Il testo che segue racconta l’esperienza vincente di lotta delle infermiere e degli infermieri che in varie città della Svezia si sono organizzati contro la riforma dei contratti del 2013 riforma che ci segnala la crisi del welfare in un paese "modello" come la Svezia. Peggiorando le condizioni di lavoro e salariali e mettendo così a repentaglio la salute dei pazienti, questa riforma è il segno che la precarizzazione si fa strada anche in uno dei paesi che, nell’immaginario politico collettivo, continua a essere rappresentato come uno dei più avanzati sistemi di welfare al mondo. Gli autori del testo fanno parte del collettivo che ha raccolto l’appello delle infermiere, Allt åt Alla (letteralmente «tutto per tutti»). Allt åt Alla fa parte del Coordinamento Internazionale di Blockupy e questo testo rappresenta un primo contributo al dibattito sullo sciopero sociale e transnazionale a partire dal workshop tenutosi a Francoforte durante il Blockupy festival.
Il 23 gennaio 2013 più di 30 infermiere (donne, ma anche uomini) dell’unità «terapia intensiva per bambini» di Lund (BIVA) si sono licenziate collettivamente per protestare contro le restrizioni introdotte nei loro contratti. Sono rimaste unite quando il vento ha soffiato contro, travolte dalla solidarietà proveniente anche dall’esterno, tutto attraverso la loro lotta. Due mesi dopo, hanno vinto. Region Skåne [l’organizzazione responsabile della salute pubblica nella regione di Skåne] è stata costretta a recedere, e loro hanno potuto mantenere i vecchi contratti. La resistenza paga.
Da subito, Allt åt alla ha creato una pagina Facebook per chiunque volesse esprimere il proprio sostegno per la loro campagna. In pochi giorni la pagina ha raccolto migliaia di follower, e si è sviluppato rapidamente qualcosa di molto più grande di quanto ci aspettassimo all’inizio. Oltre alle immagini e alle testimonianze da parte dei genitori dei bambini con malformazioni cardiache, e da parte dei lavoratori del settore sanitario che hanno voluto esprimere il proprio supporto – la nostra casella di posta ha iniziato a riempirsi di storie provenienti dai corridoi degli ospedali di tutto il Paese. I contributi e le storie erano distribuiti su larga scala, e hanno ottenuto un gran riscontro da parte di chi aveva condiviso le esperienze raccontate. Nella sezione commenti, le discussioni riguardavano il significato dei ricorrenti «miglioramenti nell’efficienza» (cioè la riduzione del personale infermieristico, ma con lo stesso numero di pazienti) e i livelli salariali nei diversi posti di lavoro. Sempre più la pagina si è trasformata in una comunità aperta, una fonte di conoscenza e un luogo di mobilitazione.
Il 16 marzo dello stesso anno, migliaia di persone intorno a Skåne hanno protestato contro i tagli alla sanità pubblica. Region Skåne ha indetto immediatamente una conferenza stampa. Avevano visto che a Lund un manifestante aveva portato una sarcastica mascotte di carta che rappresentava il direttore regionale Jonas Rastad, detto «siluro della sanità». Erano furiosi. Invece non erano stati turbati per niente dai 640 impiegati mancanti all’università di Skåne, dopo il blocco delle assunzioni iniziato nel 2012, né per tutti i casi che erano stati riportati, in cui la carenza di posti letto in ospedale era stata la causa diretta o indiretta della morte del paziente.
Nel 2013 uno degli obiettivi di Region Skåne era la chiusura di un’unità di chirurgia a Landskrona, ovvero: gettare nel caos un altro istituto funzionante. In questo caso, sono stati gli stessi lavoratori, con grande sostegno da parte del pubblico, a organizzare delle grandi manifestazioni, mettendo sotto pressione i media e i politici. Alla fine, la decisione è stata ritirata e hanno vinto. L’unità di chirurgia di Landskrona è ancora attiva.
Dopo la vittoria delle infermiere di Lund, una di loro ha commentato al notiziario televisivo regionale Sydnytt che «fa star bene aver fatto quella battaglia». Loro hanno iniziato questa battaglia per se stesse, per le loro future colleghe, per i pazienti e le loro famiglie. Hanno iniziato una battaglia per tutti noi, e allo stesso tempo hanno chiaramente mostrato che il mantenere una linea dura paga.
Ci sono alcune lezioni che possiamo trarre da questi eventi:
In primo luogo, diversamente da ciò che fanno generalmente i partiti di sinistra, noi non abbiamo cercato di impadronirci di queste lotte. Abbiamo iniziato con quello che eravamo – rivoluzionari, comunisti – e abbiamo lasciato che le infermiere coinvolte nella lotta visionassero i protocolli dei nostri incontri, in cui avevamo discusso le nostre strategie. Questo ha creato fiducia. Non abbiamo nascosto le nostre intenzioni né le nostre opinioni. Abbiamo portato loro la nostra solidarietà e il nostro aiuto sulle questioni pratiche: stampare poster e altro materiale di propaganda, organizzare la manifestazione, confezionare le bandiere e i cartelli per i picchetti, rendere i nostri luoghi d’incontro fruibili per loro, e così via. In secondo luogo, il gruppo Facebook continua ad avere successo, anche se non con lo stesso slancio. Alcune infermiere coinvolte in questa lotta sono più tardi confluite nel neonato «Partito della sanità», che a noi pare politicamente un vicolo cieco.
Infine, l’intervento in lotte come queste è logico nella misura in cui si tratta di qualcosa che ci riguarda tutti. Tutti noi abbiamo bisogno della sanità. D’altra parte in seguito, quando alcuni nostri compagni sono stati attaccati dai nazi e noi eravamo impegnati nell’organizzazione della più grande manifestazione antifascista di sempre nella nostra città, alcune infermiere ci hanno espresso la loro solidarietà in vari modi. Per noi si è trattato di costruire connessioni e accumulare esperienza, un esempio pratico di uno dei nostri principi fondamentali: come organizzazione dobbiamo prendere parte nelle lotte che uniscono la classe operaia e la fanno avanzare.
Tratto da connessioniprecarie.org
ingenere.it
13 10 2014
Erano 56 nel 2009, sono arrivate a 8.957 nel 2013, e per il 2014 saranno anche di più, visto che fino al primo ottobre sono state 8.545. Sono le richieste accolte dall’Inps per accedere alla cosiddetta “opzione donna”, la possibilità riservata alle lavoratrici di andare in pensione prima, ma accettando un assegno più basso (1). Un’opzione al ribasso, dunque, che però è piaciuta molto e la cui fine, prevista per il 2015, è causa di malcontento. Tanto più che due circolari dell’Inps (2) hanno dato un’interpretazione restrittiva della scadenza, limitando l’opzione a chi riesce a ottenere il beneficio entro il 2015 e escludendo dunque quelle che ne avrebbero maturato i requisiti l’anno prossimo. Limitazione a cui si oppone il “Comitato opzione donna”, che definisce immotivata e ingiusta la chiusura anticipata della finestra di uscita.
Ma come mai tanta popolarità se in realtà si accetta di uscire dal mondo del lavoro con una decurtazione stimata tra il 25 e il 30% dell’importo della pensione? E di fronte alla notevole disparità che le pensioni femminili già registrano rispetto a quelle maschili? Secondo l’ultima analisi Istat sulle differenze di genere nei trattamenti pensionistici, il reddito medio da pensione degli uomini nel 2012 (se si considerano tutti i trattamenti indipendentemente dall’età) era pari a 19.394 euro l’anno contro i 13.568 delle donne. Fatto 100 l’ammontare per gli uomini, le donne percepiscono il 30% in meno.
La differenza tra pensioni maschili e femminili supera dunque di molto la già elevata differenza nel reddito da lavoro: secondo la Banca d’Italia il reddito medio lordo da lavoro su base annua di una donna è inferiore a quello di un uomo di circa il 22%.
Occorre riflettere sulle ragioni che spingono le lavoratrici ad accettare l’"opzione donna". Innanzi tutto valgono le ragioni che hanno motivato un’opposizione diffusa, anche o soprattutto nell’universo femminile, all’allungamento dell’età pensionabile previsto dalla riforma Fornero. Per le ultracinquantenni continuare a lavorare significa aver molto meno tempo per fare le nonne o prendersi cura dei propri genitori. Un cuscinetto di welfare casalingo offerto a più generazioni in contemporanea da quella che è stata definita “generazione sandwich”. La funzione di baby sitting dei nonni è risaputa: dalla tabella 1 vediamo che l’Italia è seconda solo alla Romania in quanto a cura “intensiva” dei nipoti da parte dei nonni.
Una seconda ragione è che le donne, le italiane ancor più delle europee, sottovalutano il rischio di scarsa indipendenza economica in terza e quarta età. Secondo il sentire comune, ciò che conta non è quanto prende di pensione lei in assoluto o rispetto a lui, bensì quanto si prende complessivamente in famiglia. Si dà per scontato che si spartisca e di buon accordo, e si sottovaluta il problema di cosa succede quando si rimane soli. Se è lui che manca e c’è una pensione di reversibilità adeguata, bene. Ma in caso di divorzio o se la reversibilità è esigua, c’è un alto rischio che la donna anziana non sia economicamente indipendente e non abbia un reddito sufficiente a garantirsi una vecchiaia dignitosa. Tra le anziane sole il rischio di povertà è pari al 13,7%: due punti in più rispetto agli uomini. Le separazioni che riguardano uomini ultrasessantenni sono passate da 4.247 del 2000 a 11.265 del 2012 (dal 5,9% al 12,8% del totale delle separazioni). Per le donne over 60, nello stesso periodo, si va dalle 2.555 del 2000 (pari al 3,6%) alle 7.569 del 2012 (8,6%). Ma è sempre più diffusa e importante l’attività di cura dei “grandi vecchi” da parte dei giovani anziani o di quelli che si affacciano alla terza età. In presenza di invalidità medio-bassa dell’anziano può bastare un’assistenza leggera, che però spesso non è compatibile con un’attività lavorativa dagli orari rigidi. Nella maggior parte dei paesi europei l’età media dei familiari che forniscono assistenza agli anziani è più di 50 anni. L’idea diffusa sembra essere che la perdita economica verrebbe compensata dal non dover pagare un servizio di cura o più comunemente una badante. Le donne tendono dunque a sacrificare il proprio portafoglio guardando al bilancio familiare.
Abbiamo già descritto su inGenere come il valore dell’indipendenza economica, specie in relazione all’anzianità, sia poco sentito nel nostro paese. Il paradosso della popolarità dell’opzione donna è però spiegabile anche con ragioni specifiche legate alla struttura del nostro sistema pensionistico, in cui il numero di pensioni erogate è più alto del numero dei pensionati, data la possibilità di cumulare diversi tipi di pensioni. E le donne ne cumulano più degli uomini, in parte per ragioni di invecchiamento, arrivando a sommare per esempio invalidità civile, pensioni di reversibilità, pensione di anzianità.
L’Istat calcola che fra i beneficiari di una sola pensione le donne siano leggermente sotto-rappresentate mentre si contano circa 1 donna e mezza per ogni uomo fra coloro che ricevono 2 pensioni, e più di due donne per ogni uomo fra coloro che ricevono 3 trattamenti. Poniamo il caso che l’opzione donna comporti per la signora Bianchi una decurtazione della pensione di anzianità del 20%. Se oltre alla pensione di anzianità la signora Bianchi percepisce altri trattamenti, la riduzione sul reddito complessivo sarebbe minore. Ma di riduzione pur sempre si tratta.
Puntare dunque su una maggiore occupazione femminile è la via maestra per mettere al riparo un numero maggiore di persone dal rischio di finire in povertà nella propria vecchiaia. Occorre però valutare con attenzione che serve una certa continuità contributiva molto difficile nell’attuale mercato del lavoro (dove i pochi lavori disponibili sono part-time) e con le attuali regole previdenziali (con il calcolo della pensione basato sui contributi versati). Le donne, dal canto loro, dovrebbero essere più consapevoli della perdita determinata da carriere frammentate e dell’estrema importanza di occuparsi delle loro finanze. Molto utili sarebbero perciò programmi di alfabetizzazione finanziaria, e lo sviluppo di servizi di assistenza e consulenza finanziaria ripensati al femminile, come in questo esempio di cui abbiamo scritto di recente.
Il Fatto Quotidiano
22 09 2014
Nel libro della sociologa Anna Simone, attraverso le interviste a 21 personaggi famosi, uno spaccato sull'accesso femminile ai posti di potere e mercato del lavoro. Bocciate le quote rosa: "Imbarazzanti perché mirano ad includerci considerandoci un 'non ancora' del maschile"
di Stefania Prandi
“Non si tratta di essere differenti ma di fare la differenza”. E’ questo il leitmotiv che percorre l’ultimo libro della sociologa Anna Simone intitolato “I talenti delle donne” (Einaudi), un’analisi del ruolo che le donne hanno nel mondo del lavoro, dell’economia e della politica accompagnata da 21 interviste a personaggi femminili famosi. Attraverso le voci di politiche come Emma Bonino e Laura Puppato, di attiviste per i diritti umani come Ilaria Cucchi, di studiose come Chiara Saraceno, di femministe storiche come Lea Melandri e di giornaliste come Norma Rangeri, Simone traccia uno spaccato della società italiana che risulta ancora sperequata per quel che riguarda l’accesso femminile ai posti di potere e al mercato del lavoro. Le donne sono penalizzate da un welfare assente, dalla precarietà, dal carico delle faccende domestiche e della cura dei figli. L’aumento numerico della presenza fisica femminile al governo, nei partiti e nelle aziende, secondo la sociologa e ricercatrice all’Università di Roma Tre, non deve creare illusioni rispetto alla mancata affermazione sociale delle donne.
Perché secondo lei le donne non sono veramente affermate?
Ci troviamo di fronte a un mutamento sociale contraddittorio. Fino alla fine degli anni Settanta, indicativamente, abbiamo avuto una società tipicamente patriarcale che mirava ad escludere le donne dalla scena pubblica. Adesso, invece, ci troviamo in una fase di paternalismo soft: le donne vengono incluse, ma solo come “figure-bandiera”. Si tratta di una modalità molto politically correct che riconosce alle donne sempre un ruolo accessorio non decisivo. Eppure le donne si laureano e studiano di più, vanno ovunque e possono tranquillamente essere portatrici di un sapere autonomo. Per un cambiamento reale bisogna che le donne abbiano la forza di “fare la differenza”. Altrimenti si crea il rischio che la presenza femminile sia solo una rappresentazione plastica, priva di contenuti da utilizzare per riorganizzare il lavoro, i diritti, il potere, la rappresentanza, la società.
Nel suo libro scrive che l’affermazione delle donne è frenata anche dalla rappresentazione mediatica che ne viene fatta. Perché è sbagliata?
Le retoriche discorsive sulle donne, negli ultimi anni, sembrano andare in due direzioni opposte: si parla di donne che subiscono violenza dagli uomini oppure di donne come portatrici di Pil, del cosiddetto “Fattore D” tanto caro alle analisi alla Womenomics. Quest’ultima rappresentazione ha come presupposto che le donne danno un contributo diverso da quello maschile, fatto di cura, amore, dedizione. Entrambe le figure sviano l’attenzione rispetto alla vita materiale e quotidiana di milioni di donne che ogni giorno devono far fronte alle ripercussioni della crisi del welfare, alla disoccupazione, alla precarietà, alla difficoltà di conciliare vita e lavoro in una società che ormai non distingue più i due elementi. Ovviamente non intendo dire che non dobbiamo parlare di violenza contro le donne ma dovremmo farlo fuori dai processi comunicativi che mirano ad “oggettivarle” nel bene e nel male.
Dal testo emerge che lei non è favorevole alla questione delle “quote rosa” come misura di inclusione. Quali sono le soluzioni allora?
La politica delle quote è imbarazzante perché mira ad includerci considerandoci un “non ancora” del maschile. Io credo che il welfare sia l’unica soluzione a cui mirare. Dovremmo pensare al reddito di base, un diritto fondamentale e non di status, perché solo così si esce dalla logica del ricatto e si può ricominciare a disegnare la propria vita sulla base delle aspirazioni e dei desideri.
Perché la relazione delle donne con il potere sembra sempre difficile?
Il potere a cui dobbiamo relazionarci è rimasto invariato nel tempo. Ci troviamo di fronte al culto dell’uomo solo al potere, ad un’idea di “io-crazia”, più che di democrazia. Una forma di decisionismo politico poco propenso ad agire sul lavoro di relazione, sulla tessitura di un nuovo modo di pensare la politica stessa. Chi non si uniforma a questo modello non viene presa in considerazione.
Lei dà ampio spazio alla questione della precarietà che rappresenta un ostacolo a quella che definisce “autodeterminazione” femminile. E’ una questione che riguarda soltanto le giovani oppure è trasversale?
E’ una condizione che caratterizza molte donne giovani. Termine che, però, è un po’ travisato visto che arriva a comprendere le donne fino ai 40 anni. Non dobbiamo però dimenticarci che la precarietà è un dato strutturale, riguarda anche le cinquantenni improvvisamente espulse dal mondo del lavoro a causa della crisi, così come le esodate. Oggi in molti casi al danno si aggiunge anche la beffa. Faccio un esempio: una donna che ha fatto la segretaria amministrativa per trent’anni, improvvisamente licenziata, come fa a trovare un altro lavoro se una delle richieste è “il bell’aspetto”? Se attraverso lo “stagismo” permanente di fatto si sostituisce l’assunzione di una lavoratrice? Credo che non dovremmo fare della precarietà una questione generazionale ma la base per una lotta comune per i diritti .
Ingenere.it
10 09 2014
La popolazione anziana sembra essere in controtendenza rispetto alle dinamiche generate dalla recente crisi economica. Negli ultimi vent’anni (1991-2012) la ricchezza netta delle famiglie anziane è cresciuta del 117,8%, ovvero più del doppio di quella del totale delle famiglie italiane , ferma al 56,8%. Questo è quello che emerge dall’anticipazione dei risultati di una ricerca realizzata dal Censis in collaborazione con Fondazione Generali.
In particolare si è assistito ad uno spostamento della ricchezza privata verso le famiglie più anziane a discapito del resto della popolazione, e specialmente delle generazioni più giovani. Se nel 1991 la ricchezza familiare era prodotta prevalentemente dalla popolazione attiva, e alla popolazione anziana restava solo una piccola fetta della torta, negli ultimi vent’anni i ruoli sono lentamente cambiati, e oggi le famiglie anziane detengono più di un terzo della ricchezza totale (34,2%).
Sono diverse le cause che possono spiegare questo cambiamento. Un periodo di crescita e le generose (e onerose) politiche pensionistiche beneficiate dalla popolazione nata a cavallo degli anni '40 – ed entrata nell’età anziana a partire dagli anni 2000 - hanno garantito a quest’ultima una stabile e vantaggiosa situazione economica. La ricerca mostra che oltre alle pensioni, che rappresentano il 64,3% dei redditi delle famiglie anziane, un ruolo importante è giocato dalla gestione della ricchezza accumulata durante la vita lavorativa: ben il 27,6% dei redditi della popolazione over 65 deriva da redditi di capitale. È importante notare inoltre che sono quasi 2,7 milioni le persone con 65 anni e oltre che lavorano, in modo regolare o in nero, e di questi circa un terzo svolge un’attività lavorativa con continuità. Queste condizioni sono quasi esattamente ribaltate nella generazione più giovane, riduzione del tasso di crescita, differenti dinamiche salariali, riforme pensionistiche che hanno legato direttamente la pensione alla storia contributiva, hanno accompagnato le giovani generazioni nate dagli anni '70 in poi, determinando la riduzione della percentuale di ricchezza familiare detenuta dalla popolazione under 65.
L’impoverimento dei giovani ha riattivato il meccanismo, mai interamente interrotto, di trasferimenti di risorse (economiche e non) tra genitori e figli. Trasferimenti infra-famigliari si assumono così il compito di riequilibrare in parte le disparità intergenerazionali, e compensare le distorsioni generate dalle decisioni politiche, presenti e passate. Ogni anno 7 milioni di anziani (di cui 1,5 milioni regolarmente) contribuiscono al sostentamento delle famiglie dei figli, attivando un flusso redistributivo di risorse pari a 5,4 miliardi di euro. Inoltre gli anziani svolgono una fondamentale funzione di conciliazione tra le esigenze lavorative e le necessità familiari dei figli (1), permettendo così alle donne di lavorare e alle famiglie dei figli di garantirsi il doppio reddito familiare ormai indispensabile per uscire dalla soglia di povertà. Ed è proprio la popolazione femminile (anziana) che riveste un ruolo chiave in questa sussidiarietà intergenerazionale, non solo in virtù del fatto che nel nostro paese le attività di cura e accudimento rientrino più facilmente nella sfera di competenza femminile, ma soprattutto perché la popolazione anziana è prevalentemente una popolazione femminile: tra gli over 75 solo il 38,4% è di sesso maschile.
Il problema si pone quando questo meccanismo si interrompe e sono gli anziani ad avere necessità di assistenza. Non solo viene meno un elemento di supporto per le famiglie dei figli, ma spesso è la direzione dei trasferimenti di risorse ad invertirsi, e le famiglie che prima erano beneficiarie di aiuti e cura, corrono il rischio di trovarsi nella condizione opposta. La non autosufficienza in età anziana rappresenta in Italia un problema molto importante ed è purtroppo affrontato con strumenti inefficienti.
I dati del Censis confermano quanto sia gravosa questa condizione di disabilità: 330mila sono le famiglie che hanno dovuto usare tutti i risparmi per pagare l'assistenza, 190mila hanno dovuto vendere l'abitazione con la formula della nuda proprietà, e 152mila si sono dovute indebitare. Nel vuoto del sistema di supporto pubblico ai non autosufficienti, dovere e volere aiutare un parente non autosufficiente può trascinare a fondo l'economia di intere famiglie.
Se la perdita di autosufficienza e l’onerosità delle cure portano già porta già a qualificare la valutazione ottimistica della situazione economica degli ultrasessantacinquenni suggerita dai dati aggregati sulla quota di ricchezza detenuta, l’analisi sulla distribuzione della ricchezza mostra un quadro diverso, che evidenzia invece il crescente impoverimento della popolazione anziana. Nel 2012, un anziano su cinque viveva in una famiglia a rischio di povertà, e i dati sui redditi pensionistici presentati nella ricerca confermano quanto la ricchezza familiare sia distribuita in modo tutt’altro che uniforme: più del 40% degli anziani riceve una pensione lorda inferiore ai mille euro, e il valore medio (lordo) delle pensioni è pari a 1.284 euro. Bisogna considerare quindi che se da un lato la popolazione anziana può rappresentare una risorsa di welfare familiare di fondamentale supporto per le famiglie dei figli in questo periodo di crisi, dall’altro lato sta subendo un crescente deterioramento della propria condizione economica, e rischia di divenire un’ulteriore causa di trasferimento intergenerazionale di povertà.
In Italia si sta assistendo dunque a un duplice processo la crescente dipendenza della società dalla popolazione anziana e il contemporaneo impoverimento di una parte rilevante di quest'ultima. Data la dipendenza dei figli dall’aiuto dei genitori, la crescente divaricazione nella situazione economica nella popolazione anziana diventa un potente meccanismo di trasmissione intergenerazionale della condizione economica, cioè un fattore di immobilità sociale. Inoltre l’inversione della direzione di trasferimento di reddito nell’ultima fase di vita, quando cioè la condizione di fragilità e dipendenza dei genitori impone pesanti costi di assistenza e di cura, indica la estrema vulnerabilità di questo modello già ora, e sempre più nel futuro. I prossimi pensionati avranno infatti redditi nettamente inferiori rispetto agli attuali, e saranno molti di più di oggi, e l’onere della cura e dell’assistenza spetterà a una sempre più ridotta popolazione attiva, che non avrà le forze necessarie per far fronte autonomamente a questo compito.
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Note
(1) La ricerca conferma la funzione dei nonni nel permettere la conciliazione tra lavoro e famiglia ai propri figli, sono infatti 9 milioni (3,2 milioni regolarmente) gli anziani che si prendono cura dei nipoti.
Ingenere.it
25 06 2014
I lavoratori migranti incontrano problemi specifici nel tenere insieme famiglia e occupazione. Non solo per una questione di tempi ma anche di spazi geografici. Spesso, inoltre, l'accesso al welfare è per loro particolarmente difficile. E a fatica ci si arrangia con soluzioni informali, in primis l'aiuto di parenti e amici.
In Italia le lavoratrici immigrate sono il 44,3% degli occupati immigrati e il 10,9% del totale delle donne occupate. Se la crisi economica ha prodotto un brusco calo del tasso di occupazione dei lavoratori immigrati (-10,3 punti percentuali tra il 2008 e il 2012), così non è stato per le lavoratrici immigrate, il cui tasso di occupazione tra il 2008 e il 2012 ha subito un più modesto calo di 1,9 punti percentuali, attestandosi al 50,8%, un valore di media superiore a quello delle italiane. L’88,6% delle occupate straniere è impiegato nel settore dei servizi, di cui il 46,9% nei servizi alle famiglie, lavori che hanno risentito in misura minore delle fluttuazioni dell’occupazione. I dati positivi sull’andamento occupazionale nascondono però un rovescio della medaglia: i fenomeni della sotto-occupazione e del sotto-inquadramento professionale incidono per queste lavoratrici maggiormente rispetto ad altri e si riflettono in forti disparità del livello retributivo.
La crescente partecipazione delle donne immigrate al mercato del lavoro italiano pone in primo piano l’emergere di nuove problematiche di conciliazione. L’elemento critico non è solo il tempo, ma anche gli spazi geografici in cui si trovano dislocati i membri di una stessa famiglia. Il ricongiungimento familiare diventa il dispositivo centrale di conciliazione. Di fatto, però, la normativa impone dei requisiti difficilmente raggiungibili in tempi brevi e spesso obbliga le madri ad affidare, più o meno temporaneamente, i figli ai parenti nel paese d’origine e a mantenere i legami di solidarietà familiare in uno spazio transnazionale, attraverso pratiche a distanza.
Riguardo alle politiche a sostegno delle famiglie, della maternità e della natalità si può osservare un sistema ineguale, frammentato e stratificato di accesso a prestazioni e servizi. A livello nazionale, la legge finanziaria del 2001 ha limitato l’accesso alle provvidenze economiche statali, come l’assegno di maternità, ai cittadini stranieri di paesi terzi purché residenti e in possesso di permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti. Finalmente, nell’agosto 2013, si è esteso il riconoscimento dell’assegno per nuclei familiari numerosi anche a questa fascia di popolazione. Continuano a rimanerne esclusi tutti i cittadini non comunitari con permesso di soggiorno inferiore ai cinque anni e gli undocumented. A livello locale, sono eclatanti le discriminazioni prodotte da molti regolamenti comunali che, ad esempio, disciplinano l’accesso ai bonus bebè.
Tra i diversi casi, uno dei più discussi è stato quello del comune di Brescia che erogava la prestazione ai nuovi nati con almeno un genitore italiano e che ha modificato le disposizioni solo a seguito di sentenza giudiziaria. Altri comuni hanno introdotto requisiti di anzianità di residenza, come il comune di Volterra che richiede la residenza sul territorio nazionale da almeno dieci anni di uno dei genitori del nuovo nato o il comune di Verbania che eroga la prestazione ai cittadini italiani e comunitari che siano residenti in territorio comunale da almeno tre anni mentre i cittadini non comunitari da almeno cinque.
Anche sul fronte del sistema dei congedi, nonostante l’uguaglianza formale tra lavoratrici autoctone ed immigrate, le disuguaglianze nascono in base ai settori occupazionali, alle tipologie contrattuali e alle fragilità sociali. In particolare, le lavoratrici domestiche sono tra le meno tutelate dalle normative sui congedi e in questo settore sono ampiamente diffuse forme di lavoro “nero” e “grigio”. Per chi svolge lavoro dipendente, la scarsa conoscenza delle norme, il forte legame che esiste tra il possesso di un contratto di lavoro formale e il mantenimento del permesso di soggiorno insieme alla pressione esercitata dai datori di lavoro, inducono a non avvalersi dei congedi parentali. Ne troviamo conferma nei dati dell’Inps: nel 2012, i cittadini non comunitari che hanno beneficiato dell’indennità di maternità costituivano l’8,4% del totale dei beneficiari e coloro che si erano avvalsi dei congedi parentali rappresentavano il 5,2%. Inoltre l’accesso dei minori stranieri ai servizi per l’infanzia non è affatto scontato: negli ultimi anni, in diversi comuni italiani si è tentato di limitarne l’accesso introducendo requisiti discriminatori. I Comuni di Ciampino, Trieste e Talentino, tra il 2010 e il 2013, avevano introdotto quale criterio per ottenere maggior punteggio nelle graduatorie d’iscrizione per la scuola dell’infanzia e per gli asili nido pubblici, una determinata anzianità di residenza nel territorio comunale di almeno uno dei genitori. Ancora a Padova e Bologna nel 2010 si richiedeva il possesso di permesso di soggiorno da parte dei minori non comunitari.
Nel 2013, ho svolto una ricerca che ha coinvolto un gruppo di madri immigrate, di cui otto sposate e cinque madri sole, nel tentativo di esplorare le loro strategie di conciliazione in Italia. È emerso uno scarso impatto di molte misure di conciliazione, eccetto per gli effetti dell’uso dei servizi per l’infanzia seppure con notevoli differenze tra l’offerta della città medio-grande di Padova e dei comuni limitrofi.
Le madri che riescono a restare sul mercato del lavoro a tempo pieno o part-time sono costrette a soluzioni prevalentemente informali, che devono essere di complemento anche nel caso di disponibilità di servizi. Per le lavoratrici domestiche, l’assenza di tutele normative viene in parte colmata attraverso la negoziazione con le famiglie per cui prestano servizio. Le negoziazioni fondano la loro forza su un fragile legame di fiducia che s’instaura dopo lunghi periodi di servizio e che spesso s’infrange con il licenziamento a fronte di una nuova maternità.
Quando le madri sono inserite in una rete familiare in Italia, la cura dei figli viene distribuita tra i generi e le generazioni. I parenti si alternano nell’accudimento, in una continua ricerca di conciliare i tempi del lavoro di ognuno. «Ancora adesso per mia figlia chiedo aiuto a mio zio, a mio fratello, a mia mamma e al marito di mia mamma perché anche loro hanno orari di lavoro a turni», racconta Marta, nubile, colombiana, assistente familiare presso una cooperativa.
Tra le coppie coniugate, il ridimensionamento della presenza sul mercato del lavoro dei padri, dovuto agli effetti della crisi economica, ha prodotto una loro maggiore partecipazione nell’ambito del lavoro familiare, talvolta non priva di contraddizioni culturali esplicitamente riconosciute. Infatti, i padri spesso traspongono la loro volontà di supportare la famiglia dalla sfera professionale a quella familiare, anche quando questa contrasta con le rappresentazioni soggettive intorno al proprio ruolo familiare e con culture della coppia improntate da modelli diversi ma persistenti di patriarcato. Liliana, Ester, Juliet, Alina raccontano di mariti che si occupano di preparare il cibo, fare la spesa, spazzare, aiutare nei compiti e giocare con i bambini ma anche di mantenere i rapporti burocratici con le istituzioni, come la scuola, soprattutto laddove abbiano maggiore padronanza della lingua italiana.
Quando, invece, in Italia la rete familiare è assente o non è possibile farvi affidamento, le madri attivano relazioni di solidarietà con persone estranee alla famiglia per garantire l’accudimento dei figli: vicini di casa, mamme i cui figli frequentano la stessa scuola, connazionali con cui si convive.
Il periodo più problematico, soprattutto per le madri sole, è l’estate, con la chiusura delle scuole, i centri-estivi a pagamento sono economicamente proibitivi e quelli organizzati dalle parrocchie coprono solo poche settimane. Si cerca di far coincidere le ferie accumulate nel corso dell’anno con questo periodo oppure si affidano i figli ai parenti, in particolare i nonni, nel paese d’origine.
A fronte di un quadro di sostanziale esclusione delle madri immigrate dall’accesso alle politiche di conciliazione e perciò al complesso dei diritti di cittadinanza, ci pare che le politiche d’inclusione dovrebbero convergere su tre campi d’azione principali: la rimozione delle rigidità normative e burocratiche relative al ricongiungimento familiare, permettendo ricongiungimenti orientati al godimento reale dei diritti alla vita familiare; lo sviluppo di un sistema di welfare omogeneo a livello nazionale per quel che riguarda i livelli essenziali di accesso ai servizi e di sostegno del reddito e l’estensione anche al lavoro domestico delle normative previste per la tutela della maternità e per i congedi.
Note:
(1) Rapporto Annuale Istat, 2013
(2) La ricerca, svolta con interviste semi-strutturate, è stata condotta per la tesi di laurea magistrale “Madri immigrate. Strategie di conciliazione tra lavoro e famiglia” (relatori Fabio Perocco e Giuliana Chiaretti), è stata svolta nel territorio della provincia di Padova e ha coinvolto tredici madri lavoratrici, di diversa nazionalità (Romania, Moldavia, Bosnia-Erzegovina, Perù, Colombia, Marocco, Iran, Nigeria), inserite in nuclei familiari ricongiunti in Italia. I nomi delle intervistate inseriti nell’articolo sono di fantasia.