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l'Espresso
14 05 2015

Colloquio con Juan Martin, il più giovane della famiglia del Comandante. «Molte delle cose per cui Ernesto ha combattuto non sono state ancora realizzate, è per questo che i giovani continuano ad adottarlo: sentono forte e urgente il suo esempio, il suo insegnamento teorico e di vita»

Questa è la storia di un uomo, un compañero che la Storia la porta nel nome. Nel sangue. Di suo fratello, un certo Ernesto “Che” Guevara, crediamo di sapere tutto. La nascita a Rosario, in Argentina, nel 1928. L’asma che lo tormentò per tutta la vita. L’amore per lo sport e per la natura. La laurea in medicina. Il giro epocale dell’America Latina sulla Poderosa II insieme ad Alberto Granado. “Bisogna essere duri senza mai perdere la "tenerezza”. I poster col suo ritratto iconico (barba, basco con la stella rossa e sguardo ardente) nelle camerette dei giovani di ogni tempo e di tutto il mondo. Il sogno di una rivoluzione pan-latinoamericana e terzomondista. Il romanticismo e le armi. Il Machu Picchu, i campesinos, la cacciata di Batista e la revoluciòn; la nomina a ministro dell’industria, il rapporto complesso con Fidel. E poi l’improvvisa scomparsa dai radar della politica ufficiale; il ritorno alla guerriglia, in Zaire, e in Bolivia, dove nell’autunno del 1967 trovò la morte.

“Il giorno in cui mio fratello venne assassinato, pensai tre cose contemporaneamente. Primo: ho perso il mio punto di riferimento politico. Secondo: non c’è più mio fratello. Terzo: finisce oggi il sogno di una rivoluzione in America Latina” ci racconta Juan Martin Guevara, classe 1943, il fratello più piccolo del comandante Che Guevara, in Italia per una serie di incontri e conferenze.

La prima volta che Juan Martin vide Cuba fu il 6 gennaio del 1959, poco dopo l’entrata trionfale all’Avana dei barbudos. Aveva 15 anni e mezzo e suo fratello il Che lo aveva fatto venire in fretta dall’Argentina, insieme al resto della famiglia, perché non perdessero questo appuntamento con la leggenda di una piccola nazione tropicale che si innalzava al centro del palcoscenico.

Juan Martin Guevara presiede l’associazione “Por las huellas del Che”, «Una Ong che si prefigge di diffondere il pensiero di mio fratello fuori dai confini nazionali, a partire dai suoi scritti “minori". Cerchiamo inoltre di setacciare tutte quelle associazioni ed enti che a loro volta si prodigano per veicolare le sue idee». Pochi giorni fa Juan Martin è stato ospite alla Camera dei deputati, “lo abbiamo portato sul tetto di Montecitorio, da lì con lo sguardo si domina tutta Roma – rivela Gianni Melilla, deputato di Sel -; ma Juan si è subito girato verso la Basilica di San Pietro. Voleva vedere dove sta il papa”. Con altri mezzi e in una diversa epoca, un altro rivoluzionario.

Incontriamo Juan Martin Guevara a Pescara, a margine di un convegno affollatissimo organizzato dal partito di Vendola. In platea tanti quindicenni e ventenni. Se il Che vivesse ancora, e fosse su Facebook o Twitter, avrebbe un numero impressionante di followers. E chissà cosa penserebbe del sogno infranto delle primavere arabe, o di Syriza, o dei black block: “Chi sono i black block?” ci chiede Juan.

Caro Juan Martin, che rapporto aveva con suo fratello Che Guevara?
“Ero un bambino, lui aveva quindici anni più di me. Ernesto viaggiava molto: ero il più piccolo dei suoi fratelli, e così lui mi raccontava quello che vedeva nei suoi lunghi spostamenti. Quando sono diventato adolescente e ho cominciato io stesso a fare militanza attiva, il nostro legame è maturato: oltre che un fratello, è diventato anche un fondamentale referente politico e culturale”.

Cos’era, per il Che, la famiglia? Il vostro era un nucleo familiare largo, anzi, allargato. Per esempio rimase sempre in contatto epistolare con sua zia Beatrice.
“Il suo rapporto con noi era talmente stretto che quando si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, e nonna Ana si ammalò, lui decise di lasciarla subito per rientrare a Buenos Aires, dove si segnò a Medicina”.

Quali sono i ricordi più vivi che ha di suo fratello?
“Forse quelli che vanno dal 1959 al 1961: anni di impegno politico acceso e di dialogo, ormai, tra persone adulte”.

Di cosa parlavate quando eravate insieme?
“Per lo più discutevamo di politica internazionale, di Cuba. Mi chiedeva soprattutto della situazione in Argentina”.

Che tipo era, visto da vicino? Jean-Paul Sartre lo beatificò in questi termini: “Non era solo un intellettuale, era l'essere umano più completo del nostro tempo”.
“Mio fratello era un tipo franco e diretto. Una caratteristica, questa, nel dna della nostra famiglia. Inoltre possedeva una smagliante mente scientifica. Nei suoi anni da ministro dell’industria chiamò a lavorare con lui un matematico spagnolo rifugiato in Urss: sotto la sua gestione, fu costruito il primo computer dell’America Latina…”.

Il mito di Che Guevara prosegue inarrestabile, e probabilmente non morirà mai. Come nasce e si tramanda, di nuova generazione in nuova generazione?
“Molte delle cose per cui il Che ha combattuto non sono state ancora realizzate, è per questo che i giovani continuano ad adottarlo: sentono forte e urgente il suo esempio, il suo insegnamento teorico e di vita”.

Potrebbe rinasce un nuovo Guevara?
“Non solo è possibile, ma è necessario che vengano al mondo nuove figure che portino avanti i suoi ideali”.

Anche lei a un certo punto ha scelto la strada della politica attiva.
“Sono stato un fervente militante socialista negli anni sessanta e settanta. A scuola, e all’università, anche se io non ero certo un tipo da libri, ma semmai da strada: sono stato un camionista, un sindacalista, e via dicendo”.

Cosa ha pensato quando Raoul Castro e Obama si sono stretti la mano?
“Tutto il mondo adesso è capitalistico, e quindi non si può accusare Cuba di aver voltato le spalle al socialismo. Quest’Isola desidera solo una cosa giusta e legittima: che sia rimosso l’embargo”.

Dove sarebbe oggi suo fratello, Ernesto “Che” Guevara?
“Sicuramente sarebbe e lotterebbe nel posto giusto, dove prosperano le più grandi ingiustizie”.

Maurizio Di Fazio

Così le parole finirono al rogo come le streghe

  • Giovedì, 07 Maggio 2015 08:33 ,
  • Pubblicato in Flash news

La Repubblica
07 05 2015

Il 10 maggio del 1933 i nazisti bruciarono oltre 25mila libri in cima alla lista c'era Remarque. [...] Alla fine di gennaio i nazisti avevano preso il potere e s'era conclusa l'esperienza della Repubblica di Weimar, un mese più tardi bruciava il Reichstag e iniziava la caccia ai socialisti e ai comunisti, agli anarchici e ai sindacalisti. Per le cerimonie dei roghi dei libri si mise in moto il rituale. Tutti i parafernali del nazismo: bande musicali, fiaccolate, carridi buoi pieni di volumi, convocati per il grande atto purificatore della giovinezza contro l'intellettualismo ebraico: un grande rogo pubblico di libri. ...

Wolf Bukowski, WuMing Foundation
1 maggio 2015

È il 1937. Il nonno materno di Oscar Farinetti vuole "la luce" in casa, ma prima deve convincere il vicino recalcitrante ad accettare che i cavi elettrici passino sul suo tetto. In cambio offre l'allaccio gratis ma soprattutto mette in scena "una performance descrittiva senza precedenti". Senza precedenti ma anche senza l'esito sperato, ahilui.
la Repubblica
30 04 2015

Parafrasando il motto di un celebre film americano si potrebbe prendere a prestito la frase citata da Robin Williams che interpretava il disc jockey dell'aviazione statunitense Adrian Cronauer. Le immagini di questa galleria, a guardarle così sembrano lontane anni luce e chi oggi ha vent'anni non ha neppure il ricordo di quella tragedia se non per averla vista sul grande schermo o in tv.

Eppure queste sono foto che raccontano un pezzo di storia del mondo. Immagini che hanno mobilitato i giovani che chiedevano pace invece che guerra. Su quella tragedia sono stati scritti libri, girati film, organizzati concerti. Il comune denominatore era il no all'Imperialismo, sì all'autodeterminazione dei popoli attraverso la democrazia e non ai conflitti.

Una prova durissima per l'immagine degli Stati Uniti che contava i morti (da entrambe le parti) e subiva lo smacco per non aver avuto ragione di un popolo e di pezzo di terra così piccolo rispetto a loro.

Il 30 aprile 1975 è una data simbolo: quel giorno di 40 anni fa cadeva Saigon, capitale del Vietnam del Sud, ponendo così fine alla guerra durata venti anni.

In questa galleria gli scatti dell'epoca che rievocano gli ultimi giorni del conflitto e che restano nella memoria di più di una generazione.

Il partigiano Buby

  • Venerdì, 24 Aprile 2015 08:33 ,
  • Pubblicato in IL MANIFESTO

Il Manifesto
24 04 2015

Verso il 25 aprile. Massimo Ottolenghi, una vita lunga 100 anni (a giugno), militante di Giustizia e Libertà. Durante la guerra organizzò nelle Valli di Lanzo e a Torino, una rete di soccorso per ebrei e perseguitati. Protagonista della Liberazione dal nazifascismo, magistrato e poi avvocato, ora invita i giovani a ribellarsi e a difendere scuola pubblica e Costituzione

Non ha mai ceduto alla reto­rica. Mas­simo Otto­len­ghi com­pirà 100 anni a giu­gno. Par­ti­giano di Giu­sti­zia e Libertà, magi­strato e avvo­cato nel dopo­guerra, nato in una fami­glia tori­nese laica di ori­gine ebraica, è stato mili­tante del Par­tito d’Azione con Ada Gobetti, Ales­san­dro Galante Gar­rone e Gior­gio Agosti.

«Sono fiero di essere un uomo libero, un ribelle e di invo­care, ogni 25 aprile, un esame di coscienza. Noi ban­di­ten, che i fasci­sti vole­vano ammaz­zare, siamo stati i veri e soli difen­sori della legge. Ci era­vamo bat­tuti per la giu­sti­zia e la lega­lità, in tempi duris­simi». Classe 1915, come Pie­tro Ingrao («Una grande figura»), ha respi­rato anti­fa­sci­smo fin da gio­va­nis­simo. Il padre, pro­fes­sore di diritto inter­na­zio­nale, amico e col­lega di Luigi Einaudi, fu espulso dall’Università e can­cel­lato dall’albo degli avvo­cati, a seguito delle leggi raz­ziali del 1938.

Allievo di Augu­sto Monti, peda­gogo anti­fa­sci­sta, al mitico liceo D’Azeglio, Otto­len­ghi ha fatto parte di quella gene­ra­zione unica di ragazzi che veni­vano chia­mati «comu­ni­sti dalle braie curte» (cal­zoni corti): Ema­nuele Artom, Ore­ste Pajetta (cugino di Gian­carlo, sto­rico diri­gente del Pci, arre­stato a 17 anni nei cor­ri­doi della stessa scuola) e i loro fra­telli mag­giori Vit­to­rio Foa, Leone Ginz­burg e Franco Antonicelli.

L’indelebile ven­ten­nio

Ha vis­suto un secolo, ma quei vent’anni di fasci­smo riman­gono inde­le­bili. Nel 1937, alla vigi­lia della lau­rea in giu­ri­spru­denza e della par­tenza per il ser­vi­zio mili­tare, fece il suo primo e unico pos­si­bile viag­gio all’estero, a Vienna. Lì, si trovò coin­volto in un’improvvisa spa­ra­to­ria, pre­mo­ni­zione di un futuro nero, neris­simo. «Avevo il ven­tre a terra e mi ripa­ravo die­tro a due sca­lini, le raf­fi­che ci sfio­ra­vano. Era un’incursione delle Cami­cie brune, un pogrom. Un’esercitazione in vista del pros­simo Anschluss (1938), l’annessione dell’Austria da parte delle forze nazi­ste. Fu un’esperienza scioc­cante, ma allo stesso tempo istrut­tiva. Tor­nai a casa e lan­ciai l’allarme alla comu­nità ebraica tori­nese. Venni, però, visto come un gio­vane esal­tato e sug­ge­stio­na­bile. Invece, un anno dopo arri­va­rono le leggi per la difesa della razza e, nel 1940, l’entrata in guerra a fianco dei nazisti».

La moto­ci­cletta saettava

Le bombe, il 1943 con 45 giorni di ebrezza, poi l’8 set­tem­bre: «Ci fu il tra­di­mento di tutte le parti. In via Corte d’Appello vidi un’automobile sco­perta con a bordo un gene­rale che aveva, da un lato, mezzo vitello e, dall’altro, una cas­sa­forte. Que­sto era il nostro eser­cito». E la straor­di­na­ria pagina della Resi­stenza (non solo armata), scritta sui monti della Val di Susa e di Lanzo e nelle città, con la gente comune e i coman­danti par­ti­giani (Giu­lio Bolaffi, Mario Andreis, Gianni Dolino, Bat­ti­sta Gar­don­cini, Pie­tro Sulis). Final­mente, giunse la Liberazione.

Il 25 aprile, a Torino, arrivò tre giorni dopo. «Il mio ricordo è quello di una moto­ci­cletta di grossa cilin­drata che, a fari spenti, saet­tava per le vie di una città ancora impau­rita. I cec­chini fasci­sti spa­ra­vano dai tetti del tea­tro Alfieri, lungo le strade c’erano morti e, intorno, tutto era sven­trato e fumante. Sul mezzo, c’eravamo io e Gio­vanni Tro­vati alla guida. Al tempo, era poco più di un ragazzo, in futuro sarebbe diven­tato il vice­di­ret­tore della Stampa. Aveva il com­pito di scor­tarmi in via Roma presso una tipo­gra­fia, biso­gnava fare uscire il primo numero di Gl, il nostro quo­ti­diano. Ope­rai, vec­chi e ragazzi, uomini di tutte le età, dopo aver sal­vato mac­chi­nari e scorte, sareb­bero affluiti alle prime luci del giorno, per chie­dere e por­tare notizie».

«Non è un sim­bolo posticcio»

Settant’anni fa, il mondo stava per cam­biare colore. «I signi­fi­cati che si pos­sono dare a Resi­stenza e a Libe­ra­zione – rac­conta, ora, dal tavolo del suo stu­dio – sono infi­niti, ma si rischia di farli diven­tare sim­boli posticci. La Resi­stenza è l’inizio del riscatto e la rina­scita di un popolo per la giu­sti­zia, la libertà e l’eguaglianza. Il 25 aprile segna la resur­re­zione. Per evi­tare di farne un gagliar­detto da alzare ogni dodici mesi, que­sta data dovrebbe, invece, diven­tare l’occasione per un reso­conto annuo sul pro­gresso della demo­cra­zia. Se c’è stato o meno». Come valu­tarlo? «Che tutti pos­sano, in senso egua­li­ta­rio, par­te­ci­pare alla vita poli­tica. Che i par­titi non ven­gano per­so­na­liz­zati o diven­tino stru­menti di potere e così i sin­da­cati e le coo­pe­ra­tive. Che la magi­stra­tura non venga assog­get­tata all’esecutivo e non si occu­pino posti pub­blici attra­verso cor­ru­zione e mafia. La vera rivo­lu­zione sarebbe il rispetto dei diritti e dei doveri, che agli ita­liani non piac­ciono particolarmente».

Nel 2011, al cre­pu­scolo del ven­ten­nio ber­lu­sco­niano, Otto­len­ghi ha scritto Ribel­larsi è giu­sto (Chia­re­let­tere), un monito rivolto alle nuove gene­ra­zione: «Noi non ce l’abbiamo fatta, abbiamo fal­lito, ora tocca a voi», scriveva.

Auspi­cava «un mira­co­loso sopras­salto per evi­tare una nuova shoah dei diritti». Un appello tut­tora valido: «Nel dopo­guerra, ci siamo dimen­ti­cati che non dove­vamo solo rico­struire il Paese dalle mace­rie, ma anche gli uomini. Il mio auspi­cio è che il 25 aprile sia come il 14 luglio per i fran­cesi. I primi vent’anni di que­sta ricor­renza sono stati costrut­tivi, poi distrut­tivi, con Craxi e soprat­tutto Ber­lu­sconi: attac­chi con­ti­nui alla Costi­tu­zione, alla magi­stra­tura e leggi ad per­so­nam. Non siamo ancora usciti da que­sto periodo regres­sivo, basta vedere il discu­ti­bile qua­dro di riforme costi­tu­zio­nali che vede impe­gnata l’attuale mag­gio­ranza di governo».

«Solo l’azione che nasce spon­ta­nea dall’indignazione muove la sto­ria»
Mas­simo Ottolenghi

Ogni anni­ver­sa­rio della Libe­ra­zione è tempo di memo­ria e di memo­rie. «I testi­moni sono pre­ziosi è bene che ci aiu­tino a ricor­dare, ma con con­sa­pe­vo­lezza cri­tica. La mia è una memo­ria foto­gra­fica o meglio radio­gra­fica. Degli amici, che non ho più, mi rimane impressa l’immagine della loro anima più che del loro volto. Gior­gio Ago­sti uomo appa­ren­te­mente rude, ma gene­roso e dallo humour vivis­simo. Galante Gar­rone, mite gia­co­bino come si auto­de­finì, un uomo di una dispo­ni­bi­lità ammi­re­vole». I ricordi lo ripor­tano ancora al pas­sato, all’omicidio dei fra­telli Ros­selli e al periodo in cui le dit­ta­ture arri­va­rono al mas­simo della loro potenza. Nel 1938 ini­ziò la resi­stenza di Otto­len­ghi, che ideò una rete di soc­corso e pro­te­zione per gli ebrei. «Le leggi raz­ziali furono accolte con indif­fe­renza in Ita­lia, d’altronde col­pi­vano solo 30 mila per­sone. Ci fu più coscienza umana nel popolo che nella bor­ghe­sia, igno­rando come la tra­ge­dia avrebbe coin­volto tutti. Nel 1941 vi fu a Torino un’improvvisa recru­de­scenza anti­se­mita. San Sal­va­rio e il cen­tro furono cosparsi di mani­fe­sti con la scritta “Nemici d’Italia” che aiz­za­vano al pogrom. Un gruppo di volon­tari e stu­denti ebrei, capeg­giati dalla futura pena­li­sta Bianca Gui­detti Serra, li strap­pa­rono dai muri, sor­pren­dendo la poli­zia fascista».

Un gior­nale, con Bocca e Casalegno

Dal 1944, Otto­len­ghi venne inqua­drato nella Divi­sione cit­ta­dina di Giu­sti­zia e Libertà; Buby, Oliva, Otto­lino, i suoi nomi di bat­ta­glia. Dopo la guerra, il gior­nale Gl, di cui Otto­len­ghi era ammi­ni­stra­tore e redat­tore, con Gior­gio Bocca e Carlo Casa­le­gno, durò poco; le pub­bli­ca­zioni ces­sa­rono il 4 aprile del 1946.

Era ini­ziata la dia­spora del Par­tito d’Azione. «Ricordo l’incontro con Fer­ruc­cio Parri (primo pre­si­dente del Con­si­glio dell’Italia libe­rata dal nazi­fa­sci­smo), il par­ti­giano Mau­ri­zio, che, con­sa­pe­vole di essere mino­ri­ta­rio, mi disse: “Siamo rima­sti in pochi; siamo pulci, che sanno però quello che vogliono e deb­bono volere. Dalla Repub­blica alla nuova Costi­tu­zione, al rin­no­va­mento di una coscienza democratica”».

Pesa le parole: «Ero un metic­cio figlio di un matri­mo­nio misto, libero dai rap­porti con Dio e cre­sciuto da uomo libero. Poi, sono diven­tato una cosa, vedendo scritto sui negozi che l’ingresso era vie­tato a ebrei e cani; infine, sono tor­nato uomo. Sem­pre libero, non ho mai voluto asser­virmi a nulla».

E con­clude: «I gio­vani devono difen­dere la scuola pub­blica, gli inve­sti­menti nella cul­tura e la Costi­tu­zione. Solo l’azione che nasce spon­ta­nea dall’indignazione muove la storia».

Ecco, essere par­ti­giani oggi.

Mauro Ravarino

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