Il Fatto Quotidiano
21 09 2015
Dopo giorni di scontri violenti sulla Spianata delle Moschee e nei sobborghi arabi della città e in Cisgiordania, il governo del premier Benyamin Netanyahu ha approvato le misure che lo stesso primo ministro aveva già annunciato: "Sono armi letali, possono uccidere". Ong Adalah: "Norme illegali"
Proiettili in risposta a pietre e molotov. In certi casi e condizioni, al tiro di sassi e bottiglie incendiarie la polizia israeliana a Gerusalemme avrà carta bianca per aprire il fuoco. Dopo giorni di scontri violenti sulla Spianata delle Moschee e nei sobborghi arabi della città e in Cisgiordania, il governo del premier Benyamin Netanyahu ha approvato le misure che lo stesso primo ministro aveva già annunciato.
“Le pietre e le bottiglie incendiarie – ha spiegato dopo la riunione dell’esecutivo – sono armi letali: possono uccidere e hanno già ucciso. Per cui negli ultimi giorni abbiamo cambiato gli ordini di apertura del fuoco per gli agenti impegnati a Gerusalemme”. Una mossa subito contestata dall’ong araba, Adalah, che ha definito “illegali” le misure, denunciate già duramente dalla dirigenza palestinese nei giorni passati. Ma i passi intrapresi dal governo non si fermano qui: Netanyahu – ricorda l’Ansa – ha detto che sarà accelerata la legislazione “per imporre multe ai parenti dei minori che tirano pietre e bombe incendiarie”.
Così come una legge che stabilisce “un minimo di pena” per gli autori dei lanci: i media riferiscono di 4-5 anni di carcere per i tiri dei sassi e di 10 anni per le bottiglie incendiarie. “Non possiamo accettare il principio – ha aggiunto – che nella nostra capitale Gerusalemme, o in qualsiasi altra parte dello Stato di Israele, la gente organizzi il terrorismo e cominci a tirare pietre alle auto che passano e uccida le persone”. Per questo si è rivolto ai giudici – che dovranno poi applicare il provvedimento – sottolineando che è diritto del governo “stabilire questa norma”.
Il procuratore generale Yehuda Weinstein non sembra però – secondo quanto riporta Ynet – condividere la linea complessiva di Netanyahu: le leggi attuali così come le regole di ingaggio della polizia sono sufficienti. Un braccio di ferro che dovrebbe essere sciolto nei prossimi giorni. Netanyahu ha poi rigettato l’accusa politica – avanzata dal mondo arabo e da Ramallah – che Israele voglia cambiare lo status quo sulla Spianata delle Moschee; anzi – ha detto – “è vincolato al suo mantenimento”. La responsabilità degli incidenti sulla Spianata, va addossata – ha sottolineato – a “fomentatori” e fra questi ha menzionato i Fratelli Musulmani, il movimento islamico in Israele, Hamas.
“E con mio dolore – ha detto – anche l’Autorità palestinese vi prende parte attiva”. “Esplosivi nella moschea, questo sì – ha esclamato – che è un cambiamento dello status quo”. Sulle tensioni sulla Spianata ha fatto eco da Amman il re Abdallah che oggi ha incontrato una delegazione di deputati arabi della Knesset. “Lo dirò una volta sola e per tutte – ha sottolineato, citato da Haaretz – non c’è partnership né divisione: Al-Aqsa è un luogo musulmano di culto. Cosa vuole Netanyahu con queste azioni – ha continuato secondo la stessa fonte – Provocare una rottura?”.
Poi ha annunciato che sulla Spianata avrà un incontro in sede di Assemblea generale dell’Onu con il presidente palestinese Abu Mazen e quello egiziano Abdel-Fattah al-Sisi. La delegazione dei parlamentari arabi della Knesset dalla Giordania proseguirà per Istanbul dove, sullo stesso dossier, dovrebbe incontrare il presidente turco Recep Tayyep Erdogan.
Dinamo Press
21 09 2015
All’improvviso il nostro mondo si è nuovamente capovolto. E, ancora una volta, sono le persone delle cui vite nulla importa alle élite europee a sollevarsi: quelli i cui destini sono di solito statistiche, che sono oggetto di una paternalistica amministrazione della miseria. Il colpo di mano di Schäuble contro l’OXI greco non è stata l’ultima parola nella lotta per una nuova Europa. No. Coloro che innalzano barriere, memorandum ed eserciti al di sopra delle persone non possono impedire a quelle vite di riprendersi il diritto di infrangere l’ordine costituito.
Da qualche mese stiamo discutendo i pro e i contro della sovranità nazionale europea. I nostri amici siriani e molti altri provenienti da Iraq, Afghanistan, Eritrea o dai Balcani hanno demolito i confini incontrati lungo il loro cammino per giungere fino a noi. Continuano ad arrivare e non si faranno certo fermare. Ci trasmettono ancora una volta un messaggio chiaro - sugli orrori quotidiani che avvengono in Siria senza prospettiva di una fine imminente, e sulla forza del comune che si è realizzata attraverso gli attraversamenti collettivi delle frontiere. Che segnale di speranza, di coraggio e di disperazione quando dei siriani abbattono il filo spinato europeo scandendo le parole d’ordine della loro rivoluzione: democrazia, libertà, dignità! Ora è ovunque. E l’Europa delle lotte è più viva che mai.
Il trionfo sull’OXI greco non ha risolto la crisi, che è invece arrivata in ogni angolo d’Europa. La speranza “greca” è stata smorzata, e le lotte intorno a quella speranza o che la avversano sono a un punto di stallo. Ma a questo si è aggiungiunto un nuovo apporto “dal di fuori”.
L’enorme numero di persone determinate a sopravvivere e ad ottenere protezione e aiuto sta per il momento sconvolgendo la stasi dei sistemi di controllo e sicurezza. Lo stato di emergenza nella periferia non minaccia più il cuore delle nostre società centro-europee solo in sporadici episodi ricorrenti. Ora è presente in maniera radicale, perché le vite degli altri non vengono più trattate ai margini ma, con il loro ingresso, si auto-negoziano con una forza che nessuno aveva previsto.
Come comportarsi con l’Unione Europea
I movimenti migratori sono sempre esistiti, eppure gli avvenimenti più recenti presentano tratti inediti. Queste fughe di massa stanno irrevocabilmente riportando la Germania e l’Europa occidentale nel mondo reale. Ancora una volta ad essere sollevata è la questione della democrazia europea e, con essa, quella del nostro futuro. Di nuovo si tratta di una questione di lotta dal basso, come in Grecia, ma questa volta con la partecipazione di altri, che portano con sé richieste di uguaglianza e libertà – in molti luoghi e in molti movimenti impossibili da contenere –, e che stanno tutti premendo e assediando la stessa fortezza. Le persone si sollevano, abbattono barriere, vanno dove vogliono andare. È così che bisogna comportarsi con l’Unione Europea.
Forse le persone di sinistra, non plasmate dall’ideologia o dalle granitiche certezze di sé, troveranno qui una risposta al loro quesito sulla Grexit o addirittura la loro “terza via”: contro l’ordine normativo, il controllo, i confini dei poteri dominanti. A prescindere dalle nostre visioni e dalle nostre tradizionali pratiche “di sinistra.”
Quando il demos fa la scelta giusta
Un po’ come succede con la società civile europea, che per anni è stata l’obiettivo irraggiungibile dei programmi educativi e dei sussidi statali. Da un lato essa esiste come appello ritualizzato e come movimento istituzionalizzato, dall’altro può agire come un demos europeo, come un gesto radicale dei molti - ed è proprio quel che sta succedendo. Ricco di eventi e di entusiasmi, reale per un momento ma con conseguenze totalmente aperte, ora il demos è emerso, si è palesato nelle stazioni ferroviarie e sulle rotte della grande rivolta migratoria. Lo si trova un Ungheria (sì, anche in Ungheria), Italia, Grecia, Polonia, Danimarca… in quantità e forme diverse. Questo demos c’era già all’epoca delle proteste contro l’austerità, e ora è tornato – è difesa contro l’omogeneità sciovinista della democrazia maggioritaria, contro la morsa delle politiche statali.
Questo demos può fare la cosa giusta, soprattutto quando lo stato di emergenza si presenta senza sovranità, senza uno stato, senza controllo istituzionale. Ma naturalmente esistono anche le altre scelte: le case che bruciano tra gli applausi dei residenti, gli attacchi razzisti. Non dobbiamo abbassare la guardia contro il fascismo, né dimenticare che la nuova solidarietà, per essere efficace, avrà bisogno delle battaglie e della diffusione sociale di molte altre battaglie grandi e piccole – dall’appropriazione laica del “diritto all’asilo nei luoghi di culto” come spazi di dimora e di accoglienza, alle lotte per iniziative di protezione e libertà di movimento dei profughi, alle reti di solidarietà transnazionali che vanno dalle isole greche al porto di Calais. L’autonomia delle migrazioni è sempre esistita, come coloro che vi prendono parte, ma ora può divenire sociale come non mai. Ci pone davanti al problema della democrazia e, attraverso la radicalità della sua effettiva realtà, si offre ai nostri occhi come una questione sociale che affronta in maniera diretta i suoi interlocutori: la gente, non lo Stato o i suoi rappresentanti. Questa è la sfida per noi tutti, la nostra occasione!
Pratici, solidali – e disobbedienti
Il recente #refugeeswelcome è un piano alternativo all’egoismo nazionale e al protezionismo ricco e sciovinista. Il suo spirito non s’interroga sul piano del lavoro e dell’utilità economica, m su quello della solidarietà e dell’umanità. Il dissenso nei confronti del vigente “patto” con il potere statale comincia da qui. Si tratta di una posizione pratica e solidale, di un chiaro rifiuto delle normali e cupe condizioni dettate dalla crisi, alla faccia di tutte le affermazioni sulla “barca piena”, “la marea di rifugiati”, “gli ostacoli concreti” e “la disciplina del bilancio”. L’azione politica e la potenziale rottura con il potere costituito cominciano così. Che fare? La domanda è in questo momento rivolta a tutta la sinistra. Lo sa bene addirittura quel potere sovrano che, per qualche momento, ha vacillato. Comincia a ricalibrare il suo controllo e il comando esercitato sulla società. Devono risospingere lo stato di emergenza verso la periferia.
A che punto saremo quando arriva l’inverno?
Se restiamo identici a come eravamo, apparterremo alla vecchia società – e questo a prescindere da quanto a sinistra ci sentiamo. Cambiando, diventeremo occasione di un potenziale risveglio sociale. Dalla nostra parte dilagano incertezza e confusione: chi è consapevole della necessità di cambiare, ancora non sa come farlo. Gli altri, invece, si sono uniti a noi e ci lanciano una sfida. Se loro – come hanno dimostrato – sono stati capaci di fare l’impensabile, quando cominceremo noi almeno a pensare l’impensabile
Chi si batte per un’Europa diversa, per la libertà e l’uguaglianza, contro la guerra e l’austerità, oggi è meno solo. #refugeeswelcome, che ormai dilaga, lo sta rendendo chiaro: la vera democrazia è una questione di equilibri di potere.
Pubblicato il 10.09.2015 sul blog Blockupy goes Athens
Traduzione a cura di euronomade
Dinamo Press
21 09 2015
Un'inchiesta approfondita sui Lupi Grigi, tra Turchia e Germania: ideologia, biografia, rapporti politici, relazioni con Erdogan.
“Questo Rap colpisce tutti i Curdi, figli di puttana, la gente di merda del PKK. Questo è un rap di Bozkurt, hai dato un’occhiata? Curdo crepa, pezzo di merda … questo è il Gangsta Rap Turco” Mardinli Mc Bozkurt
“Dieser Rap geht an die ganzen Kurden, Hurensöhne, die Scheiß-PKK-Leute. Das ist ein Bozkurt-Rap, hast Du das denn nicht gecheckt? […] Kurde verreck, Du Stück Dreck, dies ist ein Türkisch-Gangsta-Rap.”
Mardinli Mc Bozkurt
Qualche giorno fa Repubblica, in un memorabile reportage da una Turchia in fiamme, diffondeva l'immagine di alcuni manifestanti turchi “che protestavano contro le violenze dei ribelli curdi”.
Al di là della scarsa qualità giornalistica del servizio, altri dettagli potevano attirare l'attenzione del lettore un po' più esperto delle operazioni di disinformazione di cui la testata spesso si è resa responsabile. In una foto infatti si distinguevano alcuni uomini con delle bandiere simili a quella turca ma non proprio identiche (tre mezzelune su sfondo rosso invece della nota grande mezza luna) e facevano tutti uno strano gesto, unendo il pollice di una mano con il dito medio e anulare e mantenendo il mignolo e l'indice tesi quasi in una versione “orientale” del celebre gesto scaramantico italiano delle corna. I galantuomini rappresentati nella foto, si chiamano Lupi Grigi e sono un'organizzazione estremista e nazionalista più volte accusata di terrorismo. Quello strano gesto è il loro saluto ed è assimilabile al saluto nazista o fascista in Europa. Repubblica purtroppo, in un eccesso di ecumenismo pacifista, ha dimenticato di scrivere lo slogan con cui erano scesi in piazza in quella giornata, solo ovviamente dopo aver dato fuoco a diverse sedi del partito di sinistra HDP in giro per la Turchia: “basta interventi militari, vogliamo il genocidio dei curdi”.
Negli ultimi giorni (ma la cosa dura a memoria personale di chi scrive almeno dall'attentato a Suruc) nel paese con la più grande comunità curda e turca nel mondo, la Germania, i Lupi Grigi hanno risposto quasi in modo automatico alla chiamata al massacro dei curdi fatta da Erdogan. In un secondo momento proveremo ad abbozzare un'analisi politica rispetto a questo.
Questo articolo, scritto a poche ore dalla loro manifestazione a Berlino e a pochi chilometri da Kotbusser Tor, scenario di diversi episodi di violenza negli ultimi mesi, non si dilungherà sui recenti fatti di cronaca (già peraltro raccontati qui) ma proverà a spiegare chi siano i Lupi Grigi innanzitutto ai redattori di Repubblica (qualcun altro dovrà magari un giorno spiegare come i militanti neonazisti in Ungheria di Jobbik che colpivano i migranti non erano “volontari stressati dalle dure condizioni di lavoro” o Alba Dorata in Grecia non si occupa di meteorologia).
Un articolo necessario perché nelle nostre sicure e calde metropoli, sempre più spesso le guerre che lambiscono i confini della Fortezza Europa, e di cui siamo in gran parte responsabili, arrivano a turbare i nostri sogni e magari la conoscenza di ciò che accade e ciò che si muove intorno a noi potrà aiutarci a prendere una posizione all'altezza della complessità di ciò che viviamo.
Panturchismo e ideologia turanista
I Lupi Grigi hanno la loro ragion d'essere ideologica nel “panturchismo” cioè l'unione in un unico stato nazione di tutte le popolazioni di etnia turca. Un'ideologia fondamentalmente razzista che voleva rispondere al disfacimento dell'impero ottomano dopo la prima guerra mondiale. Simbolo del movimento è il lupo grigio, ispirato da un mito: secondo la leggenda, un lupo in epoca pre islamica salvò le tribù turche in pericolo dalle montagne dell' Asia centrale. Il lupo grigio è visto come un cacciatore potente che si aggira liberamente e in modo indipendente in tutto il paese. L'immagine del cacciatore legittima la persecuzione di tutte le popolazioni non-turche, in particolare le minoranze che insistono nello stesso “habitat” del lupo. Il fondatore e leader del movimento a cui si rivolgeva come a un vero e proprio branco, Alparslan Turkes, era noto anche con il nome di battagli di "Upper Wolf".
Il panturchismo è anche chiamato ideologia turanista e accomuna i neonazisti ungheresi di Jobbik per esempio ai Lupi Grigi (Turan è infatti l'antico nome persiano per l'Asia Centrale); questa ideologia situa l'origine dei magiari e dei turchi a est, contrapponendoli cioè agli slavi. Nonostante all'epoca in cui il turanesimo andasse di moda fra la classe dirigente ottomana fosse per esempio sconosciuta la radice linguistica ungro-finnica, che avrebbe smontato facilmente questa teoria pseudoscientifica, l'ideologia è stata mantenuta viva dai Lupi Grigi anche nel dopo guerra e oggi è stata fatta propria anche dalla Guardia Nazionale Ungherese (un corpo paramilitare che fa capo a Jobbik).
Jobbik e i Lupi Grigi oltre a rivendicare la superiorità di una razza e la legittimità dello sterminio di tutti i popoli che insistono sulla loro presunta patria hanno nell'omicidio e nella violenza la principale pratica comune. Ma oltre a questo ponte ideologico con una formazione neonazista “legale” in Unione Europea, i Lupi Grigi hanno una storia oscura e tentacolare che è bene sia conosciuta per avere chiara una mappatura del network della destra europea e non solo su cui spesso si poggiano.
I Lupi Grigi e l'MHP, una biografia
Per comprendere a meglio la realtà dei Lupi Grigi è bene iniziare dalla lettura della biografia del loro fondatore: il “lupo supremo” Alparslan Turkes. Nato nel 1917 a Cipro, a 16 anni, nel 1933 si trasferisce in Turchia. Qui intraprese la carriera militare in modo brillante, diventando presto un ufficiale. Il giovane ufficiale si manifestò più volte entusiasta nei confronti del nazionalsocialismo tedesco. Durante la seconda guerra mondiale, le sue simpatie per l'ideologia nazista gli causarono il carcere militare in diverse occasioni, anche se dalla prestigiosa posizione di colonnello di Stato Maggiore.
Nel dopoguerra, nel 1964, Alparslan Turkes coronò anche la propria carriera politica, diventando segretario del marginale "Partito Nazionale Repubblicano dei Contadini" (CKMP). Il 2 agosto 1969, assunse anche la presidenza dello stesso partito a cui dette un nuovo statuto e un nuovo nome. Nacque così il "Partito Movimento Nazionale", l'MHP. La bandiera della nuova formazione politica divenne la bandiera di guerra ottomana con le tre mezzelune. I militanti del partito si definiscono Ülkücüs, letteralmente “idealisti”, ma ufficiosamente iniziarono a chiamarsi Lupi Grigi.
Da subito il partito investì gran parte dei propri fondi in strutture giovanili e nella formazione di gruppi paramilitari. Già nel 1969, in Turchia avevano 34 campi di comando in cui venivano addestrati 100.000 giovani Lupi Grigi. Dalla fine degli anni '60 questi paramilitari, costruiti volutamente sul modello delle SA e delle SS, combatterono in Turchia battaglie selvagge contro gli avversari politici.
Nella fase tra il 1975 e il colpo di stato militare del 1980, si registrarono circa 5000 morti in conflitti armati. La maggior parte di queste morti erano socialdemocratici, socialisti, sindacalisti o membri di minoranze etnico religiose come i curdi e gli aleviti. In seguito al colpo di stato militare del 1980, le organizzazioni giovanili paramilitari furono dissolte e nel 1981, 587 funzionari dell' MHP processati dai tribunali militari con l'accusa di eversione e “minaccia alla democrazia”. Nell'atto d'accusa si leggeva letteralmente: “istigazione alla guerra civile” (e su questo bisogna tenere ben presente quello che oggi sta succedendo in Turchia per intuire come Erdogan stia usando i Lupi Grigi nel paese).
In seguito a questa ondata repressiva in patria gli Ülkücüs ripararono in Germania Ovest, meta di un'emigrazione di massa dalla Turchia già dai primi anni '50. Nel 1978, venne fondata (come “associazione senza fini di lucro e di promozione sociale”) l'ADÜTDF, un vero e proprio dipartimento estero dell' MHP, con sede a Francoforte sul Meno, con il supporto strategico della politica tedesca; un ruolo centrale nel supporto alla nascita della cellula “tedesca” dei Lupi Grigi fu infatti rivestito allora dal primo ministro bavarese Franz Josef Strauss (CSU) e da quadri locali della CDU.
Nel giro di due anni la rete dell'MHP si era completamente ricostruita nella Repubblica Federale Tedesca. E da subito iniziarono a verificarsi episodi di violenza.
A Berlino-Kreuzberg, storico quartiere a forte presenza turca, nel 1980 gli ultranazionalisti assaltarono, armati di coltelli, un gruppo di comunisti mentre distribuiva volantini. Rimase sull'asfalto il 36enne, insegnante e sindacalista, Celalettin Kesim, dissanguato. Ancora oggi a Kottbusser Tor a Kreuzberg una lapide ricorda il 5 gennaio 1980, l'inizio della violenza dei Lupi Grigi a Berlino. Dopo una sequenza di episodi di violenza politica, il presidente dell' ADÜTDF Musa Serdar Celebi venne arrestato. Aveva fornito all'assassino di Papa Giovanni Paolo II, Ali Agca, denaro e supporto logistico per il suo viaggio a Roma.
In Turchia, l'MHP rimase in clandestinità dal 1981 al 1987. Ma se in patria l'organizzazione si era indebolita, in Germania furono fondate altre due organizzazioni a lei legate: la ATIB a Colonia e la ATB a Francoforte sul Meno. Le tre organizzazioni ombrello dell'MHP contano oggi a livello nazionale in Germania circa 303 club con almeno 18.500 membri, diversi istituti scolastici, moschee, associazioni di volontariato, sportelli legali e gestiscono fondi di investimento e immobiliari.
In Germania negli anni 80 il movimento aggregava giovani immigrati di seconda generazione per lo più marginalizzati nei quartieri turchi dei “Gaestarbeiter”. Nelle moschee e nei luoghi di ritrovo giovanili, l'MHP ridava a una generazione marginalizzata dal capitalismo tedesco una nuova identità, una forma di orgoglio e una missione esistenziale. Nel misto ideologico di panturchismo, radicalità islamista e razzismo, i giovani figli dei “Gaestarbeiter” di prima generazione trovavano la forza di ricostruire una comunità, di difendersi in un territorio percepito come alieno e ostile.
Questo mix terribile ed ambiguo di idee era raccolto in un testo dal titolo "Dottrina delle nuove luci". Un vero e proprio best seller negli anni '80 in Germania. L'addestramento fatto dagli esuli turchi dell'MHP ai giovani si muoveva su un doppio piano: da un lato di tipo ideologico e organizzativo, dall'altro religioso. L'Islam era poco diffuso tra i migranti turchi di prima generazione, ma svolse un ruolo di collante fondamentale e di legame con la “patria” per la seconda generazione turca, che patria non conosceva. Ovviamente l'MHP in Germania iniziò a selezionare i suoi nuovi quadri in questa generazione. L'organizzazione riguardava anche giovani di età inferiore ai 18 anni per cui l'MHP aveva una struttura ad hoc in tutto e per tutto simile alle strutture paramilitari dei Balilla italiani e della Hitleriana Jugend tedesca. Già da giovanissimi si veniva inquadrati in una struttura paramilitare e si svolgeva un ruolo nel controllo dei territori.
Le organizzazioni drenavano fondi da traffici illegali come lo sfruttamento della prostituzione, il racket per la “protezione territoriale” dei commercianti turchi dagli odiati militanti curdi (insediatisi anche loro parallelamente in Germania sempre in fuga dalle repressioni dello Stato turco) e dalla vendita di armi. Le associazioni ombrello dell' MHP, invece, si occupavano formalmente di questioni legali e fornivano supporto per dipanare questioni burocratiche con lo Stato tedesco ai migranti.
I Lupi Grigi venivano addestrati al combattimento: taekwondo, boxe e kickboxing. Era un addestramento funzionale ai conflitti di strada anche e soprattutto con i militanti del PKK. Negli anni '80 gli scontri nelle strade tedesche tra curdi e turchi divennero quasi quotidiani, ma la governance della Germania Federale non se ne preoccupava fino a quando avvenivano in quartieri marginali a fortissima presenza migrante. Quando la politica tedesca non poteva ignorare la violenza nelle strade, l'MHP schierava le sue associazioni ombrello “caritatevoli” ad affermare la non esistenza di un'associazione registrata chiamata Lupi Grigi. Questo riduceva gli episodi a violenza privata o di strada senza moventi politici o connessione evidenti.
Ancora oggi l'ufficio per la Protezione della Costituzione nella Repubblica Federale ha posto sotto osservazione l'MHP, ma non svolge indagini su un'organizzazione paramilitare come i Lupi Grigi. Questo anche grazie a una complicità sempre più manifesta da parte dei conservatori tedeschi. L'ultimo passaggio politico in Germania del leader Alparslan Turkes, un anno prima della sua morte nel 1996, fu l'invito ai sostenitori dell'MHP, in un congresso tenutosi a Essen, a legarsi in modo organico alla CDU: “la partitocrazia tedesca deve essere infiltrata”.
Molti quadri dell'MHP seguirono l'indicazione del fondatore sebbene l'ingresso organico nella scena politica tedesca implicava l'abbandono delle pratiche violente che avevano strutturalmente caratterizzato il gruppo. Questo ha prodotto moltissime fratture all'interno del movimento. Non solo i conservatori tedeschi furono infiltrati dagli ultranazionalisti turchi. Abbastanza clamoroso fu il caso di un politico dei Verdi di Amburgo, Nebahat Güclü, apertamente sostenuto dall'ADÜTDF. Lo scandalo portò alle dimissioni del politico, che dovette giustificarsi in un modo persino inquietante “come rappresentante della comunità turca di Amburgo non potevo non incontrare la più rappresentativa organizzazione turca”.
Il capolavoro in termini di legittimazione politica del gruppo dei Lupi Grigi avvenne paradossalmente a ridosso della condanna unanime in Europa dell'islamismo radicale seguito agli attentati alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015. Il Cancelliere Federale Angela Merkel per rispondere alla montante islamofobia della formazione di estrema destra dei Pegida decise di manifestare con la comunità musulmana di Berlino, indicando un “modello possibile di integrazione”. La manifestazione fu organizzata proprio dagli ultranazionalisti di una delle associazioni dell'MHP: l'ATIB.
Il corto circuito è stato segnalato anche recentemente dalla stampa tedesca, quando si è scoperto che mentre organizzavano manifestazioni contro l'islamismo radicale e il contemporaneo montante sentimento di islamofobia, 20 membri almeno dell'ATIB partivano per la jihad in Siria tra le file dell'Isis (ovviamente passando per la compiacente Turchia di Erdogan).
I Lupi Grigi in Turchia oggi, dalla clandestinità all'elevazione a potere dello Stato autoritario di Erdogan.
Nell'analisi dei rapporti tra i Lupi Grigi, e quindi l'MHP, e lo Stato turco il primo elemento da tenere presente è che nella storia recente della Turchia l'MHP è stata una costante, una sensibilità politica sempre presente. Una formazione sopravvissuta anche alla clandestinità e alla repressione degli anni '80. Sarebbe difficile leggere la storia dell'MHP in patria e dei Lupi Grigi oggi, senza gli eventi che hanno segnato la politica turca e l'ascesa del partito islamista di Erdogan nell'ultimo decennio. In questa storia i Lupi Grigi hanno assolto a compiti specifici nell'apparato statale, sostituendo il sospettoso esercito turco (laico per costituzione) al servizio dell'islamismo moderato dell'AKP al governo.
Per esempio i Lupi Grigi hanno il controllo di una porzione ampia del sistema di istruzione del paese. Questo oggi viene messo completamente al servizio dell'ideologia turanista, dalla scuola primaria fino all'università. Ovviamente la costante dell'insegnamento è l'epopea presunta del popolo turco ed in particolare la grandezza dell'impero Ottomano. Solo recentissimamente è stato per esempio accennato, nei libri di testo adottati nel sistema educativo turanista, il genocidio degli armeni; prima totalmente negato come “retorica revisionista e occidentale”.
Un altro elemento interessante che può spiegare lo stretto legame tra l'odierno Stato turco e l MHP è l'uso fatto negli ultimi anni, da Erdogan stesso, di molti slogan e molte parole d'ordine dei Lupi Grigi. Nell'ultima campagna elettorale il partito del presidente ha infatti usato un motto di battaglia storico dei Lupi Grigi: “un unico mondo turco dall' Adriatico alla muraglia cinese” o ancora “restare uniti per diventare un unico popolo” o “i curdi discendono dagli armeni” (funzionale a giustificarne il massacro).
Un terzo elemento, ben più inquietante, ma molto presente è la predisposizione di un vero e proprio esercito paramilitare e d'élite, ricostruito dopo la messa fuori legge degli anni '80 grazie all'indebolimento praticato da Erdogan dell'esercito turco regolare. I membri di questo esercito, ma anche gli iscritti e i quadri dell'MHP, negli ultimi vent'anni sono stati sistematicamente dislocati nelle aree curde del paese con ruoli anche molto importanti nell'amministrazione pubblica. Non a caso diversi governatori delle province a maggioranza curda vengono proprio dalle fila dell'MHP e dei Lupi Grigi i quali nel loro stesso statuto costitutivo rivendicano la missione “di espellere dal suolo turco gli elementi di impurità: armeni, aleviti e curdi” appunto. L' “esercito d'élite” dell'MHP è soggetto ormai (dopo aver attaccato come vere e proprie squadracce fasciste il movimento di Gezi Park) allo staff generale delle forze armate turche. Questo “esercito speciale” riceve un addestramento particolare da parte dei membri dell'esercito turco funzionale a compiti di contro guerriglia.
Questo gruppo militare, infatti, è usato come prima linea in una guerra sporca contro le lotte di liberazione nazionale dei curdi e di altre organizzazioni rivoluzionarie. Nelle aree abitate dai curdi, le squadre di tale esercito d'élite appiccano il fuoco nei villaggi, opprimono la popolazione in ogni modo e uccidono gli abitanti. Ancora una volta come dopo la strage di Suruc l'ingresso nelle forze armate di questa formazione paramilitare, connessa ai Lupi Grigi, è stata giustificata dal governo con una non meglio precisata “lotta al terrorismo”.
La creazione di questo esercito e la sua assunzione nei ranghi delle forze armate è stata a lungo richiesta dal capo dell'MHP. Si potrebbe quindi supporre come la creazione e la legittimazione di tale gruppo sia stata inserita all'interno dell'agenda politica dell'MHP come moneta di scambio con il partito del presidente Erdogan, raramente attaccato “da destra” e anzi supportato nel suo progetto di riforma in senso autoritario dello Stato che consegnerebbe al Presidente gli stessi poteri che furono dei sultani ottomani.
L'MHP e i Lupi Grigi in Turchia offrono oggi l'opportunità, all'interno dei confini legali e guidati dallo Stato, di attaccare i curdi e il loro movimento democratico e qualunque minoranza etnica o gruppo politico rivoluzionario senza che questo sia direttamente connesso agli occhi degli alleati occidentali con il governo di Ankara. Possiamo affermare, quindi, che dagli anni '80 a oggi il Partito Movimento Nazionale e i Lupi Grigi sono riusciti non solo a rientrare a pieno titolo nella sfera politica e costituzionale turca, ma anche ad accreditarsi come vero e proprio organo dello Stato.
Nella guerra civile lanciata da Erdogan per punire il partito curdo e di sinistra dell'HDP di non aver permesso la maggioranza assoluta dei seggi necessari per cambiare la costituzione, l'MHP fa il lavoro sporco: assalta le sedi dei partiti, assalta le sedi dei giornali, distrugge i villaggi curdi, minaccia violenze contro chiunque si opponga al progetto autoritario dell'AKP.
Questo non solo per risparmiare ad Ankara un'evidente connessione con le violenze del paese ma anche perché sul piano squisitamente militare l'esercito regolare turco non è in grado di sconfiggere il movimento militare di liberazione curdo. L'esercito non nasce infatti predisposto per affrontare guerriglie e a una larga parte dei militari viene imposta questa guerra contro i curdi dai due partiti islamisti (in Turchia, è importante ricordarlo, l'esercito è l'erede della rivoluzione “laica” di Ataturk e come tale è il custode della laicità dello Stato). Alle ultime elezioni l'AKP di Erdogan e l'MHP sono riusciti a raggiungere insieme quasi il 60 % dei voti, questo ben dimostra come la sensibilità Kemalista e laica dell'esercito è oggi minoranza nel paese rispetto alle posizioni islamiste e razziste. L'esercito d'élite dei Lupi Grigi ha la motivazione perfetta, la carica ideologica e l'esperienza in termini di violenza e terrore adatti per attuare il piano di destabilizzazione interno di Erdogan.
Conclusioni
Nell'articolo sono stati volutamente omessi dei dettagli importanti nella vicenda storica dei Lupi Grigi; in particolare rispetto alla rete di relazioni che hanno sviluppato durante la Guerra Fredda e che ha permesso loro di accrescere potere e avere agibilità politica in Occidente e nei paesi della NATO (in particolare non si è fatto riferimento all'internità dell'MHP al progetto GLADIO o ai legami con i Fratelli Musulmani). Non ci si è soffermati sull'elenco lunghissimo di singoli episodi di violenza e massacri (per dare l'idea dell'efferatezza dell'organizzazione basta citare il pogrom di Maras nel 1978 in cui furono uccisi mille curdi tra anziani, donne e bambini in soli due giorni, in un'operazione di pulizia etnica coperta dall'esercito turco). Non ci si è dilungati sul ruolo, rilevante, svolto nelle tensioni con la Grecia per la vicenda cipriota.
Non lo si è fatto perché, rispetto al presente, l'MHP e i Lupi Grigi ci sembrano un fenomeno rilevante (e sottovalutato) soprattutto se letti in una prospettiva che va dai palazzi del governo di Ankara alle montagne del Kurdistan turco alle strade di Berlino, Amburgo, Manheim. L’intento è di evidenziare come possano giocare un doppio ruolo: da una parte, destabilizzazione nel cuore dell'Unione Europea, ma anche stabilizzazione politica in chiave autoritaria in Turchia.
Un'organizzazione, quindi, che per un verso ha accresciuto la sua forza in Europa facendo leva sulle macerie sociali nelle periferie di un'integrazione mai realmente avvenuta, nemmeno nella civilissima Germania. E per un altro, parte di un'organizzazione talmente tanto organica al progetto autoritario dello storico partner dell'Occidente, Tayiip Erdogan, da essere inglobata di fatto come potere dello Stato turco.
Si tratta quindi di un'arma nelle mani del delirio di onnipotenza dell'islamismo nazionalista dell'AKP, che può essere esportare nel cuore dell'Europa, “a comando” , la guerra civile turca e allo stesso tempo fare il lavoro sporco per soffocare la democrazia in patria.
Un ulteriore elemento che ci sembra interessante sottolineare è come la Turchia oggi sia un hub fondamentale di contenimento dei flussi migratori provenienti dalla Siria e diretti proprio in Germania. L'unico attore politico che è contemporaneamente nei due punti, di partenza e d'arrivo dei migranti, è proprio una forza razzista e fascista come l'MHP. Ciò fornisce a quest'organizzazione, ormai braccio militare e avanguardia dell'AKP, un potere contrattuale fortissimo. Un potere contrattuale che viene tatticamente e scientificamente fatto intravedere quando, non casualmente, nelle metropoli tedesche si verificano contemporaneamente attacchi di gruppi xenofobi autoctoni ai rifugiati e attacchi dei Lupi Grigi alla sinistra turca e ai curdi. Un potere che in questo momento è la giustificazione cinica e impronunciabile per cui l'UE assiste in silenzio al massacro dei curdi e al tentativo di distruzione delle idee di democrazia di Gezi Park.
Ritornando quindi all'inizio di questo lungo articolo e all'operazione mistificatoria di Repubblica, la domanda potrebbe essere se, per cinico calcolo e realpolitik, in questa ennesima falsa narrazione del Medioriente, in questo ennesimo trasformare le vittime in carnefici e viceversa, non ci sia un ulteriore, e forse irrimediabile colpo all'idea di Europa della democrazia, della libertà e dell'integrazione come ormai sempre più stancamente ci ostiniamo a definirla.
Dinamo Press
21 09 2015
Un reportage collettivo dalla frontiera di Ventimiglia. Dal 15 giugno sul lungomare alla frontiera tra la Francia e l'Italia, tra le città di Ventimiglia e Menton, si è stabilito il presidio #noborders, nato e mantenuto in una dimensione totalmente indipendente ed autorganizzata.
Il presidio, ad oggi, ha assunto proporzioni impressionanti: una cucina attrezzata per più di 200 pasti, bagni, docce e collegamenti elettrici, un ufficio e zona stampa. Assemblee quotidiane in arabo e in inglese sono la norma a Ventimiglia. Si discute della vita in comune nello spazio così come delle azioni dimostrative da mettere in pratica al confine, distante solo pochi metri ma orizzonte lontano per molti migranti. Cosi', bloccare il traffico al grido di "Open the borders" o decidere di attraversare la frontiera via mare, come hanno fatto sabato 12 settembre circa 35 persone, tra migranti ed attivisti, diventano parte della quotidianita'.
Il presidio di Ventimiglia è uno di quei luoghi in cui le contraddizioni non fanno più paura e la solidarietà e la vita in comune spazzano via ogni traccia di deriva umanitarista. Si vive insieme e si lotta insieme, e spesso si subisce insieme la violenza da stato d'eccezione che ha fatto della frontiera una zona di battaglia. Le scene a cui si può assistere in questi luoghi vanno al di là di ogni immaginazione e costituiscono un laboratorio di gestione violenta dei flussi, una ridefinizione continua dell'azione poliziesca in senso repressivo.
Nella minuscola stazione di Menton Garavan, la prima dopo la frontiera, non c'è mai nessuno, solo un massiccio presidio di gendarmi pronti a salire sui treni per far scendere i migranti ed arrestarli, con controlli veloci basati esclusivamente sul colore della pelle. L'agitazione è perenne come se da un momento all'altro dovesse accadere qualcosa. Sempre. Sono pronti, i poliziotti, a catturare ogni vita in fuga per sbatterla su una camionetta e rispedirla da dov'è venuta. Anche da parte italiana la repressione non si è fatta attendere: ad oggi 18 denunce, 8 fogli di via e due arresti nei confronti degli attivisti del presidio.
Non manca, ad aumentare lo stato d'incertezza, la confusione fra le diverse forze dell'ordine ai due lati della frontiera: sebbene i migranti dell'Africa subsahariana rischino il rimpatrio forzato nel caso in cui vengano scoperti in territorio francese, la maggior parte delle volte vengono invece trattenuti e ammassati in container per ore, prima di essere rimandati in Italia. Al presidio è possibile incontrare persone che già più di una volta hanno tentato il passaggio e subito la cattura e il respingimento in Italia.
La maggior parte dei migranti che si trovano al presidio noborder vengono da Sudan ed Eritrea (vedi mappa). Fuggono dai conflitti nel Darfur (regione occidentale del Sudan) e nel Sud Sudan, nonché dal regime eritreo, dai rischi della mai conclusa guerra in Somalia e dalle minacce della desertificazione.
Non c'è davvero da stupirsi se queste spinte economiche, politiche e ambientali abbiano portato i flussi a fare pressione su Ventimiglia, e se solo di recente iniziamo a parlarne e a notare la loro potenza è perché dal 2011 ha smesso di funzionare il sistema di controlli, detenzioni e respingimenti che Italia e UE avevano finanziato ed esternalizzato in territorio libico.
Già all'interno della regione si trovano centinaia di migliaia di profughi e migranti, ma non accenna a diminuire il numero di quelli che trovano la forza di spostarsi verso altri paesi, attraversando il deserto e il mare, in direzione dell'Italia, della Francia, e magari oltre. Ventimiglia è, allo stesso tempo, un punto fermo e un luogo di passaggio per la maggior parte di chi ci vive. La frontiera tra l'Italia e la Francia è soltanto uno dei luoghi da attraversare, il primo confine dentro la fortezza Europa. La giungla di Calais è per tanti la meta successiva.
Eppure tra i tanti incontri e le tante soste in questi viaggi interminabili, ci sembra che a Ventimiglia qualcosa si rompa nel terribile ingranaggio delle migrazioni. La resistenza, la speranza, la semplice quotidianità paiono spezzare la solitudine del viaggio e l'individualità della ricerca di un futuro. Certo, i percorsi saranno ancora lunghi e diversi. Certo, non tutt* attraverseranno l'odiosa frontiera insieme, e ancora, le diversità sono tante e palpabili. Ma allo stesso tempo, paradossalmente, il solo trovarsi di fronte a quel confine significa essere vite e corpi resistenti: non ci chiamerete rifugiat*, né migrant* economici, né in nessun altro modo! Già cadono frontiere a Ventimiglia, e sono quelle di categorie artificiali o strumentali malamente calate sui migranti: abbatterle significa incunearsi nell'incapacità e nelle divisioni di un'unione europea balbettante, trincerata dentro una fortezza che ai confini sfoggia la sua assurda violenza. Significa mettere le vite dei migranti avanti a tutto, anche agli interessi di quei paesi, Germania in testa, che dietro il paravento umanitario organizzano la selezione all'ingresso della forza lavoro.
Dentro il campo abbiamo incontrato un meccanismo orizzontale, che inventa continuamente le sue forme di organizzazione e supera le barriere create da lingue e storie differenti. Ma la vita del campo non resta dentro al campo, esce e grida per essere riconosciuta.
Azioni collettive di blocco alla frontiera sono la quotidianità, insieme ad azioni di visibilità come quelle già accennate. Ciò che impressiona è come questa sia una prospettiva cercata e messa in primo piano dagli stessi migranti. Sabato, sono stati per primi i migranti a voler varcare a nuoto, simbolicamente, il confine.
Simbolicamente, certo, ma a pensarci bene, la ricerca dell'azione, della visibilità (anche mediatica), della rappresentazione, sono figlie della vita di fronte a una barriera che in confronto al No Borders Camp altro non è che un feticcio, e come tali aprono un campo di ipotesi politiche altamente riproducibili. Quanto successo ieri tra Serbia e Ungheria si pone sulla stessa linea: più di un migliaio di migranti ha abbattuto alcuni tratti della rete costruita dal governo Orban. L'attraversamento delle frontiere diventa così un'opzione reale, un fenomeno che nei prossimi mesi sarà probabilmente inarginabile.
La dimensione del confine, luogo di passaggio ma anche luogo di soggiorno e di intersezione, pone la questione di "fare rete" dentro le migrazioni. Che si tratti di poter comunicare con altri migranti a Parigi o Calais o in altri angoli d'Europa, che si tratti di una dare supporto legale e logistico diffusamente su tutto il continente, o che si tratti di rivendicare collettivamente e in luoghi diversi il diritto a spostarsi, crediamo che emerga come priorità assoluta quella di identificare parole d'ordine e pratiche comuni che raccontino i percorsi di libertà dentro le linee migratorie, contro i muri della fortezza Europa. La disobbedienza alla frontiera sta divenendo il tratto comune, il collante concreto, di questi movimenti. È attraverso queste pratiche che si definisce la possibilità di fare rete, non tanto attorno a dei nodi geografici, quanto attorno a dei flussi che determinano un campo di resistenza in ogni luogo in cui si condensano.
Oggi i confini dell'Ungheria sono in fiamme, alle porte dell'Europa si alzano barriere di filo spinato. Il confine torna luogo militare, barriera fisica, disperato tentativo di trincerarsi in una identità aggrappata a radici inesistenti. Ma mille altre frontiere si alzano ogni giorno: quelle culturali di chi vorrebbe nazioni frammentate nell'identitarismo, quelle di chi racconta le migrazioni come fenomeni da selezionare, piuttosto che coglierne la dimensione epocale e collettiva, quelle tra virtuosi e fannulloni, tra un Nord Europa austero e laborioso e un Sud insolvente e parassita. Umiliare la Grecia mentre si selezionano i migranti da ammettere sono facce della stessa medaglia: il ricatto del debito e quello del passaporto sono figli dello stesso "there is no alternative".
“Ventimiglia ovunque” non è per noi soltanto uno slogan ma una possibilità reale, un’opzione da praticare, per abbattere e cancellare tutte le frontiere, un nome comune a differenti desideri di libertà.
di Exploit
Internazionale
14 09 2015
Sono scoppiati violenti scontri tra palestinesi e polizia israeliana sulla Spianata delle moschee, nella città vecchia di Gerusalemme. La tensione è stata scatenata dal divieto, imposto da Israele l’8 settembre, alla vigilia del capodanno ebraico che comincia stasera, di entrare nell’area ai membri del gruppo musulmano dei Murabitun (sentinelle), affiliato ai Fratelli musulmani.
Secondo quanto riferito dalla polizia israeliana, nella notte un gruppo di palestinesi ha eretto barricate davanti alla moschea Al Aqsa. “I manifestanti, dotati di maschere, hanno lanciato pietre e molotov contro la polizia”, hanno detto gli agenti.
Per disperdere i manifestanti palestinesi le forza di polizia israeliane hanno usato gas lacrimogeni e granate stordenti e hanno fatto irruzione all’interno della moschea, la più grande di Gerusalemme.
Il presidente palestinese Abu Mazen ha definito l’episodio “un attacco” e ha ribadito che per l’Autorità Nazionale Palestinese la moschea di Al Aqsa e i luoghi sacri dell’islam sono “una linea rossa” da non superare.
Sono 110 i palestinesi feriti o intossicati negli incidenti, secondo l’agenzia palestinese Maan. Secondo il presidente della Mezzaluna rossa la maggior parte degli infortuni è dovuta ai lacrimogeni, mentre venti feriti sono stati trasferiti all’ospedale per patologie più gravi.
La Spianata delle moschee, che gli ebrei chiamano Monte del tempio, è stata chiusa ai visitatori per circa tre ore, ma poi è stata riaperta al pubblico.