Dinamo Press
14 09 2015
In questi giorni la situazione in Turchia sta degenerando. Erdogan ha lanciato un’offensiva a tutto campo contro le opposizioni interne e soprattutto contro l’unica forza politica in grado di mettere i bastoni tra le ruote al suo progetto autoritario: l’HDP e il popolo curdo. Ma come ne parla la stampa italiana?
Questo un veloce bollettino della guerra scatenata dal dittatore turco: 315 sedi dell'HDP date alle fiamme o distrutte negli ultimi giorni; molti deputati HDP arrestati (che si vanno ad aggiungere agli oltre 2.000 oppositori imprigionati nei mesi scorsi); 15 persone linciate l'altra notte; decine di curdi feriti dalla polizia o dagli ultra-nazionalisti; Cizre allo stremo: senza rifornimenti d’acqua e di cibo, senza elettricità da oltre una settimana, a causa del blocco imposto dall’esercito turco, che ieri non ha lasciato passare nemmeno un corteo di migliaia di persone che voleva rompere l’assedio e portare soccorso.
Ovviamente, in una situazione di guerra si spara da una parte e dall’altra. Così il PKK (il Partito dei Lavoratori Curdi), dopo la rottura della tregua unilaterale dalla parte turca, ha contraccato all’offensiva di Erdogan: azioni mirate e chirurgiche in cui sono morte alcune decine di poliziotti e militari. Questo mentre l’aviazione turca bombarda a tappeto da oltre due mesi i villaggi curdi in Syria e Iraq, causando centinaia di morti (militari, ma soprattutto civili).
Uno scenario drammatico, insomma. Una situazione sull’orlo della guerra civile, che potrebbe presto evolvere in episodi di pulizia etnica. Perché mentre da un lato l’HDP invita a non rispondere alle provocazioni limitandosi all’autodifesa, Erdogan sta fomentando i movimenti ultra-nazionalisti. Gli attacchi di questi giorni, infatti, sono coordinati dai militanti del suo partito, l’AKP.
Nonostante ciò, sulla stampa internazionale non si muove una foglia. Ogni tanto viene riportata qualche notizia, principalmente sugli attacchi del PKK. Ma dell’offensiva di Erdogan non si parla. Eppure la Turchia affaccia sul Mediterraneo, si trova a poche decine di km a est della penisola italiana. Eppure anche un minimo sentimento di solidarietà verso quello che sta succedendo ai colleghi giornalisti che si trovano in quel Paese dovrebbe spingere qualcuno a prendere parola. Nei mesi scorsi, diversi giornalisti turchi sono stati arrestati per aver pubblicato delle prove sugli scambi economici e militari tra Erdogan e l’ISIS. Pochi giorni fa, invece, la stessa sorte è toccata a due giornalisti inglesi di Vice e una giornalista olandese dei quotidiani Het Parool e De Groene Amsterdammer, arrestati a Diyarbakir: tutti accusati di “diffusione di propaganda per un’organizzazione terroristica”. Stavano filmando rispettivamente un corteo e una festa dell’HDP. Due giorni fa, infine, a Istanbul è stata attaccata e distrutta la sede del giornale Hurryiet, che aveva riportato questa dichiarazione di Erdogan: “se avessimo ottenuto la maggioranza in parlamento, niente di tutto ciò sarebbe successo. Datemi 400 seggi e vi darò la pace”.
Oggi finalmente anche Repubblica.it ha deciso di parlare di Turchia. Non certo a favore della libertà di stampa o dei diritti umani, però. Anzi. Repubblica.it ha scelto di pubblicare una gallery sotto il titolo surreale “Turchia: in migliaia scendono in piazza contro azioni ribelli curdi”. Repubblica - quello stesso quotidiano pronto a bollare ogni sasso che vola in un corteo come inaccettabile violenza, pronto a definire terrorismo il sabotaggio di un compressore - ha oggi chiamato “manifestanti” dei gruppi ultranazionalisti che stanno dando alle fiamme centinaia di sedi del principale partito di opposizione, che uccidono e aggrediscono i curdi in tutto il Paese, che nel corteo fotografato cantavano “contro i curdi non vogliamo un intervento militare, vogliamo il genocidio”. Sì, perché quei “manifestanti” non sono persone comuni. Si capisce da un saluto un po’ particolare: uniscono l’indice al pollice e alzano le corna. È il saluto dei Lupi Grigi, un’organizzazione paramilitare e fascista, che si rifà al panturchismo (l’ideale dell’unione di tutte le popolazioni turche) e odia e perseguita tutte le minoranze che si trovano sul territorio turco. I Lupi Grigi si sono resi responsabili di decine di attentati e omicidi contro i militanti comunisti e anarchici, già negli dagli anni ’80, in Turchia e all’estero. Pare che anche Alì Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II, fosse un lupo grigio. Più recentemente si sono distinti per gli attacchi con le sciabole contro il movimento di Gezi Park e si sono fatti notare anche in Germania per diversi assalti contro i cortei dei curdi che manifestavano solidarietà a Kobane.
Adesso, la domanda è retorica, ma vogliamo farla: le gallery di Repubblica le fa un giornalista incapace di fare una ricerca su google oppure c’è una precisa scelta editoriale che combina silenzio e menzogne e deve difendere ad ogni costo Erdogan, l’alleato di Renzi che lunedì prossimo sarà in visita all’Expo?
Ma soprattutto: possibile che nessun giornalista alzi una voce contro tutto questo schifo?
Blog Sciopero Sociale
14 09 2015
Rimettere in cammino la sfida dello Sciopero sociale: questa la discussione che si è svolta lo scorso 5 luglio presso l’iFest; questo lo sviluppo messo in campo ad Acrobax, lo scorso giovedì 10 settembre. Un’assemblea partecipata e ricca, dedicata quasi per intero alla definizione dell’agenda politica, locale ed europea. Un momento di convergenza importante per prendere le misure e rilanciare la sperimentazione pratica sul terreno programmatico già delineato lo scorso anno: salario, reddito e welfare, fisco, governo della mobilità. A maggior ragione dopo il completamento del Jobs Act, con l’approvazione degli ultimi decreti attuativi, l’introduzione del piano Scuola, l’emergenza migranti. E mentre il governo Renzi, con la prossima legge di stabilità, si appresta a imporre nuovi e pesantissimi tagli al welfare, in particolare alla Sanità.
Restituiamo in modo sintetico le proposte condivise durante la discussione:
* 17 ottobre: giornata mondiale contro la povertà, mobilitazione europea contro l’austerità, giornata nazionale di mobilitazione per il reddito e il welfare universali. Come affermato già il 5 luglio, e dopo le verifiche fatte nei mesi estivi, il 17 ottobre ci pare una grande occasione per estendere e rafforzare la battaglia per il reddito garantito. Pretesa da sempre propria dei movimenti radicali, oggi posta all’attenzione della scena pubblica anche dal cattolicesimo di base e da Libera, dalla FIOM e dalla Coalizione sociale, dalle proposte di legge di diverse forze politiche. Pretesa, non ci stanchiamo di ripetere, decisiva per rompere il ricatto della disoccupazione giovanile di massa, della precarietà, della sotto-occupazione. Pretesa, chiaramente, che non possiamo disgiungere da quella del salario minimo europeo e del permesso minimo di soggiorno, soprattutto in questo momento epocale in cui il fenomeno migratorio pone l’urgenza di ridefinire anche il sistema di accoglienza. Senza dubbi, riteniamo oggi più che mai necessaria una mobilitazione che vada oltre i perimetri di ciascuno, con uno sguardo alle mareas spagnole in difesa delwelfare. Ancor di più perché proprio ora Renzi, dopo aver tacciato la proposta del reddito garantito di incostituzionalità e assistenzialismo, sta progettando misure caritatevoli per la famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta (Reddito di Inclusione Sociale). Fondamentale la giornata del 17 ottobre, che dovrà essere, a nostro avviso, corteo nazionale a Roma. Altrettanto fondamentale costruire una campagna comunicativa e di conflitto degli strikers, verso e oltre il 17 ottobre, che sappia attraversare con forza il piano territoriale, dimensione cruciale per l’organizzazione delle coalizioni sociali.
* Prima del 17 ottobre, tra il 2 e il 4 di ottobre, saremo in tante e tanti a Poznan, per il Transnational Social Strike Meeting. Un salto di scala necessario, per nulla scontato, che da Poznan prende le mosse. Si tratterà in prima battuta di approfondire gli aspetti programmatici, mappare e condividere pratiche e dispositivi organizzativi. Ma sarà anche fondamentale ipotizzare prime forme di comunicazione degli scioperi locali che segneranno l’autunno europeo e sperimentazioni di nuove forme di sciopero sul piano transnazionale.
* Dopo Poznan e dopo il 17 ottobre, lo Strike Meeting tornerà locale, con una due giorni di confronto serrato sugli strumenti comuni. La vera sfida avviata lo scorso anno con i Laboratori per lo Sciopero sociale va ripresa e approfondita. Alla forza degli eventi di lotta occorre accompagnare dispositivi organizzativi e discorsivi che sappiano, in modo situato e continuativo, connettere le figure del lavoro autonomo e migrante, dipendente e precario, gli studenti e i disoccupati. Lo Strike Meeting si svolgerà il 24 e 25 ottobre in una città ancora da individuare e di cui daremo presto comunicazione.
* Il 17 ottobre è una tappa, importante se inserita all’interno di un processo che riproponga e rinnovi l’esperimento dello Sciopero sociale. Tutte e tutti sono consapevoli, però, che questo secondo esperimento deve superare i perimetri soggettivi del 14 novembre dello scorso anno. Lo scontro sulla Scuola, già da solo, impone un’estensione delle relazioni sociali e sindacali. Così il campo della Coalizione sociale, il rinnovo contrattuale dei meccanici e della funzione pubblica. Auspichiamo dunque ‒ e lavoreremo in questo senso ‒ un’ampia convergenza su uno Sciopero sociale e generale che blocchi veramente il paese, con pratiche innovative e includenti. Uno Sciopero che sappia rimettere al centro il protagonismo dei e delle precarie, operai, migranti, capace nell’immediato di combattere la legge di stabilità che proprio nella seconda metà di novembre verrà approvata, imponendo una spending review recessiva a sostegno della riforma fiscale, regressiva, di Renzi.
A partire da questa prima traccia di agenda, con il desiderio che venga sconvolta da lotte inedite e impreviste, lo Sciopero sociale si rimette in cammino. È tempo di osare, è tempo di rovesciare rassegnazione e guerra tra poveri in conflitto costituente, per rompere la gabbia neoliberale.
Coalizione dello Sciopero sociale
Comune.info
09 09 2015
Una delle modalità di riprodurre la diseguaglianza sociale nelle città è quella di cancellarne una parte. Non a caso, ovviamente, ma colpendo i poveri e le loro case, anche attraverso la cartografia. Le villas miserias di Buenos Aires sono escluse dalle mappe ufficiali della città. Una invisibilità cartografica che rinforza la strutturale segregazione dei quartieri più poveri e, se rilevata, evidenzia la narrativa del potere. La tendenza è generale, ma Villa 31 – la più antica baraccopoli della capitale creata dallo Stato in una zona centrale molto prima che l’urbanizzazione informale fosse “confinata” nelle periferie – ne è il miglior esempio
Di fronte alla stazione “Retiro”, attraversando la strada, c’è un hotel Sheraton. La baraccopoli non si vede dall’entrata, ma i turisti delle camere più in alto possono sicuramente apprezzare l’intera estensione della “Villa 31”. La più antica baraccopoli di Buenos Aires fu creata dallo Stato in una zona centrale della città, molto prima che l’urbanizzazione informale fosse “confinata” nelle periferie.
Nascosto da tre grandi stazioni ferroviarie e un terminal di autobus, questo quartiere di 20.000 residenti si è sviluppato lungo i binari del treno, tra il porto e i quartieri più ricchi della città. Nel 1996 la costruzione dell’autostrada “Ilia” sopra la baraccopoli ne ha originato una nuova parte, la “Villa 31 bis”, nella quale le case più alte si affacciano direttamente sulla carreggiata. L’area culmine della gentrificazione della capitale, “Puerto Madero”, non è lontana. Annunci di una prossima apertura di due stazioni della metropolitana, assieme al ciclico tentativo di inserire la baraccopoli nel mercato abitativo tramite la fornitura di certificati di proprietà ai suoi abitanti, fa di Villa 31 la soglia della frontiera della gentrificazione.
Una delle modalità di riprodurre la diseguaglianza sociale nelle città è quella di cancellarne una parte. Non a caso, ovviamente, ma colpendo i poveri e le loro case, anche attraverso la cartografia. Le baraccopoli di Buenos Aires, le tristemente note “villas miserias”, sono infatti escluse dalle mappe ufficiali della città, determinando una “invisibilità cartografica” che rinforza la strutturale segregazione dei quartieri più poveri’. La tendenza è generale, ma Villa 31 ne è il miglior esempio.
Che cos’è l’informalità?
Le baraccopoli di Buenos Aires sono, ovviamente, “informali”. Ma cos’è l’informalità? Gli studiosi “Global South” Ananya Roy e AlSayyad (2004) considerano l’informalità come qualcosa in più che un settore economico non regolato, descrivendola come una forma di produzione dello spazio che rientra negli obiettivi dello Stato ed è sotto il suo controllo. Oltre la sua apparentemente natura non regolata infatti, l’informalità è una condizione sanzionata in ultima istanza dallo Stato, attraverso la concessione dello status di formalità o informalità. Non a caso le istituzioni sono gli unici attori in grado di operare in maniera informale senza incorrere in conseguenze legali. Esercitando quel potere “extra-legale” che Agamben (1998) ha associato con la sovranità e lo “stato di eccezione”, lo Stato sospenderebbe le norme consuete e userebbe l’informalità per mantenere una iniqua distribuzione del valore dello spazio, promuovendo lo sfruttamento capitalista dell’“ambiente costruito”, suddiviso in aree valorizzate e svalutate: “Lo Stato ha il potere di determinare il momento in cui attuare la sospensione, che cosa è informale e cosa no, e determinare quali forme di informalità prospereranno e quali spariranno.” (Roy 2005, page 149).
Questa forma di accumulazione del capitale, favorita dalla nuova impronta neoliberale sulla produzione dello spazio, può assumere forme differenti, dai processi di gentrificazione e rigenerazione a sgomberi e demolizione di baraccopoli, seguendo la logica della “distruzione creativa”. Mentre nel “Global North” l’urbanizzazione informale rimane l’eccezione, nelle città del “Global South” viene considerata da Roy (2009 page 826) “spesso il modo primario di produzione dello spazio metropolitano nel XXI secolo.”
La teoria dell’informalità nasce nel contesto latino-americano, anche se si è dimostrata rilevante nell’analisi dell’urbanizzazione africana, asiatica e medio-orientale. Nella sua “madrepatria” l’informalità è stata spesso collegata alla teoria della dipendenza, presentando la diffusa urbanizzazione informale delle città latino-americane come un altro effetto del sottosviluppo causato dalla posizione periferica occupata dal continente nell’economia mondiale.
Tuttavia l’attenzione è stata dedicata principalmente allo studio della segregazione urbana (come in Caldeira, “City of walls”, 2000) e alla marginalità, bollata da Janice Perlman (1979) come un “mito” che rappresenta i poveri come soggetti indifesi per poterli meglio sfruttare in qualità di forza lavoro “usa e getta”. All’interno dell’analisi sulla segregazione urbana nelle città latino-americane uno degli aspetti che maggiormente risaltano è “la prossimità tra ricchi e poveri, ma in spazi rigidamente chiusi, che creano una relazione asimmetrica tra le due parti” (Schapira 2001). La Villa 31 e 31 bis aggiornano il concetto classico di muro, sostituito da autostrade e grattacieli, un “assedio dorato” alle vite informali di migliaia di persone.
Un aspetto scarsamente ricercato dell’informalità è la sua rappresentazione cartografica. Anche se molti accademici hanno analizzato l’uso delle mappe come uno “strumento di potere” atto a esercitare il controllo sociale sulle persone, per supportare il colonialismo e le guerre, poca attenzione è stata dedicata al suo collegamento con la riproduzione dell’informalità. Sembra quindi necessario iniziare ad affrontare la questione dell’impatto della cartografia ufficiale sull’informalità, il suo utilizzo da parte dello Stato e la possibilità di un suo “sequestro politico” per obiettivi militanti.
Come molti progetti politici hanno mostrato, infatti, in particolare quelli che si occupano di proteggere comunità indigene, rimane aperto un grande spazio di manovra per un utilizzo delle mappe che contrasti la classica cartografia “alto-basso” e la sua rappresentazione conservatrice dello spazio. In Argentina il più famoso esempio è forse l’attività del collettivo “Iconoclasistas” e le sue “mappe del conflitto”, nelle quali la narrativa del potere è sostituita da quella dei movimenti popolari e degli attivisti, reclamando centralità per le lotte sociali ed ambientali.
Con questi pensieri nella mente e gli occhi fissi sulle tante (troppe) macchie grigie nella mappa di Buenos Aires, alcune questioni ci sorgono spontanee:
Può la cartografia essere una maniera particolare di riprodurre l’informalità attraverso l’invisibilizzazione? Viene usata esclusivamente dallo Stato? Che genere di narrativa simbolica sulle baraccopoli supporta? Ha delle conseguenze pratiche per i suoi residenti? Può essere “rovesciata” al fine di rappresentare le rivendicazioni e le lotte dei suoi abitanti?
Qualcuno laggiù sta cercando di mappare l’informalità
La conformazione particolarmente “murata dentro” di Villa 31 ben si addice ad una definizione di segregazione urbana di Peter Marcuse (1995): “i muri definiscono spazi (…), definiscono la loro natura e la posizione dei suoi residenti nella gerarchia tra di loro, la gerarchia delle città dentro la città”. C’è un collettivo, però, che sta provando a contribuire alla demolizione di quei muri. Si chiama “Talleres de Urbanismo BArrial” (laboratori di urbanismo di quartiere), e sta svolgendo un’attività di “mappatura popolare” di Villa 31 e 31 bis da cinque anni, con l’obiettivo di realizzare una mappa della baraccopoli prodotta dai suoi abitanti. L’idea originale era quella di fare una finta mappa turistica della città in cui includere le villas, e distribuirla, ma presto il progetto si è evoluto in un impegno nel quartiere a lungo termine, basato su metodi partecipativi.
Dopo una fase iniziale di mappatura attraverso differenti tecniche cartografiche, il gruppo, integrato da adolescenti della baraccopoli, sta attualmente attraversando l’ultimo passaggio del processo di mappatura, quello della “socializzazione” della mappa realizzata. Questo step è chiamato “Mapa abierto” (mappa aperta) e consiste nell’incontrare il più alto numero possibile di organizzazioni del “barrio” per mostrare loro la mappa e discutere correzioni e differenti interpretazioni, con l’obiettivo di aumentare la natura collettiva della produzione cartografica. Il risultato finale del progetto sarà una mappa collettiva da distribuire ai residenti della baraccopoli, con la possibilità di coinvolgere i rappresentanti di altre villas ed espandere il progetto nella città. Pur volendo primariamente affrontare il problema della invisibilizzazione cartografica della baraccopoli, con l’obiettivo di “generare alterazioni nella rappresentazione dello spazio urbano, il suo uso e chi è qualificato ad attraversarlo” (Vitale 2013, page 19), Turba fa la sua parte nella vita politica del barrio. Il processo di mappatura è infatti considerato dal gruppo come la costruzione di uno “strumento” che può essere usato per sostenere diverse campagne degli abitanti di Villa 31, come la lotta per l’urbanizzazione promessa, e mai realizzata, dallo Stato. Il motto è “Urbanizzazione con radicamento”, in contrasto con i numerosi tentativi di sgombero di massa intrapresi in passato.
L’adesione a questo orizzonte politico risponde alla nostra domanda rispetto alla possibilità di “invertire” l’uso della cartografia: si, nonostante l’assenza di Villa 31 dalle mappe ufficiali, o magari grazie a questo, un processo collettivo di mappatura può aiutare a costruire una differente visione della città, in cui le rivendicazioni degli abitanti delle villas occupino una posizione centrale. Cosa ne è però delle altre domande? Questa ulteriore invisibilizzazione delle baraccopoli favorisce la riproduzione dell’informalità? Ha degli effetti pratici o simbolici? L’insieme dell’esperienza di Turba nella Villa 31 dà una risposta positiva alle nostre domande.
Oltre alle motivazioni sociali, politiche ed economiche che hanno storicamente determinato lo sviluppo dell’informalità abitativa, “l’invisibilità cartografica” è infatti riconosciuta come un ulteriore e specifico livello di oppressione e di “trattamento differenziato” tra i diversi quartieri della città, corrispondenti a differenti classi sociali. Le baraccopoli soffrono di una scarsa fornitura di servizi, ritardi nella realizzazione dei programmi di urbanizzazione e un generale disinvestimento economico da parte dello Stato, sostituito da versamenti verso attori del terzo settore. In questo quadro di generale abbandono, la mancanza di un riconoscimento cartografico della struttura interna delle villas produce ulteriori difficoltà, come il concretissimo problema di non avere un indirizzo, fondamentale per ottenere un lavoro. Inoltre, nella percezione dei suoi residenti, l’invisibilizzazione delle baraccopoli ha una conseguenza simbolica, cancellando dalla mappa le case dei lavoratori, pur continuando pero a sfruttarli per svolgere i lavori più umili, necessari alla economia della città. Una negazione dell’esistenza delle comunità umane e politiche dei villeros, che va di pari passo con la loro stigmatizzazione sociale in quanto “undeserving citizens”, cittadini non meritevoli della loro stessa casa.
La cartografia come arma per il diritto alla città
Ci sono grandi consonanze tra la situazione di Villa 31 e la teoria del controllo statale dell’informalità. Lo Stato è in grado di determinare lo status di informalità di un insediamento abitativo da un punto di vista legale, legiferando in maniera da istituzionalizzarlo o mantenerlo così com’è, rallentando i programmi di urbanizzazione. Detiene inoltre la capacità esclusiva di applicare a suo piacimento l’informalità: mentre Villa 31 si trova sotto continua minaccia di sgombero a causa della sua natura informale, lo Stato opera spesso all’interno delle baraccopoli utilizzando strutture comunitarie costruite dagli abitanti e mai “formalizzate”. Alcune volte, tuttavia, si mostra benevolo, promettendo ai residenti una istituzionalizzazione attraverso il conferimento di certificati di proprietà delle loro case, ad esempio. Anche in questo caso lo Stato si rivelerebbe tutt’altro che disinteressato, poiché’ dare la possibilità agli abitanti di vendere le proprie case nel mercato immobiliare causerebbe una rapida gentrificazione del quartiere, magari aiutata dalla sua “inesistenza” cartografica. In questi tempi di neoliberismo il monopolio statale sull’informalità può spaziare dal controllo della vita quotidiana delle persone, fornendo o meno l’allacciamento all’acqua, infrastrutture o domicilio, al potere di sfollare intere comunità, direttamente o attraverso l’azione del mercato.
Se le mappe possono aiutare a mantenere il controllo dello Stato sulla riproduzione dell’informalità, esse possono però anche essere utilizzate contro questo monopolio, come dimostra l’esperienza di Turba. Qui la mappa diventa infatti uno strumento per sostenere la campagna di “urbanizzazione con radicamento”, iniziando con l’avere un indirizzo, il “diritto di domicilio”.
In questo senso le rivendicazioni dei villeros possono forse essere intese come una lotta per il “diritto alla città”, dove il “diritto a rimanere” (David Harvey, 2012) si incontra con l’istanza di un trattamento egualitario dei cittadini, sia esso l’urbanizzazione delle loro case, o la loro rappresentazione su di una mappa. In una virtuale “agenda cittadina” dei movimenti sociali la cartografia meriterebbe quindi un posto importante, data la sua natura di, contemporaneamente, mezzo per riprodurre la diseguaglianza e per combatterla. In particolare il suo utilizzo sarebbe sicuramente utile per coloro che operano in insediamenti informali, per analizzare l’ambiente in cui si svolge la loro militanza. Ma non si tratta solo di vantaggi pratici. Oltre al fatto di fornire un mappa della baraccopoli con cui poter pianificare attività o esigere specifici interventi di urbanizzazione, altre potenzialità risiedono sotto la superficie della mera rappresentazione cartografica. Espandendo il concetto di cartografia oltre il suo significato letterale, infatti, essa potrebbe essere usato per “mappare” i confini tra la città formale e quella informale, i collegamenti sociali, economici e culturali tra le baraccopoli e i quartieri. L’interdipendenza economica tra le villas e il resto della città potrebbe essere verificata mostrando i percorsi quotidiani di consumo e lavoro dei sui abitanti, mentre lo studio della loro composizione sociale potrebbe sicuramente aiutare nel gettare una luce sulla relazione tra la classe, i flussi migratori e la riproduzione dell’informalità.
Il carattere partecipativo della mappatura popolare sarebbe quindi portato oltre la carta, aggiungendo ad una rappresentazione condivisa della baraccopoli una ricostruzione della sua identità culturale capace di contrastare lo stigma sociale dominante che vede i villeros come cittadini “non meritevoli” (ed invisibili).
di Dario Clemente*
Bibliografia
Agamben, G. (1998). Homo sacer: Sovereign power and bare life. Palo Alto, CA: Stanford University Press (original in Italian, 1995)
AlSayyad, Roy, 2004, Urban informality: Crossing borders, Urban informality: transnational perspectives from the Middle East, Latin America, and South Asia, Lexington Books, Lanham.
Caldeira do Rio, T. P., 2000, City of walls: crime, segregation, and citizenship in São Paulo. University of California Press.
Harvey, D. (2012). Rebel cities: from the right to the city to the urban revolution. Verso Books.
Marcuse, P. (1995). Not chaos, but walls: postmodernism and the partitioned city. Postmodern cities and spaces, 49, 245-246.
Perlman, J. E., 1979, The myth of marginality: Urban poverty and politics in Rio de Janeiro. Univ of California Press.
Roy, A., 2005, Urban informality: toward an epistemology of planning. Journal of the American Planning Association, 71(2), 147-158
Roy, A. (2009). The 21st-century metropolis: new geographies of theory.Regional Studies, 43(6), 819-830.
Schapira, Marie France (2001): “Fragmentación espacial y social: conceptos y realidades”, en Perfiles Latinoamericanos , año 10, nº 19, México
Vitale Pablo, 2013, Mapas villeros. Acción colectiva y políticas estatales en asentamientos populares de Buenos Aires, Congress of the Latin American Studies Association, May 29 – June 1, 2013,Washington, DC .
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* Dario Clemente, cura un blog interessante dove ha pubblicato anche questo articolo con il titolo “Siamo persone come quelli lì di fronte”. Il blog, invece, lo ha chiamato Tanamericana, perche’ gli Italiani in Argentina saranno per sempre “tanos” (napoletani, come tutti gli spagnoli sono gallegos). Tanamericana poi, spiega Dario, come la strada, panamericana, “che parte dietro casa mia e unisce tutto il continente, scenario privilegiato di quel blog, assieme a tutto il resto del mondo”.
Dario conosce bene Comune-info e gli fa piacere che il suo articolo ci sia piaciuto. Si è laureato in Relazioni Internazionali alla Statale di Milano, master graduate in “Activism and social change” alla University of Leeds (Uk), iscritto al master in Relazioni Internazionali della Facolta’ Latinoamericana di Scienze Sociali (FLACSO-Argentina) di Buenos Aires, vive in Argentina, dove lavora ad un progetto di ricerca dottorale sul ruolo del Brasile all’interno dell’integrazione regionale sudamericana.
Abbatto i muri
09 09 2015
Stereotipi duri a morire. Lo dico da figlia di una coppia separata.
1] i figli devono restare con le madri perché sono le uniche a poter salvaguardare il loro benessere.
Non sempre è così. Io, per esempio, non volevo proprio stare con mia madre che urlava dalla mattina alla sera e sfogava le sue frustrazioni su di me.
2] le nuove compagne dei padri sono delle matrigne brutte e cattive.
Stronzata stratosferica. La nuova compagna di mio padre è una persona meravigliosa. Non dico che tutte debbano esserlo ma è sessista pensare che tutte siano pessime persone. La mia “matrigna” è un’amica, una supporter, una straordinaria ed empatica mediatrice nei conflitti con mio padre. Mi vuole bene e io ne voglio a lei. Mia madre ne è stata gelosa, ha parlato malissimo di lei e poi ha reclamato il suo diritto di sangue nei miei confronti. Il sangue non la fa madre più di quanto non faccia me sua figlia. Sono io che scelgo e io ho scelto di non stare con lei.
3] le madri separate sono sempre povere e sono trattate male dagli ex mariti.
Anche questa è una generalizzazione sessista. Mia madre non naviga nell’oro ma lavora. Mio padre l’ha lasciata vivere nella sua casa, fintanto che c’ero io, dopodiché l’ha affittata e a lei dà la metà dell’affitto. Di tanto in tanto lui le offre aiuto economico e io lo so non perché me l’abbia detto lui ma perché me l’ha detto mia madre pur disprezzandolo moltissimo.
4] i padri separati vogliono che i figli restino con loro perché sono abusatori o perché vogliono fare un dispetto alle ex mogli.
Ci saranno volte in cui è così e volte in cui invece non lo è. Non si può pensare che le madri siano tutte assolvibili in quanto donne e i padri tutti carnefici in quanto uomini. Sono rimasta con mia madre fino all’età di 12 anni. Poi, un giorno, non ce l’ho fatta più, sono scappata e sono andata da mio padre. Gli ho chiesto aiuto, perché altrimenti lui mi avrebbe rimandata da lei. Hanno lottato un po’ e poi lui è riuscito a convincerla che era meglio così. Ero un’adolescente che si ritrovava a scontrarsi con una madre priva di equilibrio e di forza. Umanamente potevo anche capire ma da figlia invece no.
5] i padri sono capaci di istigare odio nei figli nei confronti delle madri.
Non è stato vero per me. Mia madre mi ha parlato di lui in modo pessimo. Lei, mia zia, mia nonna, non hanno fatto altro che dirmi che lui era una merda. Non ho creduto a quello che mi dicevano e in ogni caso volevo verificarlo. Alla fine mi sono resa conto che quel che mia madre riteneva di merda era il comportamento di un uomo che non sopportava di essere trattato come una pezza da piedi. Non ce la faceva più.
6] i padri non vogliono che le ex mogli abbiano una nuova storia altrimenti le scatenano contro un inferno.
Non è vero. Nel mio caso è stata lei a diventare insopportabile quando ha saputo che lui si era messo con un’altra. Dopo ogni appuntamento tra me e mio padre lei mi tartassava di domande, voleva sapere tutto, la nuova compagna di mio padre per lei era una zoccola che voleva togliergli soldi che sarebbero dovuti spettare a me. Quando mia madre ebbe una storia per lui fu tutto normale. Acconsentì a facilitarla per farla stare con lui la sera, i sabati e le domeniche o in estate restando con me il più possibile.
7] i padri odiano che le ex mogli facciano dormire i fidanzati in casa.
Non è vero. Mio padre non ha mai avuto problemi. Si è informato su chi fosse e che faceva per rassicurarsi del fatto che non mi rendesse la vita difficile ma in realtà fu mia madre che pretese da lui che allontanasse la sua nuova compagna ogni volta che andavo da lui. Non voleva che io li vedessi dormire insieme, mano nella mano, a farsi le coccole. Non voleva che lei provasse a rivolgermi la parola. Dopo qualche mese di urla e atteggiamenti osceni (di mia madre) alla fine mio padre la mandò a quel paese e disse che era così e non poteva farci niente. Mia madre disse che voleva rivolgersi al tribunale dei minori per appurare che la nuova compagna di mio padre fosse una persona “limpida”. Poi ci ripensò e incassò il colpo, per fortuna.
8] se i figli non restano con le madri è perché i padri glieli mettono contro. È innaturale che i figli non amino la madre (sarebbe invece molto naturale vederli odiare i padri?). La loro psiche ne soffrirebbe e bla bla bla.
Sciocchezze. Io non odio né mia madre né mio padre. Non ho risentimento nei confronti di nessuno. A mia madre non ho nulla di brutto da dire. Non riesco a stare con lei. Non mi piace come persona. Voglio stare con mio padre e la sua nuova compagna. E tra un po’ andrò a vivere da sola. La mia psiche è a posto e trovo molto sessista questo modo di vedere le relazioni tra figli e genitori.
9] i figli di una famiglia separata subiscono un trauma indelebile e si rifletterà su tutte le relazioni future. La famiglia dovrebbe restare unita perché è così che deve essere.
Falso. Per me. Mi è dispiaciuto, all’inizio, poi però ho capito e soprattutto non ho vissuto questa cosa come la fine delle mie relazioni con i genitori. I miei punti di riferimento erano tutti lì e ho scoperto che se un amore finisce può iniziarne un altro e che essere consapevoli del fatto che un amore non è “per sempre” non è brutta cosa. Attualmente ho un ragazzo e sto con lui da due anni. Non è un rapporto malato, dipendente, infelice, squilibrato. Stiamo bene. Non so quanto durerà ma stiamo bene così.
10] i figli di una famiglia separata che non restano a vivere con le madri finiranno male, saranno sbandati, potenzialmente depressi, pensano al suicidio, si drogano e vivono relazioni sessuali senza sentimento e bla bla bla. Perché spezzare il legame madre/figlio sarebbe una cosa dagli effetti apocalittici.
Se dopo tutto quello che ho già raccontato pensate che io sia diventata quella cosa lì allora è stato inutile spiegare. Ma per chiarire, in conclusione, io sto bene. Il cordone ombelicale si spezza alla nascita e non mi risulta che i figli che restano sotto sorveglianza di una mamma chioccia siano mostri di equilibrio. Ho i miei alti e bassi, come tutti, ma preferirei autodefinirmi senza essere descritta per stereotipi da chi non sa vedere oltre il proprio naso. Posso raccontarmi, senza essere cavia di definizioni generalizzate, ed essendo protagonista della mia storia. Volete speculare sul dolore della gente? Fatelo con qualcun altro. Anzi. Non fatelo affatto.
Ps: è una storia vera. Grazie a chi l’ha raccontata.
Produzioni dal Basso
09 09 2015
Un libro, un video, un blog, una mostra fotografica, solidarietà diretta e il supporto ad un progetto d'appoggio alla resistenza curda in Rojava.
La situazione politica e sociale generata dall’attacco del governo Turco al Rojava negli ultimi mesi ha trasformato il nostro progetto e le tempiste del progetto. Non produrremo tutto il materiale narrativo/informativo in una unico blocco. Divideremo il progetto in due turni.
Il primo viaggio (5-15 ottobre) darà il via al progetto, sarà aperto il blog che giornalmente racconterà l'esperienza. Al ritorno realizzeremo la mostra fotografica, che poi sarà ampliata, e un breve ebook. Il secondo viaggio, con tempi da definire, completerà il materiale necessario per il libro ed il video.
Metà del ricavato di questa raccolta fondi verrà devoluto direttamente alla comunità curda a sostegno di un progetto d’appoggio alla Resistenza nel Rojava. Il progetto verrà individuato sul campo insieme alla comunità curda durante il primo viaggio. L'altra metà dei fondi serviranno a finanziare la produzione di materiale artistico e informativo, il cui ricavato finale andrà poi anch’esso a sostegno del progetto scelto.
Dopo queste precisazioni ecco il testo completo del progetto:
Siamo stati a lungo in silenzio. È tempo di muoversi, di avvicinarci gli uni agli altri, di parlare tra noi, di agire insieme. Accettiamo la sfida dei curdi, accettiamo il loro invito, troviamoci alle loro manifestazioni e raduni nelle nostre città, muoviamoci e rompiamo questa stretta mortale politica.
Così hanno scritto alcuni compagni tedeschi oltre un anno fa, quando non solo la resistenza ma anche l’esperimento rivoluzionario del Rojava siriano e delle comunità curde in Turchia si è mostrato con tutta la sua forza storica e politica. E noi non possiamo che condividere questo punto di partenza.
La resistenza del Rojava rivoluzionario e del popolo curdo è una delle storie di lotta più interessanti degli ultimi anni. Alla decennale offensiva dello Stato turco e alla più recente guerra civile in Siria, si è aggiunta anche la resistenza contro l’esercito fascista dell’Isis.
La guerra alle porte (perché il Vicino e Medio Oriente è profondamente intrecciato con i destini europei, ci piaccia o meno) non riguarda però solo la sfera militare: aumentano i fronti e si moltiplicano i nemici, in un’area dove il sistema statale imposto quasi cent’anni fa ha cominciato a crollare, tra le rivolte e guerre civili scoppiate nel 2010/11; all’interno di questo caos, le comunità curde hanno iniziato a costruire una società diversa alternativa a tutti i sistemi di dominio finora conosciuti.
Quello che sta succedendo in Rojava infatti ci sembra tremendamente innovativo, politicamente potente e, soprattutto, parla un linguaggio che sentiamo a noi vicino.
Lontano dalle pagine dei giornali e dai clamori televisivi questa vicenda continua a stupire per la sua capacità di ottenere inaspettati risultati militari e successi politici che ci danno speranza.
Staffette internazionali continuano a supportare materialmente il Rojava e il Kurdistan occidentale. Anche da Milano nasce l’idea di formare una carovana che mescoli artisti e attivisti, capace di portare solidarietà concreta e che sappia riportare informazione e comunicazione su quel che sta accadendo vicino e lontano dal fronte del combattimento.
I metri guadagnati dal Ypg e dal Ypj contro l’Isis sono importanti così come l’avanzata del Partito democratico dei popoli (Hdp), organizzazione ispirata alle teorie del confederalismo democratico, vicina alle formazioni del popolo curdo, rappresentante delle istanze più radicali della società turca, alle ultime elezioni generali in Turchia. Le line del fronte hanno forme e dimensioni diverse, si combattono in maniera differente, e si vincono sapendo modificare anche “se stessi” e la stessa società.
L’emancipazione delle donne curde, così come la trasformazione del Pkk, e le forme di autogoverno e autogestione che il Rojava sperimenta, sono solo alcuni degli esempi che ci dicono con chiarezza e forza i successi che, tra i deserti e le montagne del sud-est turco, al confine siriano, si stanno vivendo in questi anni.
Cercheremo di raccontare tutto questo con sensibilità, occhi e intelligenze diverse. A fine viaggio scriveremo un libro e produremo un documentario, entrambi pagati con questo crowdfounding. La vendita di libro e documentario andranno poi a finanziare un progetto, il progetto che sceglieremo in viaggio e che inizieremo a finanziare con una parte importante della raccolta fondi.