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Quel condannato in Galles per "matrimonio forzato"

  • Giovedì, 11 Giugno 2015 08:32 ,
  • Pubblicato in Flash news
Corriere della Sera
11 06 2015

"Hai il diritto di sposare chi vuoi, quando vuoi, e di non sposarti affatto". Sui matrimoni forzati, il sito del governo inglese non potrebbe essere più chiaro.

Un anno fa il Parlamento ha introdotto il reato specifico di cui si rende colpevole chi costringe alle nozze esercitando una violenza fisica o psicologica.

Per la prima volta, ieri, un tribunale gallese ha applicato la nuova legge. Il giudice Daniel Williams si è rivolto all`imputato, un 34enne di Cardiff, e ha descritto il delitto.

Eri ossessionato da lei. L`hai attratta con l`inganno nel tuo appartamento, hai chiuso a chiave, hai gettato il suo cellulare, le hai legato i polsi con i foulard di tua moglie e l`hai stuprata. ...
violenzaQuello di Mutili in Turchia - dove lo scorso anno si è registrato un record di 300 omicidi di donne - è solo un caso fra i tanti di una lunga lista, che non conosce confini. Si aggiunge ai ripetuti stupri di gruppo e agli assalti con l'acido in India, alle donne bottino di guerra in Sud Sudan, alle mogli schiave dei jihadisti dell'Isis in Iraq e di Boko Haram in Nigeria, alle lapidazioni in Iran, alle spose bambine in Siria, Afghanistan, Yemen, Pakistan e via dicendo. E non è soltanto un problema del mondo islamico o dei Paesi in via di sviluppo. Questa strana pandemia colpisce ovunque, anche dove non te l'aspetti.
Sara Gandolfi, Sette-Corriere della Sera ...

Il Fatto Quotidiano
29 05 2015

Oggi è il Denim day, la giornata istituita 15 anni fa dall’associazione Peace Over Violenze in risposta alla sentenza della Cassazione che nel febbraio del 1999, in Italia assolse un uomo dallo stupro di una ragazza perché indossava un paio di jeans. E in questa giornata lanciamo la sfida di pubblicare articoli con lo stesso titolo: “Perché non ho denunciato” e cominciamo facendolo in prima persona su questo blog su IlFattoQuotidiano.it, su quello di Luisa Betti su il Manifesto, e sul blog La 27 ora sul Corriere della Sera. L’iniziativa è promossa da un gruppo di giornaliste che invitano tutte le altre, giornaliste e blogger, a fare proprio il titolo e l’immagine. E invita tutte le altre donne a raccontarsi rispondendo a: Perché non ho denunciato.

Ho subìto un’aggressione sessuale da un ragazzo. E’ accaduto molti anni fa. Era uno con cui ero uscita. Lo avevo conosciuto ad una festa e ci eravamo dati appuntamento due giorni dopo per cenare in un locale sulla spiaggia. Ma poi, la sera a tavola era stato sgradevole e inopportuno e quanto più io ero a disagio e mi dimostravo irritata, tanto più lui continuava ad assumere un comportamento invadente. Sembrava che ce l’avesse con me. Avevo trovato una scusa per andarmene. Mi ero incamminata per il sentiero che attraversava la pineta, lui mi aveva seguito e mi camminava accanto e mi aveva aggredito all’improvviso, senza dire nulla. Ero andata nel panico e mi ero sentita come fossi una statua di cera, immobile e incapace di reagire.

Poi per fortuna erano arrivate delle persone.

Mi lasciai quella brutta esperienza dietro le spalle e non ne parlai con nessuno. Mi sentivo in colpa, in imbarazzo, questo era il punto. Ero stata sprovveduta? Avevo sbagliato qualcosa? Mi giudicavo e temevo il giudizio degli altri. Avevo già subito in passato, come moltissime altre donne nel mondo, la mia dose di molestie. La prima era avvenuta a dodici anni mentre giocavo a nascondino con delle amiche e poi negli anni successivi molestatori in auto che ti affiancavano se camminavi per strada o aspettavi l’autobus, e alcuni se non rispondevi ti prendevano pure a male parole; ingiurie varie spacciate per “complimenti”, esibizionisti, molestie in posti di lavoro da parte di insospettabili, poi mi era capitato pure per due volte di essere inseguita da sconosciuti mentre ero alla guida della mia auto, eccetera, quella notte d’estate avevo vissuto solo quella peggiore e mi era andata bene.

Non era stato poi così complicato mettere tutto nel cassetto insieme al resto. In fondo c’è un allenamento che precede l’accettazione di una “normalità” della violenza che non dovrebbe essere più accettata come tale. Non cresciamo nella pervasiva giustificazione delle violenze sessiste contro le donne? Non ci impartiscono lezioni fin da quando siamo bambine per apprendere tutte le strategie onde evitare le cosiddette “attenzioni” o violenze degli uomini? Non ci consegnano gli inutili vademecum per evitare lo stupro? Dall’antico consiglio di mamme e nonne di “non accettare caramelle da uno sconosciuto” al “non andare in strade non illuminate” o “non uscire la sera da sole” o “vestirsi adeguatamente”. Istruzioni che a ben poco servono per attraversare strade buie (le violenze avvengono ovunque) o quando le violenze si consumano alla luce dell’ abat-jour, nel luogo dove sono più diffuse, in casa.

Molti anni dopo raccontai quello che accade quella notte. Durante una formazione con una terapeuta che collaborava con un centro antiviolenza e mi sentii di poterne parlare. Ero ancora arrabbiata con me stessa per non avere reagito. La terapeuta mi spiegò che le reazioni in caso di aggressione o pericolo sono attacco e fuga e se si ha la percezione di non avere nessuna delle due possibilità, l’immobilità è una possibile reazione. Fronteggiamo il pericolo con le risorse che abbiamo o pensiamo di avere e molte volte la strategia che le donne mettono in campo per fronteggiare le aggressioni sessuali è la riduzione del danno. Ovvero, cercare di portare a casa la pelle se la percezione o la situazione è quella di essere in pericolo di vita o di subire danni fisici. Ma quante volte nei tribunali la strategia di sopravvivenza messa in campo dalle donne viene scambiata per consenso o ambiguità? E quante volte viene processato lo stile di vita delle donne, le loro scelte?

Forse è per tutte queste ragioni che non ho mai denunciato. O non l’ho fatto perché probabilmente l’unica cosa che volevo veramente era che quel ragazzo sparisse. Non volevo rivederlo più così era stato e mi bastava.

La denuncia è una scelta ma dovrebbe esserlo davvero. Nessuna donna deve essere biasimata perché non denuncia violenze piuttosto ci si deve domandare perché le donne scelgono il silenzio. La strada da prendere è quella di correggere gli errori di un sistema che dovrebbe ascoltarle e difendere i loro diritti e che invece, troppe volte, le condanna per aver detto l’indicibile.

Nadia Somma

Se dopo uno stupro è più facile dimenticare

  • Venerdì, 22 Maggio 2015 13:46 ,
  • Pubblicato in Flash news

Abbatto i muri
22 05 2015

Sono cazzate, urla lei. E mi guarda storto. Le ho appena detto che deve rivolgersi a qualcuno. Una psicologa, chiunque, perché non è possibile che si tenga tutto dentro. Non voglio, dice. A che mi serve? Tanto quel che è fatto è fatto e io sono viva, conclude. Mi fulmina con lo sguardo e capisco che è meglio non continuare. Personalmente avrei molti dubbi su quel “sono viva” e forse proietto su di lei cose per me irrisolte. Insomma, lei è stata stuprata da quattro ragazzi. Non uno, non due, ma quattro.

Ma non ne vuole parlare, non ha mai denunciato, le interessa solo dimenticare, buttarsi tutto dietro le spalle e continuare a vivere. Un po’ io la capisco perché una come lei, disinibita, conosciuta perché estroversa e poi ha accettato di andare in macchina con loro, la massacrerebbero. Direbbero che se l’è cercata o che non è vero affatto. La coprirebbero di merda e insulti. Alla fine quella colpevole sarebbe ritenuta lei.

Non l’ha raccontato neppure ai suoi. Io sono l’unica a saperlo perché è da me che è venuta quella sera, distrutta, non si reggeva in piedi, non per lo stupro in se’, perché gli stronzi sono stati attenti a non lasciarle segni, e lei, quando ha capito quello che stava succedendo, ha smesso di ribellarsi, per evitare che le facessero più male, e ha aspettato che finissero. Io sola so come stava quella sera e non riesco a digerire il fatto che lei vuole rimuovere tutto senza affrontare la questione. Non dico giuridicamente, perché se vuole denunciare o meno sono cazzi suoi, ma psicologicamente. Che vita avrà se chiude quel dolore dentro un cassetto?

A me è successo anni fa, perciò forse proietto e confondo la mia disperazione con la sua. Era uno solo ma lo ricordo come un’espropriazione del mio consenso. Ero costretta a subire da quello che fino al giorno prima era solo un collega di lavoro. E dai, e dai, diceva, ci divertiamo, e quando dissi no mi guardò strano. Mi afferrò il polso e anch’io, come la mia amica, decisi di non fare niente e aspettare solo che finisse. Ma avevo e ho ancora tanta di quella rabbia in corpo. Avrei voluto picchiarlo duro, vederlo sanguinare. Avrei voluto che sentisse lo stesso grado di impotenza che aveva imposto a me. E poi mi chiedo: è questo che le donne devono fare? Aspettare che loro finiscano? Per evitare altro dolore o, chi lo sa, anche di perdere la vita?

Aspettare che lui finisca, e per me è stata dura con uno soltanto. E la mia amica? Ha dovuto aspettare una, due, tre, quattro volte, e se il mio tempo mi era sembrato interminabile per lei com’è stato? Ora sta lì e siede sul divano. Mi osserva e capisce subito quello a cui sto pensando. Io non sono te, dice chiaramente. E io mi piglio il suo rimprovero che suona un po’ come un “fatti i cazzi tuoi”, e lo farei, per rispetto nei suoi confronti, ma è difficile, lo è tanto. Ti voglio bene, amica, ti ho vista crescere con me, perciò come puoi dirmi di non provare dolore per quello che ti è successo? E lei risponde che sono io allora che devo andare da una psicologa perché lei ha il suo bel da fare con i suoi problemi e non ci tiene a saldare la mia ansia e la mia preoccupazione.

Non mi stressare, dice, perché io vengo da te perché voglio pensare ad altro. Usciamo, andiamo a ballare, a bere, a divertirci, a scopare, perché io ho ancora voglia di scopare. E sia, se vuoi uscire esco. Lo faccio sempre quando me lo chiedi. Ma ti tengo d’occhio e se ti si avvicina uno stronzo io lo faccio a pezzi. Di nuovo il cazziatone sul farmi i cazzi miei e ci avviamo, in silenzio, camminando piano.

Siamo due donne ferite, ma perfettamente agghindate, truccate e decorate per una serata di divertimento. Chi potrebbe dire quel che abbiamo vissuto? Chi può dire cosa è nascosto dietro ogni volto sorridente che incrociamo? E perché non riusciamo più a empatizzare con il dolore altrui ma soprattutto con il nostro. Non mi accontento. Mi fermo e dico: cara, se tu vuoi andare vai, ma io stasera non ho alcuna voglia di fuggire da me stessa. Voglio incontrarmi. Se sei d’accordo vieni con me, e altrimenti ciao. Lei mi abbraccia, forte, mi dà un bacio sulla guancia e poi si gira e va. A volte capita così che due amiche si perdano. Perché l’una ricorda all’altra quello che vuole dimenticare. Non la vedo da anni. Vorrei dirle, ovunque lei sia, che io le voglio tanto bene, le vorrò bene sempre. E questo è tutto.

Ps: è una storia vera. Grazie a chi me l’ha raccontata. Ogni riferimento a cose, fatti e persone è puramente casuale.

laglasnost

L'elenco degli stupratori? Una mostruosità

La vendetta non risolve i problemi, ma rende la società - tutta - più violenta veicola un'idea opposta a quella per cui mi sono sempre battuta e continuerò a farlo. L'idea cioè che gli uomini (intesi come sesso maschile) non sono cattivi per natura ma che alcuni loro comportamenti sbagliati o violenti o deprecabili siano il frutto di una cultura, identità, storia che possiamo e dobbiamo mettere in discussione. [...] Induce a pensare che i violentatori sono i mostri, gli estranei. Mentre è risaputo che la violenza sessuale avviene molto più spesso da parte di persone conosciute se non intime.
Angela Azzaro, Cronache Del Garantista ...

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