Popoff Quotidiano
29 07 2015
In corteo non autorizzato, migliaia di donne hanno manifestato ieri sera a Firenze contro la sentenza che ha assolto sei uomini dall’accusa di stupro
da Firenze, Marina Zenobio
Erano arrabbiatissime le donne che ieri sera hanno protestato a Firenze contro la sentenza con cui la Corte di Appello di Firenze ha assolto sei uomini dall’accusata di aver stuprato, nel luglio del 2008, una giovane donna nell’area del parcheggio della Fortezza da Basso.
Alla manifestazione, convocata da un nutrito gruppo di associazioni, sono intervenute in più di duemila da diverse città del centro e nord Italia per esprimere solidarietà alla donna e alzare la voce contro una sentenza che risulta essere più un giudizio sulle scelte di vita della vittima piuttosto che nei confronti di chi quella vita ha violato.
Le stesse motivazioni della sentenza racchiudono in sé giudizi morali nei confronti della donna che non ha avuto diritto di giustizia perché secondo i giudici la sua vita “non è lineare”, quattro pagine in cui sostengono che “il comportamento della ragazza ha dato modo ai ragazzi di pensare che la stessa fosse consenziente”. In un passaggio i giudici definiscono la ragazza “un soggetto fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali di cui nel contempo non era convinta”.
Ieri sera erano tante le donne, ma c’erano anche uomini da alcune accettati da altre tollerati, che hanno prima sfilato intorno alla Fortezza da Basso, percorso autorizzato, ma poi hanno valutato che la gravità del caso pretendeva qualcosa di più che un girotondo e hanno deciso di osare di più.
Hanno prima occupato via Strozzi, davanti la questura, per proseguire verso il centro della città, via Cavour, la stazione ferroviaria, piazza del Duomo per tornare alla Fortezza.
Moltissimi i cartelli con l’hastag #nessuna scusa, ad indicare che non esistono giustificazioni per uno stupro, tanti slogan contro il patriarcato, alcuni anche duri sul tono “L’Italia stupra impunita, se non c’è giustizia ci sarà vendetta”. E non sono mancati riferimenti internazionalisti al coraggio e alle lotte delle “sorelle curde, yazide, nigeriane, indiane…”
La manifestazione, anche se in buona parte non autorizzata, si è conclusa intorno a mezzanotte e comunque senza incidenti, tra la curiosità dei molti turisti e la solidarietà delle e dei fiorentini che per qualche minuto hanno abbandonato la tv e si sono affacciati da balconi e finestre per salutare l’insolito corteo.
Anche a Roma, nel quartiere del Pigneto, in contemporanea con la manifestazione di Firenze, si è tenuta una protesta in solidarietà con la donna che ha subito violenza e contro la sentenza che ha assolto i suoi stupratori.
Abbatto i Muri
20 07 2015
Le motivazioni della sentenza di assoluzione ai sei accusati (dapprincipio) dello stupro di gruppo alla Fortezza da Basso di Firenze hanno fatto molto discutere. Per il moralismo evidente e perché il giudizio sulla vita privata e sessuale della ragazza sembrerebbe la motivazione principale che ha indotto i giudici a non crederle. Di fatto i sei, condannati in primo grado, sono stati assolti in secondo grado. Sulla sentenza vi rimando al pezzo su Il Fatto Quotidiano che descrive alcuni dei motivi per cui i giudici hanno assolto i sei. Nel frattempo, mentre il web si divide in innocentisti e colpevolisti, è arrivata la mail della ragazza che ha denunciato lo stupro. La pubblico, così com’è. A lei va un grande abbraccio, ma proprio grande, con tutta la mia solidarietà. Buona lettura!
Vorrei riuscire a scrivere qualcosa che abbia un senso ma non posso perché un senso, questa vicenda, non ce l’ha. Sono io la ragazza dello stupro della fortezza, sono io.
Esisto. Nonostante abbia vissuto anni sotto shock, sia stata imbottita di psicofarmaci, abbia convissuto con attacchi di panico e incubi ricorrenti, abbia tentato il suicidio più e più volte, abbia dovuto ricostruir a stenti briciola dopo briciola, frammento dopo frammento, la mia vita distrutta, maciullata dalla violenza: la violenza che mi é stata arrecata quella notte, la violenza dei mille interrogatori della polizia, la violenza di 19 ore di processo in cui é stata dissezionata la mia vita dal tipo di mutande che porto al perché mi ritengo bisessuale.
Come potete immaginare che io mi senta adesso? Non riesco a descriverlo nemmeno io. La cosa più amara e dolorosa di questa vicenda é vedere come ogni volta che cerco con le mani e i denti di recuperare la mia vita, di reagire, di andare avanti, c’é sempre qualcosa che ritorna a ricordarmi che sì, sono stata stuprata e non sarò mai piú la stessa. Che siano state le varie fasi della lunghissima prima udienza, o le sentenze della prima e poi della seconda, ne ho sempre avuto notizia dai social media piuttosto che dal mio avvocato. Come mai questo accada non lo so. So soltanto che é come un elastico che quando meno me l’aspetto, mentre sono assorta e impegnata a affrontare il mondo, piena di cicatrici, ma cercando la forza per farcela, questo maledetto elastico mi riporta indietro di 7 anni, ogni maledetta volta.
Ogni maledetta volta dopo aver lavorato su me stessa, cercato di elaborare il trauma, espulso da me i sensi di colpa introiettati, il fatto di sentirmi sbagliata, sporca, colpevole. Dopo aver cercato di trasformare il dolore, la paura, il pianto in forza, in arte, ecco un altro articolo che parla di me. E io mi ritrovo catapultata di nuovo in quella strada, nel centro antiviolenza, nell‘aula di tribunale. Tutto questo mi sembra surreale come un supplizio di Tantalo.
La memoria é una brutta bestia. Nel corso degli anni si dimenticano magari frasi, l’ordine del prima e dopo, ma il corpo sa tutto. Le sensazioni, il dolore fisico, il mal di stomaco, la voglia di vomitare, non si dimentica.
Che poi quanti sforzi ho fatto per ritornare ad avere una vita normale, ricominciare a studiare, laurearmi, cercare un lavoro, vivere relazioni, uscire, sentirsi a proprio agio nel proprio corpo, nella propria città. E quante volte sono stata invece redarguita dal mio legale, per avere una “ripresa”. Per sembrare andare avanti, e non sconfitta, finita. “La vittima deve essere credibile”. Forse se quella volta avessi inghiottito più pasticche e fossi morta sarei stata più credibile? Forse non li avrebbero assolti?
Essere vittima di violenza e denunciarla é un’arma a doppio taglio: verrai creduta solo e fin tanto che ti mostrerai distrutta, senza speranza, finché ti chiuderai in casa buttando la chiave dalla finestra, come una moderna Raperonzolo. Ma se mai proverai a cercare di uscirne, a cercare, pian piano di riprendere la tua vita, ti sarà detto “ah ma vedi, non ti é mica successo nulla, se fossi stata veramente vittima non lo faresti”. Così può succedere quindi che in sede di processo qualcuno tiri fuori una fotografia ricavata dai social network in cui, a distanza di tre anni dall’accaduto, sei con degli amici, sorridi e non hai il solito muso lungo, prova lampante che non é stato un delitto così grave. Fondamentale, ovviamente.
A sette anni di distanza ancora ho attacchi di panico, ho flashback e incubi e lotto giornalmente contro la depressione e la disistima di me.
Non riesco a vivere più nella mia cittá, ossessionata dai brutti ricordi e dalla paura di ciò che la gente pensa di me. Prima la Fortezza da Basso era un luogo pieno di ricordi positivi, la Mostra dell’Artigianato, il Social Forum Europeo, i numerosi festival e fiere. Adesso é un luogo che cerco di evitare, un buco nero sulla mappa della cittá di Firenze.
Mi é stato detto, é stato scritto, che ho una condotta sregolata, una vita non lineare, una sessualità “confusa”, che sono un soggetto provocatorio, esibizionista, eccessivo, borderline. C’é chi ha detto addirittura che non ero che una escort, una donna a pagamento che non pagata o non pagata abbastanza, ha voluto rivalersi con una denuncia.
Perché sono bisessuale dichiarata, perché ho convissuto col mio ragazzo un anno prima che succedesse tutto ció, perché amo viaggiare e unito al fatto che non sono riuscita a vivere nella mia città dopo l’accaduto, ho viaggiato molto, proprio per quella sensazione di essere chiunque e di dimenticare la tua storia in un posto nuovo. Perché sono femminista e attivista lgbt e fin dai 15 anni lotto contro questo schifo di patriarcato che oggi come sette anni fa, cerca di annientarmi come ha fatto e fa continuamente, ovunque.
Perché mi vesto non seguendo le mode, e quindi se seguo uno stile alternativo, gothic o cose del genere, sono automaticamente tacciata per promiscua. Perché sono (?) un’attrice e un’artista e ho fatto happening e performance usando il corpo come tavolozza di sentimenti e concetti anche e soprattutto legati al mio vissuto della violenza (e sì, la Body art é nata negli anni 60, mica ieri. Che poi, qualcuno si sognerebbe forse di augurare o giustificare chi stuprasse Marina Abramovic perché si é mostrata nuda in alcuni suoi lavori?).
Ebbene sì, se per essere creduta e credibile come vittima di uno stupro non bastano referti medici, psichiatrici, mille testimonianze oltre alla tua, le prove del dna, ma conta solo il numero di persone con cui sei andata a letto prima che succedesse, o che tipo di biancheria porti, se usi i tacchi, se hai mai baciato una ragazza, se giri film o fai teatro, se hai fatto della body art, se non sei un tipo casa e chiesa e non ti periti di scendere in piazza e lottare per i tuoi diritti, se insomma sei una donna non conforme, non puoi essere creduta. Dato che non hai passato gli anni dell’adolescenza e della giovinezza in ginocchio sui ceci con la gonna alle caviglie e lo sguardo basso, cosa vuoi aspettarti, che qualcuno creda a te, vittima di violenza?
Sono stata offesa non solo come donna, per ciò che sappiamo essere accaduto. Ma come amica, dal momento in cui il capetto del gruppo era una persona che consideravo amica, e mi ha ingannato. Sono stata offesa dagli avvocati avversari e dai giudici come bisessuale e soggetto lgbt, che hanno sbeffeggiato le mie scelte affettive e le hanno viste come “spregiudicate”.
Sono stata offesa come femminista e attivista lgbt quando la mia adesione a una manifestazione contro la violenza sulle donne é stata vista come “eccessiva” e non idonea a una persona vittima di violenza, essendomi mostrata troppo “forte”. Sono stata offesa dalla corte e dagli avvocati avversari per essere un’artista e un’attrice (o per provarci, ad ogni modo), un manipolo di individui gretti che non vedono oltre il loro naso e che equiparavano qualsiasi genere di nudità o di rappresentazione che vada contro la “norma” (per es. scrivere uno spettacolo sulla prostituzione) alla pornografia.
Mi hanno perfino offeso in quanto aderente alla moda giapponese delle gothic lolita (e hanno offeso il buon senso), quando hanno insinuato che fosse uno stile che ha a che fare con pornografia, erotismo e chissà cos’altro. Hanno offeso, con questa assoluzione, la mia condizione economica, di gran lunga peggiore della loro che, se hanno vinto la causa possono dir grazie ai tanti avvocati che hanno cambiato senza badare a spese, mentre io mi sono dovuta accontentare di farmi difendere da uno solo. E condannandomi a dovere essere debitrice a vita per i soldi della provvisionale che ho speso per mantenermi negli ultimi due anni, oltre al fatto che nessuno ripagherà mai il dolore, gli anni passati in depressione senza riuscire né a studiare né a lavorare, a carico dei miei, e tutti i problemi che mi porto dietro fino ad adesso. Rischio a mia volta un’accusa per diffamazione, anche scrivendo questa stessa lettera.
Ciò che più fa tristezza di questa storia che mi ha cambiato radicalmente, é che nessuno ha vinto. Non hanno vinto loro, gli stupratori (accusati e assolti in II° ndb), la loro arroganza, il loro fumo negli occhi, le loro vite vincenti, per esempio l’enorme pubblicità fatta ai b-movie splatter del “capetto” del gruppo, sono andate avanti nonostante un’accusa di stupro.
Abbiamo perso tutti. Ha perso la civiltà, la solidarietà umana quando una donna deve avere paura e non fidarsi degli amici, quando una donna é costretta a stare male nella propria città e non sentirsi sicura, quando una giovane donna deve sospettare quando degli amici le offrono da bere, quando si giudica la credibilità di una donna in base al tacco che indossa, quando dei giovani uomini si sentiranno in diritto di ingannare e stuprare una giovane donna perché e’ bisessuale e tanto “ci sta”.
Quello che vince invece, giorno per giorno attraverso quello che faccio, é la voglia di non farmi intimidire, di non perdere la fiducia in me stessa e di riacquistarla nel genere umano, facendo volontariato, assistendo gli ultimi, i disabili, le persone con disturbi psichici (perché sì, anche quando si é sofferto di depressione e forse soprattutto per questo, si é capaci di essere empatia e d’aiuto).
Se potessi tornare indietro sapendone le conseguenze non so se sarei comunque andata al centro antiviolenza, da cui é poi partita la segnalazione alla polizia che mi ha chiamato per deporre una testimonianza tre giorni dopo. Ma forse si, comunque, per ripetere al mondo che la violenza non é mai giustificabile, indipendentemente da quale sia il tuo lavoro, che indumenti porti, quale sia il tuo orientamento sessuale. Che se anche la giustizia con me non funziona prima o poi funzionerà, cambierà, dio santo, certo che cambierà.
La ragazza della Fortezza da Basso
Lettera donna
14 07 2015
Mentre l’automobile percorre affannosamente la strada che conduce all’aeroporto di Culiacán, nel Messico Settentrionale, il sole divora lentamente l’asfalto. Lei pensa e ripensa al suo aereo, conta e riconta i minuti. Dal finestrino penetra un soffio di
vento che mescola, come un vortice violentissimo, i pensieri della sua mente. Si guarda le mani e scruta con minuzia le curve delle sue dita, affusolate e ben curate. Poi, da un minuto all’altro che sembra interminabile, la macchina si ferma. Yecenia Armenta Graciano ha i capelli neri come l’ebano, gli occhi scuri e i tratti del viso decisi. Il suo volto sembra un ritratto fotografico di Tina Modotti: ha lo sguardo fiero, la bocca sottile e possiede quella femminilità, un po’ sacra e un po’ profana, tipica delle donne
messicane. A fermare l’automobile che la stava conducendo vero l’aeroporto il 10 luglio del 2012, erano stati due agenti in borghese, che si erano avvicinati al veicolo sostenendo che l’automobile fosse stata rubata. Come in un sequestro, Yecenia, che viaggiava con la sorella e la cognata, era stata ammanettata, bendata e portata via, in un luogo sconosciuto.
PICCHIATA, UMILIATA E VIOLENTATA PER 15 ORE
Gli ufficiali, identificati, soltanto dopo come appartenenti alla Polizia investigativa di Sinaloa, volevano che Yecenia confessasse il suo coinvolgimento nell’omicidio del marito. Yecenia era la moglie di Alfredo Cuén Ojeda, ucciso proprio qualche settimana prima. Yecenia, però, aveva negato tutto. Gli agenti, decisi a trovare il nome e il cognome del mandante di quell’omicidio, avevano preso il corpo di quella donna spaventata e lo avevano legato per le caviglie, a testa in giù. Per 15 interminabili ore Yecenia Armenta Graciano era stata picchiata, umiliata e violentata. Insieme a tutto quel dolore si erano aggiunte delle vere e proprie minacce: le dicevano che se non avesse parlato avrebbero preso, stuprato e fatto a pezzi anche i suoi figli; le parlavano continuamente di un agente a cui piaceva tagliare le lingue e le orecchie, e che stava affilando il coltello.
ACCUSATA DI OMICIDIO
Stremata e ancora bendata, le avevano preso le impronte digitali e le avevano fatto firmare una confessione che non ha mai letto. Sulla base della sua forzata ammissione, Yecenia era stata accusata dell’omicidio aggravato del marito e trasferita nel carcere di Culiacán, dove si trova tuttora in attesa del processo. Dal carcere Yecenia ha denunciato, con una voce mite, le torture subite, ma per il personale medico dell’ufficio del pubblico ministero non ci sono mai stati segni evidenti di torture o di maltrattamenti. Opposto invece è stato il parere di medici indipendenti del IRCF (Grupo de Expertos Independientes en Medicina Forense del Consejo Internacional de Rehabilitación de Victima de Tortura, ndr), che invece hanno confermato la versione della donna. Ad ascoltare la voce di Yecenia, però, ancora una volta, è stata Amnesty International che tramite il suo Portavoce, Riccardo Noury, ci ha portato tra le pieghe del metodo di detenzione più perverso: la tortura.
DOMANDA: La sconvolgente vicenda di Yecenia Armenta ha avuto inizio nel luglio del 2012 quando è stata, di fatto, ‘sequestrata’ dalla polizia investigativa di Sinaloa. Amnesty International ne richiede il rilascio e la punizione dei suoi torturatori, i quali le hanno estorto una confessione dopo quindici ore di tortura. Con quanta e con quale facilità viene inflitta e viene utilizzata come ‘metodo’ di detenzione, soprattutto sulle donne?
RISPOSTA: La tortura ha questo di paradossale: è vietata universalmente. La convenzione dell’Onu contro la tortura è stata ratificata da 157 Paesi, però le ricerche di Amnesty International, negli ultimi 4 anni, ci dicono che è stata praticata in 141 Paesi. Quindi universalmente vietata e quasi universalmente praticata. In Messico abbiamo tante storie di donne che hanno denunciato di aver subito torture. Ci sono stati complessivamente, nel 2013, una media di cinque denunce al giorno e a fronte di questo, dal 1991, le persone condannate per tortura sono soltanto 7, il che significa che la tortura, ovunque si pratichi, rimane quasi sempre impunita.
D: Per quale motivo?
R: Perché esiste un meccanismo di collusione e complicità fra le autorità giudiziarie e quelle politiche; perché, per quanto bandita, la si ritiene comunque un metodo efficace per estorcere confessioni (come nel caso di Yecenia); perché ci sono complicità nel campo delle autorità mediche nel dire, molto spesso, che tortura non c’è stata. Oggi noi sappiamo che ci sono migliaia e migliaia di casi all’anno di tortura in tantissimi paesi e naturalmente le donne non ne sono escluse.
D: Anche nella tortura c’è differenza di genere?
R: Se la tortura nei confronti degli uomini è ‘sofisticata’ e fatta di tecniche di coercizione, nei confronti delle donne è più ‘classica’: colpisce con lo stupro, con altre forme di violenza sessuale, con trattamenti umilianti sul corpo di una persona resa inerme e circondata da agenti maschili, ad esempio. Poi esistono anche le forme di tortura che non lasciano segni esteriori ma che sono anche frutto di discriminazioni di genere come l’uso di linguaggio, offese, umiliazioni, obbligo di rimanere nuda di fronte a estranei.
D: Quando è più frequente?
R: Accade in tempo di pace come in tempo di guerra, ma in tempo di guerra, se una donna viene presa prigioniera, quello che subisce è atroce, perché lo subisce come anche come cittadina, per annientare la resistenza dei parenti maschi che sono in guerra; in alcuni casi perversi, la subisce sotto forma dello stupro per ‘cambiare’ l’etnia maggioritaria del Paese, per riprodurre forzatamente l’etnia dello stupratore.
D: Yecenia infatti, nel video diffuso da Amnesty International, fa più volte riferimento alla violenza sessuale; è innegabile che sul corpo di una donna, lo stupro sia un terribile quanto efficace metodo di sevizia: è più ‘facile’ torturare una donna? Quanta mentalità ‘maschilista’ c’è nel concetto di tortura?
R: Questo è un tema fondamentale. È esercitato da uomini che quando possono applicare il loro controllo a una cultura di provenienza che è discriminatoria nei confronti del genere, ottengono il massimo accanendosi sulle donne. Quindi sicuramente c’è questa componente di ‘maschilismo’, o meglio di ‘machismo’. A questo aggiungiamo che comunque le donne sono più vittime casuali e quindi su di loro la tortura ha un effetto superiore: l’esserlo peggiora di molto la situazione perché non sei preparata; in secondo luogo una denuncia di tortura già non è presa seriamente in considerazione per quel meccanismo di impunità e complicità che si crea a difesa del torturatore. Quando è una donna a denunciare, la discriminazione di genere si fa sentire ulteriormente nella sottovalutazione o del diniego da parte delle autorità giudiziarie.
D: Quali sono i Paesi con i dati più allarmanti?
R: Quelli nei quali sono in corso dei conflitti: la Siria in primo luogo, dove ci sono stati, secondo i dati di alcune organizzazioni per i diritti umani (Amnesty International non può confermarli ma sarebbe molto difficile trovare una smentita convincente) circa seimila casi di tortura nelle prigioni, soltanto nel 2013. Nei conflitti della Repubblica Centrafricana, del Sud Sudan, la violenza sessuale nei confronti delle donne è molto diffuso. Di recente, le Nazioni Unite (il 3 luglio, ndr) hanno pubblicato un rapporto proprio sullo stupro etnico in Sud Sudan. Amnesty International invece ha pubblicato un documento sulla pulizia etnica fatta nel Congo-Brazzaville nei confronti di migranti della Repubblica Democratica del Congo, con 170 mila persone espulse in pochi mesi, tra cui molte donne stuprate prima di essere espulse. Nei luoghi dove ci sono conflitti o tensioni, la tortura è più diffusa anche perché il militarismo produce situazioni di rapporti di dominazione molto forti, anche all’interno delle famiglie.
D: E dove non ci sono conflitti?
R: Sarebbe molto interessante leggere il libro di Roberto Settembre, un magistrato di Savona, che è stato l’estensore della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha confermato, in via definitiva, le sentenze sulle torture a Bolzaneto: noi le definiamo ‘torture’ ma sappiamo che in Italia questa parola ha un significato non giuridico perché non esiste una legge sul reato di tortura. Anche in questo caso è interessante osservare la meticolosità con cui venivano sottoposte a trattamenti degradanti e crudeli le ragazze arrestate a Genova e portate a Bolzaneto. Violenza gratuita che veniva inflitta su corpi inermi. È da piccoli gesti che si evince la brutalità del concetto di tortura: lanciare un pezzo di giornale a una ragazza che con le mestruazioni chiedeva degli assorbenti, tenere le porte aperte mentre andavano al gabinetto, prenderle per i capelli e buttarle nella tazza del water: non c’è bisogno che sia in atto un conflitto perché scatti questa banalità del male.
D: Quanto possono tutelarsi e cautelarsi le donne? Esiste un programma internazionale o una sorta di Carta universale a cui una donna può appellarsi?
R: No. Le convenzioni che si occupano di diritti delle donne e che hanno per obiettivo la fine di ogni forma di violenza, a volte presentano programmi specifici di protezione. A livello internazionale non c’è nulla del genere: il comitato ONU dei diritti umani o il comitato ONU contro la tortura dovrebbero mostrare maggiore attenzione a questo aspetto. Esiste un sistema culturale che preme perché le donne non denuncino. Capita spesso che, anziché essere protette come persone che hanno subito un dolore terribile, siano ostracizzate, isolate, stigmatizzate, magari anche dalla famiglia. In alcune comunità è ancora diffuso il concetto che una donna violentata porti un’onta e getti disonore.
D: Quanto sono realmente punibili i reati di tortura una volta che vengono riconosciuti?
R: Il diritto internazionale stabilisce che, una volta riconosciuti, non possano cadere in prescrizione. La Convenzione ONU contro la tortura prevede che siano reati puniti tenendo in considerazione la specifica gravità dell’atto di tortura. Ma non è detto che la legge venga applicata. In Messico la legge c’è dal 1991 e ci sono state sette condanne ad oggi. Poi ci sono i Paesi in cui mancano le leggi, come l’Italia, e ce ne sono altri nei quali lo stigma è talmente forte che è duro a morire.
D: Uno dei casi più sconcertanti?
R: L’Egitto ha avuto una transizione nel 2011 che in una sorta di ‘gioco dell’oca’ è tornato non solo al punto di partenza ma al punto precedente, quindi nemmeno quello di Mubarak ma quello di Sadat. Lo stupro di massa all’interno delle manifestazioni (penso a Piazza Tahrir, un luogo dove avvenivano di frequente) c’è stato; i gruppi di denuncia hanno trovato un muro ogni volta che hanno provato a portare gli stupratori di fronte a un magistrato. Nel Paese sono in vigore forme odiose di test o di perquisizioni sulle donne. Penso alla famosa questione dei test di verginità (sempre in Egitto) dell’8 marzo 2011, cui vennero costrette 18 ragazze egiziane. La tesi di Al Sisi, che all’epoca aveva un ruolo nel consiglio supremo delle forze armate, era folle: in un’intervista confermò che le ragazze vennero sottoposte ai test in modo tale che se risultate vergini non avrebbero potuto accusare nessun uomo di stupro e se non lo fossero risultate avrebbero avuto la conferma che erano, a detta delle autorità, delle prostitute.
D: Una volta raccolte le firme di Amnesty International, che cosa succede davvero? I governi hanno degli obblighi legali o giuridici verso i vostri appelli?
R: No. L’obbligo giuridico ce l’hanno non perché Amnesty raccolga le firme. Il Messico, per tornare al caso di Yecenia, ha dal 1991 la legge contro la tortura e quindi non solo ha il dovere di punire i responsabili in maniera adeguata ma ha l’obbligo di prevenire e indagare efficacemente su ogni denuncia.Il Messico non ha fatto nessuna di queste tre cose nei confronti di Yecenia. Per quello che riguarda la Diaz, in Italia, non essendoci un reato non esiste la sanzione prevista: tutto è caduto in prescrizione e non ci sono state condanne significative. Le firme raccolte da Amnesty International non danno vita a un obbligo giuridico per i governi, ma possono fare pressione sull’opinione pubblica e sui governi. Nelle Filippine o in Nigeria, ad esempio, (due dei Paesi che sono al centro della campagna STOP ALLA TORTURA, ndr), abbiamo presentato, nel 2014 e nel 2015, due rapporti e avviato una raccolta di firme. Nelle Filippine, il Parlamento ha ordinato una commissione d’inchiesta sulla tortura che dovrebbe produrre un documento, e la Nigeria, il 3 giugno, ha introdotto il reato di tortura nel Codice Penale