Il Fatto Quotidiano
30 03 2015
Lo storico esponente del Pci è nato il 30 marzo 1915. Nel 1976 diventa il primo comunista eletto alla presidenza della Camera. Fu lacerato dal dubbio ma senza abbandonare il comunismo. "Da una parte seguivo con ardore la costruzione dello Stato democratico, dall’altra coltivavo l’attesa della crisi rivoluzionaria"
Le campane suonano a festa per i cento anni di Pietro Ingrao. Com’è giusto che sia. Un comunista, un rivoluzionario, uno statista, un sognatore. Così le etichette che sui giornali corrono lo stanno celebrando. Ma ce n’è un’altra che ben gli si attaglia, quella dell’”eroe del dubbio”. Il dubbio di un uomo immerso in una sinistra divisa tra il messianismo rivoluzionario e la cinica ragion di partito, utopia e senso della realtà politica, movimentismo e rispetto dell’organizzazione di appartenenza. E’ Andrea Camilleri nel 2008 a coniare questa definizione. «Il dubitare di Ingrao», scrive Camilleri, «è sempre la messa in moto di un motore che elabora il che fare più attinente al fine proposto, non è mai la messa in dubbio del perché, ma del percome».
Concetto complicato, che il dispiegarsi della vita di Ingrao illustra però meglio di qualsiasi altra cosa. Forse pensa all’Ingrao artista, al poeta, al giovane appassionato di cinema che l’illustre centenario è sempre stato, Camilleri. Ma la sua definizione ben si adatta anche per comprendere la parabola del dirigente capace di accendere dibattiti ma pur sempre impastoiato dalle ragioni dell’appartenenza e perciò impossibilitato agli strappi decisivi, definitivi che tanti suoi seguaci si aspettavano. Quando questo dubbio lui stesso teorizza, nel Pci, nato all’insegna dell’obbedienza alle “istanze superiori” del centralismo democratico, si discuteva sulla linea, rischiando la testa, va da sé. Perciò Ingrao rivendica il “diritto al dissenso”, del quale il dubbio poteva essere il nobile pilastro, adeguato a dargli dignità per renderlo digeribile alla nomenklatura comunista. Correva il 1966: “Il dubbio mi scuoteva”, ha spiegato Ingrao, “Vedevo in esso un’apertura alla complessità della vita: dubitare mi sembrava l’impulso primo a cercare, aprirsi al molteplice del mondo. Sì, vivevo il piacere del dubbio”.
C’è tutto Ingrao in questa complessità, tutta la sua innata problematicità, la sua incompiutezza di leader. E’ l’Ingrao nato a Lenola il 30 marzo del 1915, famiglia borghese, liceo a Formia, trasferimento a Roma. Per uno della sua condizione l’adesione alla classe operaia non è scontata. E nel 1934 lo vediamo brillare ai Littoriali, manifestazioni sportive e culturali riservate agli universitari fascisti. Riesce a farsi onore: «Partecipai ai Littoriali della Cultura», ha raccontato, «a quelli di critica teatrale e alla gara di poesia, con una breve lirica». Esaltava Littoria e la bonifica delle paludi pontine.
Il mito del comunismo è lontano, Ingrao si iscrive a giurisprudenza e al centro sperimentale di cinematografia, dove resiste poco più di un anno. Lo abbandona, insieme agli studi, a causa della guerra di Spagna: «Il 17 luglio 1936», racconterà, «è un giorno chiave: esplode la rivolta franchista. Non tornai più al centro sperimentale. Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza». Questo è il giovane Ingrao. Prenderà la laurea poi, si rivelerà un poeta, ma al primo posto nella sua esistenza resterà per sempre l’impegno comunista.
La dedizione è totale. Lavora clandestinamente per il partito negli anni del fascismo. Cade la dittatura, viene eletto in Parlamento, entra nella segreteria del Pci. Che, a partire dal 1947 e per dieci anni, gli affida la direzione de “L’Unità”. Del Pci, Ingrao si afferma come uno dei massimi dirigenti, dopo Togliatti tra i più amati. Ha peso, anche se relegato al ruolo dell’eterno oppositore. Uomo di prestigio che, non a caso, nel 1976 diventa il primo comunista eletto alla presidenza della Camera. Un traguardo inimmaginabile nei giorni lontani del ritorno alla democrazia. Quando nell’animo del giovane rivoluzionario si agitavano ben altri intendimenti. Dirà : «Mi portavo dentro la convinzione di un momento insurrezionale risolutivo. Forse agiva anche il ricordo mitico dell’assalto al Palazzo d’Inverno tramandatoci dall’epica della rivoluzione bolscevica. E negli angoli remoti della mia mente restava sempre ben fissa l’ipotesi del momento in cui ci saremmo trovati – l’uno di fronte all’altro – noi rivoluzionari e le truppe del grande capitale». Drammatica contraddizione: «Da una parte seguivo con ardore la costruzione dello Stato democratico, dall’altra coltivavo l’attesa della crisi rivoluzionaria».
Ricordi intensi e che spiegano l’altra faccia di Ingrao: quella dura dell’uomo di partito che si vincola al burocratismo dell’Ufficio di Informazione dei Partiti Comunisti e Laburisti, il famigerato Cominform, asservito a tutte le degenerazioni dello stalinismo. Una tragedia nella carriera di Ingrao. Spiegherà lui stesso : «Lo stalinismo è stato un errore così grande che è bene ribadirne il rigetto». L’errore più grande, certo. Frutto di una cultura totalizzante che lo inchioda alla tradizione che dell’Unione sovietica aveva fatto un mito. Arrivano così le pagine più discusse della sua carriera. Come capitò nel 1956, quando la storia offrì al Pci l’opportunità di rompere con gli orrori staliniani. Il futuro presidente della Camera si ritrovò invece dalla parte sbagliata. Era scoppiata la rivoluzione ungherese contro l’oppressione sovietica. Le truppe di Mosca intervennero, migliaia furono i morti. E grande fu la reazione nel mondo, la sinistra europea si ribellò, si ribellò anche quella italiana. Tanti intellettuali e dirigenti, come Italo Calvino, Eugenio Reale e Antonio Giolitti, abbandonarono il Pci. Ad Ingrao contro gli insorti toccò al contrario confezionare “l’Unità” di quel terribile 25 ottobre: “Le bande controrivoluzionarie vengono costrette alla resa dopo i sanguinosi attacchi contro il potere socialista”, sentenziava la prima pagina. E sempre a lui spettò il compito di firmare l’editoriale “Da una parte della barricata a difesa del socialismo”.
E, ancora, come capitò tra il 1968 e il 1969 quando gli amici della rivista “Il Manifesto”, che con lui avevano combattuto per la democrazia interna nel Pci, trovarono la forza per rompere con il filosovietismo, aprendo alle istanze dei movimenti giovanili. Furono presto emarginati. E quando i vertici deliberarono la cacciata di Luigi Pintor, Aldo Natoli e Rossana Rossanda, ebbene in quel frangente decisivo Ingrao abbandonò i compagni al loro destino, preferendo le ragioni della Ditta.
Eppure era stato lo stesso Ingrao, un paio di anni prima, a rivendicare contro Giorgio Amendola il famoso diritto al dissenso. Una rivendicazione che lo aveva fatto assurgere a punto di riferimento per quanti nella sinistra cercavano la via dell’emancipazione dall’Urss e dal togliattismo. E non solo dentro il Pci. Ad Ingrao guardavano anche gli altri partiti che si richiamavano al movimento operaio. Solo che il Pci non tollerava niente del nuovo che nasceva o poteva nascere alla sua sinistra. Una linea brutale, a dirla tutta, alla luce non solo della sorte toccata alla fazione del Manifesto, ma anche di quella riservata ai gruppi extraparlamentari (non tutti da buttare) e alla gran parte dei dirigenti del Partito socialista italiano che, proprio criticando la linea filo-sovietica del Pci, furono oggetto di campagne pesantissime.
Ma così sono andate le cose. E mentre il Psi denunciava le degenerazioni del socialismo reale, il segretario del Pci Enrico Berlinguer ancora nel 1983 si permetteva di ripetere che l’Urss era una società socialista con “qualche tratto illiberale”. Qualche. Proprio così, mentre già l’impero sovietico era sulla via di quel disfacimento che nel giro di pochi anni avrebbe portato alla caduta del Muro di Berlino e il nuovo segretario del Pci, Achille Occhetto, a cambiare nome al partito. Una decisione che vede Ingrao fortemente critico, ma deciso a rimanere.
Siamo ai bagliori finali della vita pubblica del grande sognatore. Deputato fino al 1992, sparisce dalla scena politica. Scriverà anche una sua biografia, “Volevo la luna”. Continuerà a far sentire di tanto in tanto la sua voce. Nel 2013, dopo la simpatia per Rifondazione comunista, dichiara di votare Sinistra ecologia e libertà. Sempre rivendicando le ragioni del dubbio. Il dubbio di un uomo a cui forse la vita avrà consentito con la sua poesia di conquistarla, quella luna. Mentre gli ha certamente negato il paradiso in terra, la terra promessa del comunismo che il marxismo aveva fatto balenare nei suoi sogni di militante. Ma questa, visto come le cose sono andate, non è detto sia stata poi una gran perdita.
la Repubblica
26 03 2015
Trent'anni fa le cosche mirarono al magistrato Carlo Palermo. L'autobomba uccise una donna e i suoi bambini. Ora la figlia più grande racconta quella tragedia
Ci sono alcune storie che porto dentro, che percepisco come zavorra, come se mi intasassero il respiro, eppure sono memoria necessaria, perché dimenticare significherebbe perdersi. Quella zavorra e quel peso sono pilastro e la radice della mia vita. Sono storie che tendono a essere dimenticate per istinto di conservazione; è come dimenticare la guerra, lasciar perdere il dolore, far finta che tutto sia superato. E Sola con te in un futuro aprile di Margherita Asta e Michela Gargiulo (Fandango) racconta una storia da dimenticare, una storia preziosa.
È il 2 aprile di trent’anni fa, Carlo Palermo è arrivato in Sicilia da quaranta giorni. A Trapani aveva preso il posto di un magistrato coraggioso ucciso dalla mafia, Giangiacomo Ciaccio Montalto. Due macchine della scorta parcheggiano davanti al cancello di una villetta vicino a Bonagia, a 3 chilometri di distanza dalla casa della famiglia Asta.
Il giudice vive lì da appena una settimana, prima alloggiava all'interno di un aeroporto militare, a Birgi, che aveva dovuto lasciare da un giorno all'altro proprio quando le minacce contro di lui si erano fatte più concrete. La sua stanza, gli dissero, sarebbe servita al ministro della Difesa Spadolini, in visita alla base. Si mise a cercare una nuova sistemazione, ma nessuno voleva affittare la propria casa a una persona scortata e sotto minaccia. L'unico posto che riuscì a trovare era in un complesso residenziale abitato solo d'estate.
C'era un giardino e finalmente avrebbe potuto tenere con sé i suoi cani, ma per arrivare in tribunale doveva percorrere sempre la stessa strada, senza possibilità di variare il percorso. Inoltre, per avere rapporti di buon vicinato era stata data disposizione alle auto di scorta di non mettere in funzione le sirene. In quel contesto arriva l'ultima telefonata di minacce che era stata ancora più esplicita e definitiva: "Dite al giudice che il regalo sta per essergli recapitato".
Carlo Palermo, la mattina del 2 aprile 1985 scende di casa alle 8 e qualche minuto per andare al Tribunale di Trapani.
Normalmente sale dal lato destro dell'auto, ma quella mattina per fare in fretta il suo autista, Rosario Maggio, parcheggia troppo vicino al muro. Quel giorno il giudice si accomoda dietro il sedile di guida. Prova a bloccare lo sportello, ma la sicura non funziona. Sul rettilineo di contrada Pizzolungo la macchina trova davanti a sé un'altra auto, una Volkswagen Scirocco, dentro ci sono Barbara Rizzo, giovane madre di 31 anni, e due dei suoi tre figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe di 6 anni. Sta accompagnando i piccoli a scuola. L'autista del giudice aspetta il momento giusto per iniziare il sorpasso; c'è un'altra auto ferma, parcheggiata vicino a un muro di contenimento, che non ostacola la manovra. Le tre auto, per un unico istante, si trovano perfettamente allineate. È in quel preciso momento che viene azionato il detonatore.
L'esplosione è devastante. Una bomba fatta di tritolo, T4, pentrite e Semtex, un esplosivo militare utilizzato per potenziare l'innesco. (Vengono utilizzati candelotti di brixia b5, lo stesso tipo di esplosivo del fallito attentato all'Addaura contro Giovanni Falcone e della strage avvenuta neanche quattro mesi prima, il 23 dicembre 1984, quella del rapido 904). L'utilitaria fa scudo all'auto del sostituto procuratore che si ritrova scaraventato fuori dalla macchina, in piedi, ferito ma miracolosamente vivo.
Muoiono dilaniati la donna e i due bambini. Di loro restano pochi brandelli ritrovati poi a oltre cento metri dal luogo dell'esplosione. In alto, su di un muro, una macchia rossa di sangue, l'impronta terribile lasciata dal corpo di uno dei due bambini. Il botto è fortissimo, si sente fino in città. Nunzio Asta, il marito di Barbara e padre dei due bambini, è ancora a casa in quel momento. In quei giorni va a lavoro un po' più tardi, ha avuto un intervento al cuore e si sta ancora rimettendo. Sente il boato, pensa abbiano fatto esplodere una palazzina lì vicino, va in giardino e vede la colonna di fumo.
Esce per andare a prestare soccorso, ma non lo lasciano avvicinare. La Volkswagen di sua moglie è stata polverizzata, non sospetta che la sua famiglia sia rimasta coinvolta. Margherita, l'altra figlia di dieci anni, in quel momento è già a scuola. Avrebbe dovuto essere a bordo anche lei, ma quella mattina i due fratellini ci mettevano troppo tempo a vestirsi, volevano indossare entrambi gli stessi pantaloni, e per non fare tardi chiede un passaggio in macchina alla mamma di una sua amica. I carabinieri arrivano in classe per contare i bambini presenti, è in questo modo che si rendono conto che almeno lei è viva.
Margherita e la sua famiglia con la mafia non c'entravano niente. Per questo le parole pronunciate dal vescovo nell'omelia risuonano incomprensibili alle sue orecchie di bambina. Parlano di una "mente perversa" e di una "mano omicida", della "rabbia mafiosa" tornata a insanguinare le strade. Vorrebbe chiederne il senso a suo padre, che le stringe la mano e non sa smettere di piangere, ma ha solo dieci anni, e quella è una domanda troppo difficile da formulare. Sua madre, Barbara Rizzo, e i suoi fratellini, Salvatore e Giuseppe, sono morti in un incidente. È questo che le hanno detto, ma è successo tutto così in fretta, non ha avuto neanche il tempo di fermarsi a pensare. Di chiedersi, ad esempio, che fine avessero fatto i loro corpi, non le hanno permesso di vederli, di poterli salutare un'ultima volta.
Le bare chiuse, sono ora davanti a lei, al centro quella scura, di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto le due più piccole, bianche, con i gigli. Margherita non può saperlo, ma lì dentro oltre ai loro vestiti non c'è quasi niente. C'è una corona di fiori con la scritta Pertini, vista così da vicino sembra immensa, e ce n'è un'altra del presidente del Consiglio Craxi. Ci sono i gonfaloni del comune, fasce tricolori, e uomini delle forze dell'ordine ovunque. Se ne rende conto solo adesso, Margherita, della folla che c'è nella cattedrale di Trapani. Tanta gente per un funerale l'ha vista solo in televisione, ma quelle erano morti importanti: celebrità, capi di Stato.
Oggi, invece, sono tutti lì per sua madre e i suoi fratelli, persone normali. Forse, pensa, è per i miei fratelli, erano così piccoli che tutti avranno voluto partecipare al nostro dolore. Dopo i funerali, ritornando a casa, la macchina è costretta a rallentare. È il luogo dove è successo l'incidente, la strada è stata riaperta da poche ore. Margherita ha il tempo per guardare fuori dal finestrino: "C'è una buca enorme sull'asfalto, sembra sia esploso un vulcano". In alto, troppo in alto, sul muro di una casa c'è una macchia rossa. Margherita la vede appena, ma questa volta ha una domanda impossibile da trattenere: "Papà, è sangue nostro questo?".
Margherita pensa per anni che la colpa sia del giudice, di Carlo Palermo. Ma crescendo capisce che lui non c'entrava niente, che era stata la mafia a uccidere sua madre e i suoi fratelli e a distruggere le loro vite. Lei e il giudice erano entrambi dei sopravvissuti, per loro aveva deciso il destino. Non è stato facile per Margherita cercare "quel signore". Ancor meno facile per lui è stato lasciarsi trovare, provando a superare un terribile senso di colpa. C'è un elemento su cui convergeranno le dichiarazioni dei pentiti: per uccidere Carlo Palermo non c'era bisogno di un'autobomba. Palermo viveva in una villetta isolata, gli era stata negata la vigilanza armata per mancanza di uomini e mezzi e la sera usciva da solo per portare fuori i cani. Ma l'attentato doveva essere un ammonimento, spettacolarizzare la morte moltiplica la paura. È questo che hanno fatto (e fanno) le mafie ben prima dei gruppi islamisti.
Sola con te in un futuro aprile è un libro devastante e assume in alcuni momenti il profilo di un manuale di sopravvivenza a un dolore impossibile da contenere. La strada che ha trovato Margherita per sopravvivere al suo dolore è quella di raccontare la propria storia, la storia di sua madre e dei suoi fratelli, vittime innocenti. Trova un'immagine Margherita, per raccontare il modo in cui ha rimesso insieme i pezzi della sua vita. È una tecnica giapponese, il kintsugi, che si usa per riparare i vasi di ceramica che si sono rotti. Non si cerca di rincollare i pezzi nascondendo i segni della lacerazione, ma anzi si esaltano, utilizzando una pasta d'oro. Il vaso, in questo modo, diventa più prezioso. Quell'intreccio di linee dorate restituisce il mondo andato in frantumi e nasce una nuova forma, più solida di quella che c'era prima.
Roberto Saviano
I testi di Trotula (chiunque sia) sono però importanti perché trattano secondo la tradizione scientifica di Ippocrate e Galeno dei mali che affliggono le donne, fino a quel momento in mano solo a levatrici e maghe. La donna era predestinata a partorire nel dolore, morire di parto era una garanzia per la salvezza dell'anima. Il medico maschio non toccava né guardava i corpi femminili, né riteneva degne di attenzione le problematiche legate al corpo delle donne, da sempre abituate a curarsi tra loro con l'ausilio della pratica secolare e della trasmissione del sapere fitotrapico.
Maria Bettetini, Il Sole 24 Ore ...