Internazionale
24 04 2015
“In un mondo perfetto non si lancerebbe alcuno stigma sull’essere una vittima di una violenza sessuale”. Comincia così un editoriale dell’autrice statunitense Jessica Valenti di qualche giorno fa. In quel mondo perfetto e inesistente, le vittime potrebbero raccontare quello che hanno vissuto senza temere di essere insultate, umiliate o minacciate.
I giornalisti potrebbero usare i loro nomi senza paura di esporle a rischi. Ma non viviamo in un mondo perfetto né in uno che gli si avvicini e quindi, secondo Valenti, dobbiamo proteggere l’anonimato delle vittime.
Il caso del presunto stupro di gruppo nell’università della Virginia ha riacceso la discussione su come raccontare e come non sbagliare, su come non sacrificare il rigore in nome dell’empatia e sull’ipotesi di raccontare solo le storie di chi non richiede l’anonimato (la Chicago taskforce on violence against girls & young women ha curato una “cassetta degli attrezzi” per i giornalisti).
Parlare di stupro è molto difficile. Non solo a causa della cosiddetta cultura dello stupro e della tendenza a prendersela con le vittime. Quando le vittime sono donne (nella maggior parte dei casi) ci sono i pregiudizi: “se l’è cercata”, “la gonna era troppo corta” o “la camicia troppo scollata”. Quando sono uomini si aggiunge l’incredulità di genere e lo stigma della debolezza: “Ma come, non ti sei ribellato?”.
Il potere è un elemento cruciale non solo nello stupro in sé ma nella minaccia, esplicita o taciuta, del dopo. “Parlerai? Racconterai quello che è successo? Stai attenta, la troia sarai sempre tu e il prezzo più alto lo pagherai comunque tu” (e questo accade perfino negli scandali sessuali senza che vi sia abuso o violenza: se il fedifrago è lui, lo scandalo investirà pure la fidanzata o la moglie che non ha fatto nulla, se non sposare un fedifrago).
Le vittime spesso subiscono più di una violenza e non solo quella originaria. Per molto tempo nell’ordinamento italiano la violenza carnale è stata un reato contro la moralità pubblica e non contro la persona.
Ma ci sono inciampi pericolosi anche sul fronte giusto, su quello che vuole opporsi allo stigma. E forse sono più pericolosi dei primi, perché offrono un lato debole, un pretesto per mantenere le vittime “al posto loro”.
È comprensibile che spesso sia necessario essere brutali e grossolani per opporsi a un pregiudizio radicato, che si tenda a forzare e a usare anche argomenti non abbastanza forti perché il fine è comunque buono. Tuttavia questo modo di procedere è discutibile non solo in via di principio ma anche da un punto di vista strategico: rendersi attaccabili è rischioso perché si finisce per cadere anche quando meriteremmo la vittoria.
La presunzione d’innocenza
Spesso sembra non valere ciò che vale per gli altri crimini, ovvero la presunzione di innocenza e la necessità di dimostrare che lo stupro ci sia stato. Che sia difficile e che il clima sia a volte “impossibile” non dovrebbe eliminare queste due premesse, perché il risultato sarebbe peggiore non solo per la procedura penale ma in ultima analisi anche per la corretta ricostruzione degli avvenimenti e dunque per la punibilità di tutti gli stupri.
Non riuscire a dimostrare uno stupro, poi, non implica che il fatto non sia avvenuto ma solo che è impossibile dimostrarlo, e quindi non vuol dire necessariamente che la vittima presunta abbia raccontato una bugia ma solo che non siamo riusciti a eliminare il cosiddetto legittimo dubbio (si pensi al caso Bill Cosby). Succede in molti reati e presunti tali. A volte in modo eclatante (O.J. Simpson, Robert Durst), ma la necessità di dimostrare la colpevolezza di qualcuno rimane la meno peggiore delle strade. Perché provare l’innocenza di una persona è un procedimento penale atroce, e perché è meglio rischiare di non riuscire a condannare un colpevole che mandare un innocente in galera.
La rabbia della vittima o di chi ha a cuore la giustizia è comprensibile, ma la rabbia di rado ci consiglia bene. E se dovessimo seguire la collera non sarebbe allora meglio mandare qualcuno a picchiare il carnefice? Sarebbe più rapido, eviterebbe il processo e le domande spesso ripugnanti e impietose.
Dimostrare è difficile perché spesso il disaccordo sta nell’intenzione (consenso esplicito o implicito) e non si tratta solo di verificare se un rapporto sessuale (imposto) sia avvenuto o meno.
Anche un furto si distingue da un regalo attraverso la stessa sottile linea dell’intenzione. E se io dico che tu mi hai regalato quell’orologio Daytona e tu sostieni che te l’ho rubato, come risolviamo il dilemma?
Prima di essere travolta dallo sdegno aggiungo: lo stupro non è un orologio, ma l’analogia vuole illuminare la difficoltà di “dimostrare” le intenzioni e di ricostruire gli avvenimenti per poi condannare o assolvere.
Anche una volta stabiliti alcuni princìpi, purtroppo non ancora chiari a tutti, provare che sono stati violati potrebbe non essere facile o possibile.
“No” non vuol dire “sì” (a meno che non sia un gioco predefinito, negli altri casi vale il senso letterale del diniego) e il consenso è cruciale: non vuol dire che ogni volta dobbiamo firmare un contratto come chiede Mr. Grey ad Anastasia in Cinquanta sfumature di grigio, ma che il consenso è una condizione necessaria e può essere revocato in qualsiasi momento. E se non è stato specificato in precedenza, sarebbe meglio evitare casi in cui non sia possibile esprimerlo, come quando lui è abbastanza lucido e lei completamente sbronza (ma sull’alcol e lo stupro dovremmo tornare).
I consigli per evitare uno stupro rinforzano lo stigma?
Ogni volta che si parla di “consigli” (come: “non ti ubriacare in un contesto non familiare”, “non uscire da sola di notte”, e così via) una reazione comune è di condannarli come giustificazioni preventive degli stupratori. È facile capirne le ragioni, ma gli effetti collaterali negativi rischiano di essere più gravi del male che si vuole evitare, ossia alimentare la cultura della colpa e della istigazione, che va giustamente annientata.
Quando si dice di non lasciare la porta di casa aperta per evitare di essere derubati si sta forse giustificando l’eventuale furto?
Insegnare o pensare che difendersi sia utile non deve implicare una giustificazione dell’aggressione (ma sembra anche bizzarro non gestire il rischio, cercando di diminuirlo, perché l’invito a farlo potrebbe essere male interpretato).
Il pensiero “possiamo fare quello che ci pare senza dover essere stuprate (aggredite, uccise, fatte a pezzi)” rimane un principio giustissimo. Ma pure avere il senso della realtà è utile. Perciò mentre costruiamo il mondo ideale sarebbe meglio chiudere la porta di casa e cercare di evitare situazioni pericolose perché attraversare la strada a occhi chiusi, perfino sulle strisce pedonali, non ha mai impedito agli automobilisti di investire i pedoni.
Considerando poi che molte violenze sono compiute da persone che conosciamo, saperlo, essere in grado di capire e di evitarle, non è così irrilevante.
Insomma, la demolizione dei “te la sei cercata” non dovrebbe sacrificare la conoscenza e la valutazione dei rischi. E se siamo abbastanza bravi dovremmo poter avvertire le potenziali vittime senza essere accusati di ammiccare al carnefice, e magari ricordarci che la reazione passa anche tramite l’empowerment di chi è considerato debole e indifeso. La prima condizione del potere – quello buono, non quello abusato nella violenza sessuale – è conoscere la realtà.
Mentre impariamo a parlare alle vittime e delle vittime, ricordiamoci che lo stupro ha a che fare con il sesso come l’alcolismo ha a che fare con il piacere enogastronomico (forse ancora meno).
Chiara Lalli
Corriere della Sera
16 04 2015
Orrore nel nord della Francia: è stato ritrovata morta la bambina di nove anni che mercoledì era stata rapita davanti alla madre a Calais. Il corpo della piccola Chloè è stato ritrovato in bosco: era nuda e sarebbe stata violentata prima di essere strangolata, hanno riferito fonti di polizia al giornale La Voix du Nord. Gli agenti hanno fermato l’uomo, 38 anni, di nazionalità polacca, proprietario dell’auto rossa che era stata vista allontanarsi con la bambina.
L’aggressore
L’uomo era ubriaco ed è risultato avere pesanti precedenti per furti e violenze: nel 2010 era stato condannato a sei anni di carcere e a non rimettere più piede nella zona. La madre della piccola, la 43enne Dorothe, aveva raccontato il dramma di mercoledì pomeriggio quando Chloè stava giocando nel giardino di casa e lei è rientrata pochi minuti per cambiare i pannolini agli altri due figli di quattro e cinque anni. Quando è tornata fuori, ha visto l’auto che fuggiva con Chloè all’interno.
Abbatto i muri
09 04 2015
La prima volta che mi sono sentita vulnerabile fu dentro casa. Mia madre urlava, sbatteva le cose, fece cadere una sedia a terra e poi urlò ancora. Non ero piccolissima ma ricordo che mi feci piccina piccina per rendermi invisibile dietro una porta. Mia madre mi diceva sempre di stare attenta fuori casa, perché c’erano uomini cattivi che si portavano via le piccirille. Così pensavo a come avrei potuto essere invisibile dappertutto. A scuola c’erano due compagne che mi trattavano di merda. La maestra diceva che bisognava darsi la mano per entrare e uscire dalla classe e io davo la mano, e quelle ci sputavano sopra. Da grande avrei capito che col cazzo tu darai la mano a chi ti insulta e ti fa stare male.
Quando fui adolescente ero così abituata a sentirmi vulnerabile ovunque che camminavo sempre a testa bassa. Guardavo i piedi, un passo dopo l’altro, e il pavimento, e le righe delle pietre che caratterizzavano quella via. Poi, a casa, c’era mia madre che urlava ancora, e mi diceva “guardami in faccia quando ti parlo… guardami”. Credo che fu quello il momento in cui cominciò ad appannarmisi la vista. Così potevo guardare e non vedere allo stesso tempo. Sempre più miope, e timida, e studiosa, diventai più spavalda e apparentemente coraggiosa al liceo. Provavo a sentirmi indistruttibile per quanto io sapessi che l’impressione di essere fragile non mi avrebbe abbandonata mai.
Un giorno, eravamo io e un compagno di scuola, attraversammo il parco per tornare a casa. C’era un signore anziano, malconcio e puzzolente. Al mio amico chiese soldi, a me fece vedere il pene. Fu allora che mi resi conto del fatto che io e il mio amico avremmo patito di due diverse forme di vulnerabilità. Più grande, intorno ai 18 anni, io un altro amico, in uno dei tanti vicoli del centro storico, fummo costretti a inginocchiarci. Lui fu rapinato, a me toccarono le tette e uno mi infilò la mano sotto la gonna. Ancora due diversi tipi di vulnerabilità. Due diversi tipi di violenze. Quella dedicata a me si chiamava violenza di genere, perché è una violenza imposta in virtù del mio genere. Fossi stato un uomo mi avrebbero rapinato, e basta. Non avrebbero tentato di rubarmi il consenso, umiliando la mia sessualità con quelle “attenzioni” così oppressive.
Pensavo che dentro casa avrei goduto di un po’ di tregua, perché il nemico è fuori, e in casa al massimo c’è mamma che urla. Non è una cosa bella ma ho finito con l’abituarmici (che brutta cosa!). Invece fu in casa mia che un ragazzo mi costrinse a fare sesso. Avevo fatto l’errore di invitarlo a chiacchierare, vedere un film, scherzare. Pensavo fosse una persona bella. In futuro avrebbe potuto essere il mio partner. In futuro. Invece lui volle accelerare la storia e mi tenne ferma sul letto, dopo aver giocato un po’ con me alla lotta. Mi fai male, dissi, e mi resi conto che lui non giocava più. Di là c’era mia madre, e io pensavo solo a quante volte avrebbe urlato se le avessi chiesto aiuto. Probabilmente mi sbagliavo, ma fu quello il mio primo pensiero.
Disse che mi sarebbe piaciuto, era il momento, non ero più una bambina. Gli dissi okay, ma non farmi male. Invece fu doloroso, la rabbia mi consumò per giorni, perché non volevo farlo, qualcuno mi aveva costretto a fare una cosa che non volevo fare. Perché non mi era piaciuto e lui poi mi trattò come una cosa, senza valore, senza desideri, voglie, rivendicazioni.
Ho sempre voluto fare tante cose in vita mia. Ho fatto sesso in mille occasioni, con uomini diversi e senza alcun pudore. Non c’era tempo e luogo che non fossero adeguati a farlo. Pensavo bastasse a superare la brutta sensazione di essere vulnerabile. Se questo è ciò che vogliono, e io glielo do, perché dovrebbero farmi male? Contorto, vero? Ma all’epoca pensavo avesse una sua logica. Era sopravvivenza, poi l’avrei capito. E nel frattempo provavo a consegnare la mia sicurezza al mondo esterno abilitandomi al diritto di uscire tardi da sola, camminare al buio, fare l’alba per le strade, andare sola al parco, correre nel bosco, girare per locali senza che qualcuno mi accompagnasse. E una domanda mi ronzava sempre in testa. Perché a lui chiedono i soldi e da me vogliono un’altra cosa? Perché contro il furto si mobilita il mondo intero e contro lo stupro invece no?
Perché ogni volta che accenno al fatto che la notte, al buio, nel bosco o per locali, a volte non mi sento al sicuro, mi dicono che allora farei meglio ad andare in giro accompagnata? Perché è sempre e solo colpa mia? Perché a me è proibito uscire, fermarmi a riposare su una panchina, guardare il panorama, viaggiare in bicicletta per chilometri, senza avere la brutta sensazione che all’angolo può sempre esserci qualcuno che vorrà rubare il mio diritto all’autodeterminazione? E sono tutti pronti a dirmi come devo vestirmi, quando uscire e dove andare. C’è chi mi dice che se appartenessi a qualcuno, questo, non succederebbe, e altri mi hanno spiegato che se sto con uno la differenza sta nel fatto che se ci fermano a lui prendono ancora i soldi e poi agiscono su un’altra tra le sue proprietà, stuprano me, ed è lui che dovrebbe sentirsi offeso, non io.
Un giorno mi sono detta che bisogna avere più fiducia negli esseri umani. Perché la libertà è qualcosa che devi riprendere quando qualcuno vuole togliertela. Se non stai in sella subito dopo una caduta non lo farai mai più. Paurosa, immobile, vulnerabile. Accolgo queste parti di me e me le porto dietro. Sono partita per un lungo viaggio, in bici. Mi dicevano che su, al nord, avrei potuto stare più tranquilla, perché lì gli uomini sono più “educati”. Ovunque ho trovato persone belle e pezzi di merda. A volte ho beccato stronze assurde e sorelle alla giornata. Sono stata fuori sei mesi, in tutto, dormendo negli ostelli, fermandomi un pochino a lavorare dove capitava, e ho trascorso due mesi in una città europea, incantata dalla bellezza che mi restituiva. Così ho giurato che mai qualcuno avrebbe potuto fermarmi perché il mio diritto è quello di poter viaggiare, godere del presente, delle meraviglie del mondo, così come potrebbe fare un uomo.
Sono tornata l’anno scorso. Mi sono iscritta a un corso di autodifesa. Non è certo quello che mi fa sentire più forte. È stato il viaggio, la mia avventura senza meta, che mi ha dato modo di trasformare la mia paura in curiosità e ho notato una cosa. Da quando cammino a testa alta, decisa, determinata, nessuno più mi rompe le palle. Non è per colpevolizzare la me paurosa d’un tempo ma credo che gli stronzi temano allo stesso modo chi manifesta più sicurezza di loro. Sono umana, resto, come tutti, vulnerabile, ma non sono una vittima. So dire no in modo deciso, non me ne frega niente se mia madre urla. In qualche modo ho vinto la mia battaglia. Fosse anche per un giorno, un mese, un anno, ho vinto io. Ho vinto.
Ps: è una storia vera. Grazie a chi me l’ha raccontata. Ogni riferimento a cose, fatti e persone, è puramente casuale.
laglasnost
Huffington Post
09 04 2015
Afghana violentata e arrestata per adulterio costretta a sposare il suo stupratore: Gulnaz è prigioniera della società
Una donna afghana che è stata stuprata dal marito di sua cugina e di conseguenza è stata arrestata con l'accusa di adulterio si è sposata col suo assalitore ed ora è in attesa del terzo bambino di cui lui è il padre.
La donna, conosciuta solo con il nome di Gulnaz, ha raccontato alla CNN la sua straziante situazione insieme al suo marito-stupratore Asadullah e alla sua figlia più giovane, seduta vicino a lei a Kabul in Afghanistan.
La donna racconta di essere stata assalita da Asadullah quando aveva 16 anni e lui era già sposato, venendo in seguito arrestata per "adulterio forzato" - crimine per cui in Afghanistan è prevista una pena di reclusione pari a 12 anni - e costretta a partorire in carcere la bambina che era stata concepita durante lo stupro.
Per sua fortuna è stata liberata grazie ad un decreto presidenziale ma, uscita di prigione, ha creduto che l'unico modo in cui potesse reintegrarsi nella società afghana fosse sposare il suo stupratore.
"Non volevo rovinare la vita di mia figlia o lasciarmi senza aiuti, quindi sono stata d'accordo e l'ho sposato" ha raccontato alla CNN "Siamo persone tradizionaliste. Quando la nostra reputazione è rovinata, preferiamo morire piuttosto che portare l'onta di quello che è successo vivendo in società".
Adesso dichiara di "non avere alcun problema" con Asadullah e, nonostante non abbia rivolto lo sguardo una singola volta al marito durante l'intervista, dice di "essere felice".
"Non ho problemi con lui ora e non voglio pensare ai problemi del passato. La mia vita è ok. Sono felice che la mia vita, [...] stia andando avanti. Ho rotto le relazioni con la mia famiglia solo per dare un futuro a mia figlia".
Kimberley Motley, ex-avvocato di Gulnaz, ha raccontato che tutto questo è successo poiché la donna ha ricevuto forti pressioni da parte di alcuni membri del governo che l'hanno spinta al matrimonio.
"Gulnaz si è sentita dire in continuazione che né lei né sua figlia avrebbero ricevuto protezione se si fosse rifiutata di sposarlo... È diventata praticamente una prigioniera della società.
In quanto donna single ineducata ed abbandonata dalla famiglia, per Gulnaz e sua figlia la sopravvivenza sarebbe stata una strada in salita".
Asadullah, al contrario, dichiara durante l'intervista di averla aiutata col suo gesto:
"Se non l'avessi sposata, secondo le nostre tradizioni, non sarebbe potuta tornare a vivere in società - ha detto - I suoi fratelli non volevano accettare il suo ritorno a casa. Ora non ha nessuno di questi problemi".