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Milano in Movimento
02 09 2015

E’ di qualche giorno fa la notizia di un’assemblea sindacale all’interno di Expo che ha visto la partecipazione di una cinquantina di lavoratori del Padiglione Italia sulla vicenda degli stipendi di Giugno non pagati.

La questione, che si aggiunge alla poco edificante vicenda dello spionaggio preventivo verso i lavoratori del sito Expo, è molto interessante e abbiamo deciso di approfondirla.

Come dicevamo l’elemento che ha dato il via a questo episodio è il mancato pagamento dello stipendi di Giugno a dei lavoratori del Padiglione Italia (uno dei fiori all’occhiello di Expo). L’assemblea è stata indetta dalla sola CGIL dopo che per un certo periodo petizioni e lettere mandate dai singoli lavoratori sono cadute nel vuoto.

Ma facciamo un po’ di passi indietro.

L’azienda che non paga gli stipendi è una sola: tale Jec. Questa fa parte di un gruppo di aziende costituitosi appositamente per partecipare alla gara per la gestione degli eventi del Padiglione Italia. Nel periodo di poco antecedente all’inaugurazione dell’Esposizione Universale sorgono evidentemente dei problemi perché il 28 Aprile per l’apertura del Primo Maggio viene chiamata in tutta fretta a organizzare il lavoro l’onnipresente Manpower.

A Giugno, e per un solo mese, torna in scena Jec che fa gestire il Padiglione Italia alla società The Kay (fondata a Maggio 2015 e con un capitale sociale molto basso). Poi, a Luglio, la gestione viene nuovamente riaffidata e attribuita allo Studio Ega in collaborazione, tanto per cambiare, con Manpower.

Una serie di domande sorgono spontanee.

Perché ARCA (la centrale acquisti regionale) non ha assegnato la gestione prima del Primo Maggio?
Perché dopo un solo mese il servizio viene riassegnato a Jec?
Non era possibile un controllo preventivo della solidità e della serietà delle aziende chiamata a gestire Expo?

Ma la vicenda è ulteriormente ingarbugliata perché Expo non ha riconosciuto il passaggio da Jec a The Kay ed è quindi in atto un contenzioso. Da qui lo stop degli stipendi. Da notare che la società Jec non ha pagato non solo hostess e steward, ma anche ruoli più alti a livello dirigenziale.

In questo momento lo scopo primario è quello di ottenere il pagamento degli stipendi e il rispetto dei sacrosanti diritti maturati dai lavoratori come corrispettivo della loro prestazione lavorativa.

Citando l’amareggiato commento di qualcuno che conosce da dentro l’intera vicenda dell’Esposizione Universale: “Qui a Expo vengon fuori delle merdate incredibili, ma formalmente tutto deve essere ineccepibile”.

 

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Dinamo Press
02 09 2015

La comunicazione, inquadrata nell’intera molteplicità dell’odierno spazio mediatico, determina la creazione di verità. È indubbiamente un terreno cruciale per esprimere un’azione radicale sul reale, ma come?

Una riflessione collettiva in vista del seminario di Euronomade "Costruire potere nella crisi", Roma 10-13 settembre.

Di certo, oggi, non attraverso un lungo testo come questo. Il primo passo per un’analisi sulle forme di comunicazione è infatti assumere che la forma del testo scritto che siamo soliti impiegare non è all’altezza dell’istantaneità assunta oggi dalla comunicazione; esso non riesce a permeare la società nella quale vogliamo intervenire; banalmente, non comunica, non riesce a veicolare messaggi se non all’interno delle nostre cerchie. Tutto ciò non significa, ovviamente, che sia inutile scrivere un testo utilizzando più di 140 caratteri, quanto piuttosto che sia ingenuo pensare che esso possa essere genericamente diretto a tutt*. Insomma, se il testo di 4-5 pagine è il codice più efficace per confrontarsi e far circolare posizioni politiche all’interno degli ambienti del “movimento” in Italia, esso va usato con la consapevolezza di questo particolare “target” a discapito di altri, rispetto ai quali tale codice si mostra del tutto inefficace.

Proviamo dunque, con un documento del tipo sopra descritto, a fornire alcuni strumenti analitici utili alla discussione di Roma, e in particolare al workshop sui social network, per la costruzione di un metodo nel terreno comunicativo che sia in grado tanto di aprire a sperimentazioni pratiche, quanto di tracciare linee programmatiche.

Innanzitutto, l’analisi del sistema dei media: complessivamente ne usciamo perdenti, ormai lo percepiamo chiaramente. Assistiamo ad una diffusa estraniazione nei confronti delle narrazioni mediali la cui strutturazione gerarchica ed antidemocratica è maggiormente solida. Tale estraniazione, che investe in primis l’attivismo sociale e la vecchia sinistra ma non solo, pensando in generale alle giovani generazioni, non determina in alcun modo la fine della subalternità degli “estraniati” nei confronti della funzione di verità svolta da grandi televisioni e testate giornalistiche, dalle loro regole e dalle loro maschere.

Più nel particolare, l’analisi delle reti– e più propriamente il terreno dei social network – ci vede al contrario più capaci, più reattivi. Analizzare nel dettaglio i codici funzionanti su questo terreno, tanto nelle espressioni vicine ai movimenti quanto in quelle esterne, deve fornirci un implemento della capacità di agire all’interno dello spazio mediatico.

Ci sembra però utile, anche in questo campo, partire dai problemi riscontrati per elaborare le nostre contromisure strategiche.
Innanzitutto registriamo che i tempi delle notizie, delle storture e degli attacchi al corpo sociale svolti dal potere attraverso i media sono incommensurabilmente superiori ai nostri. Le nostre risposte sono spesso tardive rispetto alle accelerazioni di dibattito provocate dai “temi caldi”. Inoltre, la forma di risposta nettamente più usata, quella del comunicato scritto di cui sopra, rimarca e perpetua oggi quella “lentezza” già accumulata nel seguire l’accadere degli eventi e la possibilità di intervenirvi politicamente.

Con che forma allora si interviene sui temi imposti dall’agenda dei grandi media nemici?

Nei social network si evidenzia già un ruolo determinante nella produzione di (contro)informazione e discorso politico attraverso una moltitudine di “profili”, collettivi e individuali, tra i quali troviamo quelli di molti di noi. La nostra partecipazione “di parte” nelle reti sociali va identificata e definita più chiaramente per poterne chiarire i difetti e le potenzialità. Per fare un esempio, in un momento come l’attuale, certamente difficile per la capacità delle lotte di contendere al potere la costruzione di senso nello spazio mediatico, le risposte che riescono maggiormente a catalizzare i consensi dei nostri sciami d’opinione ci paiono spesso, ahinoi, volti ad un pessimismo pericoloso. Ciò rischia di investirci infatti di una valutazione morale della moltitudine (frutto degli allarmi sulle passioni razziste e sessiste che investono l’Italia con preoccupanti primati nel contesto europeo) che non permette una azione costruttiva di discorso, non aprendo alla prassi.

Ci sono per fortuna anche alcuni profili, che possiamo chiamare maschere, molto vicini a noi e che funzionano. Esse si nutrono di meccanismi di viralità che sono trasversali al successo negli ambiti delle reti sociali: ad esempio, la capacità tecnica specializzata nei microcampi dell’arte visiva (Zerocalcare) e la forte impronta ironica, asse portante della viralità stessa dei social network (Spinoza). Dalla scoperta di questi elementi come efficaci è importante partire per costruire forme di comunicazione differenti, specifiche, che riescano a smuovere le stasi che gli stessi media mainstream impongono nella loro costruzione di senso e a cui crediamo nel momento in cui vediamo espressi pessimismo e rassegnazione.

Gli esperimenti migliori di mobilitazione sociale tentati nell’azione sui social network hanno funzionato in una determinazione visiva, costruendo delle maschere utilizzabili da chiunque (Strikers nello Sciopero Sociale, V per Vendetta in Anonymous, Pulcinella nelle mobilitazioni campane). Analizzare queste esperienze, che su scala globale, regionale e urbana hanno determinato processi politici importanti, può aiutarci a costruire degli strumenti per valutare e sperimentare i processi comunicativi che mettiamo in campo.

Il tema della maschera ci porta ad affrontare una questione che ci pare determinante nel panorama mediatico complessivo. Sono le maschere, in fondo, segni che riescono a transitare tra le differenti sfere dello spazio mediatico. Per maschera intendiamo da un lato la funzione ricoperta dai corpi e dai volti dei singoli che intervengono nello spazio mediatico, in televisione come in rete, permettendo a chi vi entra in relazione, guardandoli, ascoltandoli, condividendoli, una forma di riconoscimento collettivo; dall’altro invece il profilo incorporeo che costruisce la sua fisicità attraverso un’identità che è insieme personale e collettiva, in particolare sui social network. In questo spazio, assistiamo sia al dispiegamento di una notevole capacità personale d’intervento, sia alla costruzione di forme d’identità mobile e allargata come nel caso della maschera di anonymous o dello striker.

Come lo striker per lo Sciopero Sociale, come la maschera di V per Anonymous, è il tweet di Renzi o la sua quotidiana “scenetta” che rappresenta oggi in Italia la maschera con cui il potere detta e distribuisce la sua agenda, la sua notizia, il dato attorno a cui spingere gli sciami.

Il focus su ciò che abbiamo chiamato “maschera”, ci riporta alla centralità di un altro elemento basilare del meccanismo comunicativo: il mittente. L’importanza di questo elemento comunicativo, oltre a quelli di codice/forma e destinatario da cui siamo partiti, rischia di rimandarci ad una questione fin troppo spinosa riguardante, in senso ampio, l’identità. Il problema che possiamo però porci da subito sul tema del mittente nei quotidiani tentativi di fare opinione politica sui social network è se, ad esempio, i fondamentali profili di informazione alternativa e quelli degli spazi occupati – i più utilizzati nei nostri ambienti per intervenire sui temi caldi nei social network – siano effettivamente gli strumenti migliori, le migliori maschere, per produrre opinione su temi specifici su cui il potere indirizza l’attenzione. La nostra impressione in merito è che la facilità di creare, ex novo, voci che non siano immediatamente identificabili per trattare i temi più in voga nel sistema mediale, ci doti di una potenzialità nell’intervento sui social network che dobbiamo approfondire, utilizzare e inflazionare per creare maschere transitorie che sappiano contendere in modo più specifico e tematico la creazione di senso.

Le maschere riportano infine al centro una corporalità che è integrata nei meccanismi di efficacia di tutti i contesti comunicativi e che la potenza dell’audiovisivo, persino nelle forme spettacolarizzate da questo assunte, esprime anche nei nuovi spazi comunicativi delle reti sociali. Sarebbe interessante continuare ad indagare la relazione che questa dimensione corporale della maschera e la sua efficacia ha con la questione della personalizzazione e dell’identità nei processi comunicativi di creazione di senso sul reale.

Tuttavia, ciò che può essere utile per imbastire una discussione volta alla costruzione di occupymaskwallmeccanismi pratici di comunicazione, è piuttosto tener presente l’in-mediata potenza della funzione corporale-visiva che abbiamo chiamato maschera, in tutte le sue forme. Dobbiamo dunque scoprire le prerogative, i meccanismi efficaci nei contesti di rete, consapevoli di dover sperimentare e quindi essere disposti a costruire maschere, persino individuali laddove già accade nei profili personali dei social network, che possano essere, sempre transitoriamente, utili nelle differenti fasi della lotta contro il violento potere, anche mediatico, che ci troviamo di fronte.

Pubblicato su euronomade.info come contributo alla discussione verso la Scuola Estiva di Roma 10-13 settembre 2015.

di Exploit_Pisa

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Migrazioni-FrontiereLucio Caracciolo, Limes
1 settembre 2015

Un quarto di secolo dopo la caduta del Muro di Berlino, nel Vecchio Continente si innalzano nuove barriere. Sull'immigrazione lo spirito d'Europa cadrà o risorgerà.

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Escher-HandsFancesco Gesualdi, Comune.info
29 agosto 2015

Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con l'obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com'è.

Abbatto i muri
31 08 2015

Giulia Innocenzi è andata in viaggio in Iran. Descrive quel viaggio sul suo blog e racconta un paese visto con gli occhi di una occidentale un po’ disinformata che, suo malgrado, si presta a legittimare un quintale di islamofobia e neocolonialismo.
Solidarizzo con lei e non nego affatto che in Iran, come altrove, esistano pressioni maschiliste ma, da quel che scrive, deduco che non abbia mai viaggiato per l’Italia facendo attenzione ai molesti, agli esibizionisti dal pene in libertà, agli inseguitori, agli stupratori che qui esistono in gran numero. Deduco anche che non sappia come l’occidente paternalista usi il pinkwashing per giustificare l’aggressione ad alcune culture e ad alcuni paesi prendendo a pretesto la difesa delle donne: ovvero quelle che, a quanto pare, non saprebbero difendersi da sole e senza l’ausilio del “liberatore” occidentale. Il patriarcato del vicino è sempre più verde, per l’appunto. E il femminismo antisessista che non è Intersezionale per me è difficile da digerire.

Nel suo post, con tanto di foto che regalano una visione e stereotipata di quel paese, si parla di uomini perennemente molesti e di donne sottomesse e vittime di molestie. Mi chiedo, ancora, dove fosse la Innocenzi quando per le strade studenti e studentesse iraniane (in numero altissimo) rischiavano la morte, buttavano pietre contro il regime e furono protagoniste della rivoluzione in verde. Tra i commenti al post della Innocenzi ce n’è uno che vale la pena leggere con attenzione scritto da Giulia Presbitero. Ve lo propongo qui. Buona lettura!

Buonasera Giulia,
sono una studentessa di relazioni internazionali dell’Università di Torino e le scrivo in merito all’articolo che ha pubblicato riguardo alla sua vacanza in Iran.
Mi dispiace molto per i commenti sessisti, volgari o maleducati che alcune persone le hanno rivolto in merito al suo articolo o con altri pretesti, immagino debba essere difficile e pesante da sopportare.
Le scrivo con l’intento di esporre una critica in modo più educato ma non meno netto, affinché – spero – la mia critica sia presa maggiormente sul serio e possa forse stimolare una riflessione più approfondita.

Sono italiana, ma ho studiato e lavorato per lunghi periodi in Iran, parlo Persiano abbastanza fluentemente e credo di avere acquisito nel tempo – anche attraverso lo studio universitario in Italia – una discreta conoscenza della storia, della cultura e della società iraniana. L’Iran sta attraversando un periodo molto delicato, in cui grandi opportunità si accompagnano ad alti rischi. Se i rapporti con l’occidente continuassero a migliorare, il turismo potrebbe giocare un ruolo fondamentale per assicurare una ripresa economica del paese e per portare liquidità alle frange della popolazione che più hanno sofferto nel lungo periodo segnato dall’embargo e dalle sanzioni.
Ora, il fatto che una giornalista in vista come lei pubblichi un articolo sull’Iran in cui non dedica un minimo di approfondimento sulla realtà del paese, in cui si limita a offrire immagini-stereotipo accompagnate da frasi che sono poco più che luoghi comuni, lasciando spazio soltanto ad aneddoti di esperienze negative (per quanto sicuramente provanti) senza minimamente preoccuparsi dell’impatto che questo tipo di mala-informazione può avere sul pubblico, è molto, molto triste.

Non solo dall’articolo appare evidente la sua impreparazione sulle realtà culturali e sociali del Medio Oriente, ma il modo in cui ha reagito ai commenti negativi ricevuti (non intendo quelli volgari, ma quelli delle persone che come me conoscono la realtà iraniana e che l’hanno criticata per la superficialità dell’articolo) denota anche un disinteresse a comprendere meglio le questioni di cui parla e di cui si lamenta, le quali sono molto più complesse di come lei fa apparire in questo articolo.
C’è già tanta disinformazione sull’Iran in particolare e sull’Islam in generale, non c’è certo bisogno di altro pressapochismo sul tema. Il maschilismo in Medio Oriente è un problema molto serio e la condizione della donna nelle società islamiche è estremamente complessa: il modo in cui lei tratta questi temi nel suo articolo è a dir poco riduttivo.
La cosa più grave che trapela dal suo articolo è la sua scars(issima) conoscenza dei principi basilari del relativismo culturale e del postcolonialismo: per dirla in parole semplici, quella sospensione del giudizio di fronte a realtà che non sono basate sui nostri stessi parametri logico-culturali che è l’unica risorsa possibile per approcciare senza pregiudizio realtà profondamente diverse dalla propria, per porre le basi di società inclusive e per superare posizioni xenofobe e razziste.
Di fronte alla ragazza che non si siede a tavola con due uomini sconosciuti lei sfodera subito un giudizio semplicistico, sottovalutando o anzi non prendendo neanche in considerazione le norme sociali tradizionali che si depositano alla base di tutte le culture (compresa la nostra) e che fanno sì che certe cose siano ritenute accettabili ed altre sconvenienti. Paradossalmente, il padre della ragazza, applicando i parametri culturali propri della sua cultura a sua figlia, e applicando invece i parametri di quella che ha compreso essere la cultura occidentale a voi (se siete lesbiche unite pure i letti, se volete potete non indossare il velo per casa) dimostra una capacità di astrazione e di relativismo culturale molto maggiore della sua, Signorina Giulia!

iranshow_makeupFar passare le donne iraniane per povere vittime senza risorse di un sistema oppressivo è invece una bugia vera e propria. Il sistema è certamente oppressivo, ma le donne iraniane sono estremamente forti e combattive ed al di là delle apparenze e delle formalità il loro potere decisionale nella famiglia e nella società è altissimo. Le donne iraniane hanno imparato a sfruttare a loro favore molti aspetti della cultura in cui sono nate e spesso, al di là di quello che gli uomini affermano in pubblico, i veri capifamiglia nelle case iraniane sono donne, i veri motori dell’educazione iraniana sono donne, la futura classe dirigente non potrà che essere sempre più costituita da donne.

Riguardo agli spiacevoli incidenti che vi sono capitati in Iran, non è mia intenzione minimizzare: il problema nel paese esiste ed è più grave che in altri posti del mondo. Anche a me sono capitati un paio di episodi sgradevoli viaggiando da sola per l’Iran, ma niente di paragonabile a quello che descrivete voi. La frequenza e l’intensità delle violenze subite sono molto, molto strane. Con ciò non dubito della loro autenticità e non intendo “puntare il dito contro la vittima”, perchè la causa di questi episodi è certamente imputabile a un certo modo di concepire la mascolinità e la femminilità in quella parte del mondo, nonchè all’enfasi sulla separazione tra i sessi che viene imposta dall’educazione stabilita dal potere dominante e che produce effetti deleteri sulla psiche di molte persone.

Intendo però puntare il dito contro una giornalista impreparata che si reca in un paese molto complesso senza l’adeguata preparazione non solo razionale ma anche emotiva, sottovalutando fortemente le difficoltà derivanti dal calarsi in una cultura profondamente diversa dalla propria e la necessità inderogabile di conformarsi a determinate norme che nel proprio paese riterremmo ingiuste o degradanti. Ancora una volta: l’ignoranza in merito a tematiche di relativismo culturale e postcolonialismo. Mi rincresce dirlo in questi termini, ma l’Iran non è un qualsiasi altro paese del Medio Oriente, sotto tutti i punti di vista: sia quelli positivi, che negativi.
Per ottenere un record così alto di esperienze negative in un lasso di tempo così breve, qualcosa avete per forza sbagliato anche voi, e il fatto di non volerlo ammettere non vi fa onore nè aiuta la causa femminista delle donne iraniane. Ci sono cose / atteggiamenti / modi di guardare / di comportarsi / di vestirsi / di parlare che in Iran una donna non può permettersi, o meglio: può permettersi (e spesso la fa, tirando al limite la corda tra il lecito e l’illecito, per affermare la sua volontà all’autodeterminazione), ma essendo conscia dei rischi a cui di conseguenza si espone. Sottovalutare queste norme per poi scandalizzarsi delle conseguenze è a dir poco naif. Conformarsi non significa accettare queste norme come giuste per sè, ma riconoscere il fatto che in questo luogo il rapporto fra i sessi è regolato da altri standard, altre norme non scritte a cui due turiste straniere non possono pensare di soprassedere nè di dominarle appieno.

L’avanzamento dei diritti delle donne iraniane spetta alle donne iraniane, le quali stanno portando avanti da decenni un lento e misurato lavoro di scalpello sulla granitica pietra della loro cultura tradizionale. Già qualcun altro tanti anni fa ha pensato di provare con la dinamite, ma non ha funzionato, anzi.
iran_protesta_primaUn altro errore grossolano denotato dalla mancanza di conoscenza della realtà in cui vi trovavate è quello del vostro rifiuto a ricorrere alla polizia: come vi hanno già fatto notare molti altri utenti, una cosa su cui si può certamente contare in Iran è l’affidabilità della sicurezza interna e la protezione degli stranieri nel paese. Garantire la sicurezza delle turiste straniere e assicurare che al loro ritorno parlino bene del paese e invitino altri a visitarlo è una priorità assoluta del governo iraniano e se vi foste rivolti alle autorità avreste sicuramente trovato aiuto (e probabilmente un “consiglio” su come conformarvi meglio al codice di vestiario e di comportamento islamico: “consigli” sempre fastidiosi e sgradevoli per noi ragazze occidentali, ma ahimè necessari se si vogliono evitare questi incidenti).

Voi avete fatto esattamente il contrario: cariche di pregiudizio avete pensato che le autorità non vi potessero essere di nessun aiuto (“in un paese dove uomo e donna prima del matrimonio non possono nemmeno sfiorarsi” avete scritto..altra informazione falsa!) e al ritorno non avete esitato a scrivere un articolo che farà certamente passare la voglia di visitare il paese a migliaia di persone, se mai queste ci avessero pensato. In mezzo ai tanti commenti negativi al suo articolo, infatti, si leggono moltissimi “grazie per l’interessante reportage, accidenti che brutto posto l’Iran!”. Come se ce ne fosse bisogno. Un bel “grazie” da parte di tutti gli iraniani!
Ma ciò che mi ha fatto più arrabbiare del suo articolo è il paragrafo finale, perchè denota non solo superficialità nell’approcciare una cultura altra da sè, ma anche cecità di fronte alla realtà del proprio paese e insensibilità verso coloro che non condividono la sua posizione di privilegio. Quando la ragazzina in chador (altra precisazione necessaria: i chador non coprono MAI la faccia della donna, forse lei si confonde con il burqa) le dice che vorrebbe studiare scienze politiche ma che i suoi genitori non sono d’accordo, per cui studierà psicologia, lei commenta “Abbiamo cominciato a pensare a quante cose avrebbe potuto fare nella vita una donna brillante e curiosa come lei. Se solo fosse stata libera. Se solo avesse avuto il diritto di essere se stessa.”

Il diritto di essere libera? il diritto di essere se stessa? Ma lei crede davvero che basti questo perchè una donna brillante riesca ad avere successo nella vita? Forse lei non si rende conto che la sua condizione – quella di essere una giovanissima giornalista di successo che dirige trasmissioni per le più importanti emittenti nazionali e collabora con i più famosi giornalisti nazionali – è una posizione di privilegio più unica che rara nel nostro fantastico paese in cui le donne sono “libere e padrone di se stesse”! Non metto in dubbio che lei sia arrivata a questa posizione per merito della sua professionalità, ma metto assolutamente in discussione che il suo caso possa essere portato ad esempio per noi migliaia di studentesse di scienze politiche che dopo la laurea ci barcameniamo per anni ed anni tra stage non pagati, collaborazioni “volontaristiche” e infine finiamo a svolgere lavori che nulla centrano con le nostre aspirazioni, coi nostri studi o coi nostri interessi!

I genitori di quella ragazza, forse, consci delle simili difficoltà in cui si trovano i giovani iraniani in un paese in cui il tasso di disoccupazione giovanile pare si aggiri intorno al 20%, magari privi di contatti o conoscenze nell’ambito di interesse di sua figlia, hanno semplicemente tentato di proteggerla da un probabile fallimento e di indirizzarla verso una carriera più sicura. Che ciò sia giusto o meno, cos’ha questo a che vedere con il maschilismo o l’oppressione della donna? Di oppressione si tratterebbe se alla ragazza fosse stato proibito di andare all’università per sposarsi e vivere reclusa in casa, invece chi è informato sa bene che le studentesse donne in Iran sono più del 60% nelle università del paese.
La mia lettera è già abbastanza lunga e non sono affatto sicura che lei troverà il tempo di leggerla (chissà quante ne riceve ogni giorno!), quindi meglio che mi fermi qui, anche se cose da dire ne avrei ancora molte.

Cordiali saluti,
Giulia Presbitero

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