Stanley Seney, Luis Gonzalez, Bert W. Bowen, Eveline Barros-Cepeda, Daniel Furtado, LaVeta Jackson, Nelson Santiago, Willie L. Murray Jr., Rene Romain, Jose Pinesa, Ricky Bodden, Carlos M. Garcia, e molte altre persone di colore. Ripiangiamo e ricordiamo tutte questa vite.
“Dobbiamo ricordare che Ferguson non è una lontana città del Sud. Uomini neri, donne, e persone non conformi alle norme di genere affrontano un rischio sproporzionatamente più alto, incarcerazioni ingiuste e la morte. La violenza della polizia è ovunque negli Stati Uniti”, ha affermato un altro manifestante Nguyen Thi Minh Thu.
I due gruppi hanno organizzato queste azioni per usare le loro voci collettive per resistere e interrompere il sistema onnicomprensivo che opprime i neri e per accettare espressamente la responsabilità di bianchi e persone di colore non nere a organizzarsi e agire per porre fine a questo racial profiling, carcerazioni ingiuste, e assassini di neri negli Stati Uniti e oltre.
Black Lives Matter, oggi e sempre.
Il comunicato stampa con le dichiarazioni integrali dei partecipanti: http://blacklivesmatterboston.tumblr.com
La Repubblica
16 12 2014
WASHINGTON - Almeno 250 manifestanti hanno circondato il quartier generale della polizia a Oakland, in California, nell'ennesimo giorno di protesta contro il razzismo e i metodi brutali usati dalle forze dell'ordine dopo i casi di Ferguson e New York.
I manifestanti a Oakland hanno anche bloccato l'autostrada, incatenandosi lungo una corsia, al grido di 'Il silenzio e' violenzà e 'Nero e respiro'. La polizia ha arrestato 25 persone per ostacolo a un edificio e a un pubblico ufficiale.
La protesta è stata organizzata per durare 4 ore e 28 minuti: le ore rappresentano il tempo che il corpo di Michael Brown è rimasto sull'asfalto dopo essere stato ucciso da un poliziotto, il 9 agosto scorso; mentre i minuti ricordano che ogni 28 ore un nero viene ucciso in America, secondo uno studio denominato 'Operation Ghetto Storm'.
MicroMega
03 12 2014
di Carlo Formenti
Un’ondata di manifestazioni contro il colosso Usa del commercio discount, Walmart, è stata organizzata da un galassia di soggetti (lavoratori della catena, sindacati, militanti della sinistra radicale e altri movimenti) in occasione dell’orgia consumistica del Black Friday (il “venerdì nero” che negli Stati Uniti viene subito dopo il Giorno del Ringraziamento), allorché folle di consumatori vanno in cerca di prodotti a prezzi ribassati in vista del Natale.
Il Black Friday offre lo spettacolo inverecondo di masse che lottano selvaggiamente per contendersi uno smartphone o uno schermo al plasma scontati, lotte nel corso delle quali non di rado ci scappa il morto, tanto che i negozi più grandi devono essere presidiati dalla polizia.
Negli ultimi anni, la calca è cresciuta parallelamente al progredire della crisi. Un paradosso apparente, perché ad ammazzarsi per acquistare un regalo ai figli sono proprio i membri delle classi subordinate massacrate dalla crisi, mentre benestanti, ricchi e super ricchi non hanno bisogno di rischiare la pelle per fare acquisti: i guerrieri del Black Friday, come spiega un articolo dell’Huffington Post sono tutti lavoratori che percepiscono bassi salari.
Ma le manifestazioni di quest’anno contro Walmart, secondo un altro articolo dell’Huff Post, potrebbero segnare una storica inversione di tendenza, il momento in cui l’opposizione popolare americana al turbocapitalismo compie un salto di qualità: dal generico populismo di Occupy Wall Street a nuove forme di lotta di classe organizzate, come quelle che squassarono l’America fra le due Guerre Mondiali.
Ma perché concentrare le forze contro Walmart? Perché Walmart è il simbolo del neocapitalismo rampante che, per usare le parole di Luciano Gallino, ha condotto la vittoriosa “guerra di classe dall’alto” dell’ultimo trentennio. Con più di un milione di dipendenti negli Stati Uniti e altrettanti altrove, Walmart è la più grande catena commerciale del mondo.
La famiglia Walton, che ne è proprietaria, è nota per le sue posizioni ultraconservatrici: vendono armi e sostengono le lobby che le producono; finanziano le campagne negazioniste sull’esistenza dell’effetto serra; finanziano l’estrema destra repubblicana, discriminano le donne e i lavoratori di colore, si oppongono all’aumento del salario minimo garantito e perseguitano gli iscritti al sindacato; parassitano il bilancio dello Stato costringendo le autorità federali a pagare buoni pasto per alcuni dei loro dipendenti che non guadagnano abbastanza per sfamarsi (di recente si è saputo che, invece di aumentare i salari, hanno invitato i dipendenti che guadagnano di più a fare donazioni per i colleghi meno pagati!).
Il vero punto è però un altro: quella che è stata battezzata non a caso Walmart Economy, si basa sulla commercializzazione di prodotti di scarsa qualità e a buon mercato (perlopiù importati dalla Cina e altri Paesi in via di sviluppo) che consente a lavoratori sempre meno pagati di tirare avanti (e alle imprese di realizzare sovraprofitti). In pratica si tratta di un circolo vizioso che funziona così: io ti do uno stipendio miserabile, in compenso ti consento di sopravvivere vendendoti schifezze a basso costo.
Ma Walmart è solo la punta dell’iceberg: è l’intera economia che oggi funziona così, a partire da quella “nuova economia” delle start up che piace tanto a Renzi e soci (che non perdono occasione di esaltare i giovani “eroi” dell’innovazione digitale).
Un esempio? Uber, la società che ha sviluppato un’app per “rinnovare” il business dei taxi, funziona in questo modo: l’app offre al cliente la possibilità di prenotare online un servizio che verrà eseguito da persone che fanno i taxisti come secondo lavoro perché non guadagnano abbastanza per campare con il primo, i quali operano senza licenza e a costi bassissimi. Risultato: l’autosfruttamento di questi disgraziati sta mandando in rovina i taxisti “ufficiali”, i quali vengono costretti ad abbassare a loro volta i prezzi e così non riescono più ad ammortizzare l’investimento compiuto per acquisire la licenza, il cui valore sta crollando ovunque entra in funzione Uber.
Nel frattempo i liberisti intessono le lodi dell’innovazione che sta smantellando il “privilegio corporativo” di una categoria che imponeva prezzi “di monopolio” al consumatore. Il bello è che il consumatore ci casca, perché non si rende conto che tutti noi, dal punto di vista degli apologeti del libero mercato, siamo membri di categorie privilegiate (per esempio pensionati e lavoratori “garantiti” che dovrebbero rinunciare al privilegio a favore dei giovani non garantiti).
Il principio della Walmart Economy è questo: scatenare guerre fra poveri con l’obiettivo di ottenere un livellamento generale verso il basso. Si spera che le lotte di cui riferisce l’Huff Post segnino davvero l’inizio di una nuova fase in cui le persone smettano di ragionare da consumatori e tornino a ragionare da lavoratori sfruttati.