Global Project
26 08 2015
L'11 agosto, a Dublino, è stata approvata da Amnesty International una risoluzione per la protezione dei diritti umani delle/dei sex workers. Un traguardo raggiunto soprattutto grazie al lavoro di numerose associazioni che da anni si battono per il riconoscimento dei diritti delle lavoratrici del sesso e per la depenalizzazione della prostituzione, ma a ciò non si è certo arrivati senza numerose polemiche.
L’associazione CoalitionAgainstTrafficking in Women, infatti, con l’appoggio di numerose star di Hollywood, in una lettera aperta scrive: «Ogni giorno combattiamo l’appropriazione maschile del corpo delle donne, dalle mutilazioni genitali ai matrimoni forzati, dalla violenza domestica alla violazione dei loro diritti riproduttivi. Pagare denaro per una simile appropriazione non elimina la violenza che le donne subiscono nel commercio del sesso. È incomprensibile che un’organizzazione per i diritti umani della levatura di Amnesty International non riesca a riconoscere che la prostituzione è una causa e una conseguenza della diseguaglianza di genere».
Tra le firmatarie vi è la regista Lena Dunham, che, avendo invitato l’artista Molly Crabapple a partecipare ad un progetto legato alla campagna contro la mozione di Amnesty, si è vista rispondere con la lettera pubblicata di seguito:
Cara Lenny,
grazie per avermi cercato e per le parole gentili sul mio lavoro.
Non posso però impegnarmi in un progetto diretto da Lena Dunham, fintanto che lei appoggia la petizione contro la depenalizzazione della prostituzione proposta da Amnesty International.
Molte delle mie più care amiche sono lavoratrici del sesso. La mia militanza politica è legata all’attivismo sui temi della prostituzione, e da giovane ho lavorato in un settore legale dell’industria del sesso. La campagna di Amnesty International per la depenalizzazione della prostituzione è un’azione importante e positiva.
Che si tratti del Bronx o della Cambogia, la polizia impiega la violenza contro le lavoratrici del sesso e contro le vittime del racket della prostituzione. Stupra, deruba, picchia, ricatta, arresta le lavoratrici del sesso e le vittime del racket della prostituzione.
La depenalizzazione è un passo importante per porre fine a tutto questo. Senza dubbio Lena Dunham crede che la petizione che ha firmato chieda la criminalizzazione solo dei clienti e degli sfruttatori, non delle lavoratrici.
Questo modello, chiamato svedese, è però tutt’altro che una buona cosa. Ostacola ogni tentativo da parte delle lavoratrici del sesso di controllare le loro condizioni di lavoro. Favorisce la loro discriminazione, l’impoverimento, lo sfratto dalle loro case, e le rende passibili dell’accusa di «sfruttamento» quando scelgono di lavorare insieme per sentirsi più protette. Soprattutto, comporta spesso l’intervento di poliziotti corrotti e violenti nella vita di donne che sono già state vittime di violenza. L’articolo di Molly Smith per «New Republic» spiega assai bene i problemi del modello svedese. La signora Smith è una lavoratrice del sesso, un’attivista e una scrittrice.
Molte attrici famose hanno firmato la petizione anti-Amnesty. Ma Lena Dunham è più che un’attrice. È una giovane femminista fiera e conosciuta. Si può dire che sia uno dei volti più noti del femminismo. Eppure sta prendendo una posizione politica che danneggia e mette in pericolo altre donne nel mondo. La esorto quindi a riconsiderare il suo sostegno alla petizione anti-Amnesty, e ad ascoltare le voci delle lavoratrici del sesso. Purtroppo, fin quando sosterrà quella petizione, non potrò collaborare con lei.
Cordiali saluti,
Molly
Da attivist* femminist* che da anni cercano di condividere all'interno degli spazi sociali i temi legati al diritto all'autodeterminazione anche delle/dei sex workers, ci sentiamo di condividere appieno la lettera di Molly Crabapple e accogliamo fiducios* la risoluzione di Amnesty, perché crediamo che la de-criminalizzazione della prostituzione, anche in quei Paesi, come l'Italia, dove non si può parlare di penalizzazione in senso stretto, sia l’unica strada percorribile per garantire la libertà di scelta, la salute e la sicurezza di chi svolge lavoro sessuale.
Sul sex work, soprattutto in Italia, pesa ancora fortemente uno stigma sociale e morale, che tende ad equiparare la tratta e lo sfruttamento al lavoro sessuale e che vede nella criminalizzazione – se non giuridica, quantomeno sociale - un mezzo per ribadire l'inviolabilità dei corpi delle donne, anche quando sono esse stesse a rivendicare la propria scelta libera e consapevole. Sovradeterminazione, dunque, e della peggior specie, che, come ci raccontano molto spesso prostitute e lavoratrici del sesso, mette a repentaglio la loro sicurezza ed il loro diritto alla privacy.
E sia chiaro che lo stigma a cui ci riferiamo non riguarda solo i prestatori e le prestatrici di lavoro sessuale, ma anche i/le loro clienti, perché non v'è dubbio che se dobbiamo inquadrare il sex work entro gli schemi (sociali) del lavoro professionale non possiamo negarne l'essenziale bilateralità. C'è chi gode dell'opera pagando e chi la presta venendo pagat*, tutto qui. A cosa servirebbe riconoscere i diritti delle prostitute senza riconoscere i diritti della clientela?
Assistiamo, infatti, ancora oggi all'incapacità diffusa di concepire la sessualità in modo aperto e laico. Nelle sabbie mobili dei retaggi cattolici e della cultura disneyana fatichiamo ad accettare la sessualità al di fuori delle retoriche romantiche che albergano ancora in pratiche e atteggiamenti tesi alla condanna dei clienti, sovente accusati di essere, in quanto tali, violenti e sfruttatori.
Ma come ci hanno ripetutamente spiegato le prostitute stesse, la stigmatizzazione sociale e la criminalizzazione giuridica dei clienti non fanno che limitare ed elidere la possibilità di scegliere liberamente e di lavorare in privacy e sicurezza. E ciò è di una tale evidenza (perché lo stesso avviene per qualsiasi altro lavoro) che dispiace davvero doverlo ribadire a chi, in teoria, si batte per il diritto all'autodeterminazione personale e lavorativa delle donne. Perché ci si permette di cacciare i clienti, denigrarli, offenderli, minacciarli e additarli come mostri? Se sto lavorando per procurarmi un reddito, quale donna-da-bene può arrogarsi il diritto di decidere con chi, dove e come devo lavorare, osteggiando la mia clientela? E se sono una donna sfruttata e ricattata, perché devo rischiare di essere, magari, picchiata e punita perché non ho ricevuto abbastanza clienti, o sbattuta nelle periferie industriali dove non bazzicano i fai-da-te della tutela della “dignità femminile”?
Il modello svedese è un chiaro esempio di come la criminalizzazione dei clienti ricada inevitabilmente sui diritti dei/delle sex workers.
Entrato in vigore nel 1999, questo modello, a cui le/i pro- criminalizzazione fanno quasi sempre riferimento, prevede pene per i soli clienti (si va dalle multe al carcere fino a sei mesi) e vanta la diminuzione del 40% della prostituzione di strada dall’entrata in vigore sino al 2003. Negli anni successivi all’approvazione della legge la maggior parte delle prostitute, per poter lavorare, si è spostata al chiuso, spesso in situazioni di maggiore rischio per la loro incolumità fisica. La criminalizzazione dei clienti, inoltre, ha favorito un clima di omertà riguardo alle vittime di tratta.
Lo stesso accade nei nostri territori, quando ordinanze anti-prostituzione, ronde di cittadini o paladini della santità del corpo delle donne inducono le prostitute a spostarsi in zone meno disturbate, ma più pericolose.
A ciò si aggiunga che le velleità borghesi e privilegiate di chi spesso pretende di agire per (ma non con) le prostitute ignorano, volutamente o meno:
-che il lavoro sessuale è spesso un servizio nei confronti di disabili, anziani ed altri soggetti che per diverse ragioni hanno una minore capacità di accesso all'attività sessuale;
-che le/i sex workers sono soggetti pienamente capaci, organizzati, consapevoli, in grado di gestire la propria professione né più né meno di altr* lavoratori e lavoratrici;
-che la clientela del lavoro sessuale sono i nostri genitori, datori di lavoro, insegnanti, amici, chiunque in diverso modo attraversi le vite di tutt* e che ritenere che una prostituta sia più vulnerabile rispetto a questi stessi soggetti sia un atto di disvalore e di infantilizzazione paternalista;
- che molt* di noi svendono la propria preparazione e il proprio cervello a cifre che si aggirano dai 3 ai 6 euro all'ora, ma “la figa no, è sacra e dobbiamo conservarla, ce l'ha detto madre Chiesa”.
Detto questo, non crediamo in un processo di legalizzazione che rinchiuda il sex work nei confini asfittici che stritolano altre categorie di lavoratori e lavoratrici autonom*.
La Nuova Zelanda, ad oggi, è forse l’esempio migliore di come si dovrebbe affrontare il tema della prostituzione: i neozelandesi hanno scelto di percorrere la strada della depenalizzazione del lavoro sessuale valorizzando i diritti e bisogni delle/i sex workers, permettendo loro di esercitare il proprio lavoro in modo informale e senza bisogno di pratiche amministrative.
Ma per tornare a noi, ai nostri territori e ai nostri spazi, pensiamo che ancora molto debba cambiare e non solo in termini giuridici e amministrativi. Fino a quando vi sarà chi insiste nel dipingere la figura della/del sex worker in modo stigmatizzato, come un soggetto da salvare - da un pappone, da un cliente o da se stess* -, come una persona che non è in grado di decidere per sé, perché “nessuna donna venderebbe il proprio corpo”, o fino a quando, in egual misura, si continuerà a vedere i clienti (inevitabilmente maschi?) sempre e comunque come sfruttatori, violenti e traditori, vorrà dire che abbiamo ancora un lungo lavoro politico e culturale da portare avanti.
Vulva la revolución!
Assemblea permanente We Want Sex
Rete Kurdistan.it
26 08 2015
Nella città turca di Adana la polizia ha utilizzato la tortura sessuale nei confronti della 25enne Figen Şahin, arrestata quando la polizia ha represso la dichiarazione di autogoverno del quartiere.
Domenica notte,l’Assemblea del popolo del quartiere di Dağlıoğlu della città di Adana,in Turchia ha dichiarato l’autogoverno nel quartiere.L’assemblea aveva annunciato che non avrebbero riconosciuto le istituzioni dello stato.
La polizia ha attaccato la folla riunitasi con munizioni vere e ha arrestato volentemente dieci persone.La 25enne Figen Şahin si trovava tra gli arrestati.Lei e altri 8 hanno denunciato di essere stati torturati mentre si trovavano agli arresti.
La polizia ha torturato sessualmene Figen sia nel veicolo che nella stazione di polizia di Adana.Lo ha riferito il suo avvocato Evin Bahçeci.Otto poliziotti hanno picchiato,preso a calci e colpito con la pistola la Figen.Un gruppo di poliziotti ha preso di mira le zone genitali e gli altri il seno.Il suo avocato ha anche riferito che i poliziotti avevano dato l’ordine ai cani di attaccarla.
La Figen è stata rilasciata ieri.Ha difficoltà a camminare e non è in grado di parlare.La Figen è stato ricoverata in ospedale con gravi contrazioni del cuore dovute ai colpi al petto.
Jinha
Rete Kurdistan.it
26 08 2015
Dai ricordi degli anni ’90 alle immagini del 2015, la violenza sulle donne curde è parte di una strategia volta ad indebolirne la resistenza
Nessuna guerra è bella, ma quella in Kurdistan/Turchia negli anni ’90 è stata veramente violenta. Qualsiasi bambino cresciuto in Kurdistan ha assistito ad almeno un atrocità. Erano gli anni in cui i curdi non erano nemmeno considerati dai media occidentali. Le guerrigliere curde non erano così “popolari” come lo sono ora nella guerra contro l’Isis in Siria. Eppure, i tempi erano brutali come ora.
Erano i primi anni 90, di certo prima del 1993, perchè quell’anno ci siamo spostati da Haskoy, una città nella provincia di Mus nella Turchia Orientale. Eravamo lì per via del lavoro di mio padre. Quell’estate mio nonno era in città, giunto da Varto per farci visita. L’ho chiamato per chiedergli esattamente il mese e l’anno, ma ora ha l’Alzeheimer e non si ricorda neanche di me. Ma vi racconterò cosa accadde quell’estate ad Haskoy. Era verso l’ora di pranzo, se non ricordo male nel fine settimana. Nonno mi prese per mano e ci dirigemmo verso la base militare vicino alla scuola elementare dove studiavo.
Si, ricordo perfettamente, come una bambina di 9-10 anni, tenevo la mano di mio nonno per andare a vedere i corpi dei guerriglieri curdi morti. Erano coperti da giornali, avevano i loro vestiti addosso, e potevo vedere le loro scarpe da ginnastica gialle. Erano stati posti nella base militare del paese misto arabo-curdo di Haskoy nella provincia di Mus. L’esercito turco stava mostrando i corpi per permettere alla gente di sputarci sopra. No, non eravamo lì per sputargli, il mio nonno curdo forse voleva vedere i guerriglieriper la prima volta in vita sua. Ricordo ancora quel giorno, è uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia e da allora non più visto guerriglieri curdi…
Agosto 2015, sono nei miei primi 30 anni. Come faccio ogni giorno, ho aperto twitter e mi è apparsa l’immagine orribile di un corpo morto, una guerrigliera curda, denudata e fotografata. Nella foto si possono anche vedere le gambe dell’uomo in piedi affianco al corpo. Non avevo mai visto l’immagine di una guerrigliera su nessun’altro giornale, ma è stata incisa nella mia memoria in un modo troppo difficile per dimenticarla, la mia memoria si tiene stretta quella scena. Tuttavia, l’immagine di quella guerrigliera denudata, fotografata dall’esercito turco, non so che farci, mi da i brividi ogni volta che mi torna in mente.
La guerrigliera è Kevser Elturk, ma quando si unì al PKK nel 2008, come tutti i militanti anche lei cambiò nome: Ekin Wan. Viene dalla città di Wan, ed è stata uccisa nella città curda di Varto, nella provincia di Mus da soldati turchi/forze di sicurezza. Appena la foto è divenuta virale sui social media, il governatorato di Mus ha pubblicato un comunicato stampo confermando che il corpo apparteneva a Ekin Wan (Kevserk Elturk), e che le persone che avevano fatto trapelare la foto sarebbe state indagate.
Secondo la dichiarazione del governatorato di Mus, la guerrigliera è stata uccisa in uno scontro con le forze di sicurezza turche il 10 agosto. La sua famiglia ha ricevuto la salma all’obitorio di Malatya ed è stata seppellita il 13 agosto. La donna che l’ha lavata prima della sepoltura ha dichiarato che Ekin Wan aveva profondi segni lasciati da una corda intorno al collo, la sua gamba sinistra era rotta e le avevano sparato sotto al fianco sinistro.
Il corpo delle donne spesso diventa il campo di battaglia in guerra. Dall’anno scorso, quando Isis ha attaccato gli Yazidi in Iraq, tutti abbiamo saputo degli stupri e delle tortura che le donne hanno dovuto subire. Viviamo in un mondo dove gli uomini pensano che stuprare, rapire le donne, denudare corpi morti sia un modo di sconfiggere il loro nemico. La guerrigliera nuda è stata spogliata dai soldati turchi in un modo che “disonora” il suo combattimento. Ma stavano spedendo un altro messaggio a tutte le donne che combattono contro la mentalità patriarcale; questa sarà la vostra fine se resisterete. Le donne curde e i/le loro amici/he in tutto il mondo hanno iniziato una campagna online mostrando la loro rabbia usando #EvinVanisOurHonor per fermare la guerra contro i corpi delle donne a attirare l’attenzione verso i crimini di guerra dello Stato turco; esigendo una conclusione per questa guerra.
Il 20 agosto attiviste di tutto il mondo si sono recate a Varto per tenere una protesta nel luogo in cui Ekin Wan è stata torturata, uccisa e denudata. Le Madri della Pace hanno gettato i loro foulard bianchi. Lanciare i foulard ha un significato simbolico nella cultura curda, un modo con cui le donne possono fermare i combattimenti. I soldati turchi potrebbero aver pensato di umiliare questa guerrigliera curda fotografandola nuda, ma nei fatti gli si è ritorto contro. Donne di tutto il mondo hanno organizzato proteste, e [il fenomeno] sta crescendo. Una donna curda è stata denudata e stesa di fronte al parlamento svedese per denunciare i crimini che lo stato turco commette contro i corpi delle donne. Le proteste hanno trovato sfogo anche nell’arte. L’immagine qui sopra ne è un esempio.
Noi sapevamo e parlavamo di cosa stava succedendo negli anni ’90 contro le donne curde in Turchia. La polizia e l’esercito turco ha stuprato e molestato le donne nelle basi militari e nelle questure. La foto di Ekin Van torturata e denudata nel 2015 è la prova più evidente della violenza dello stato turco contro i curdi e le donne. Come un gruppo di attivisti curde ha scritto su di uno striscione in Nusabyn: Ekin Wan è la fase più nuda della nostra lotta. Il Movimento delle Donne Curde ha insegnato alle donne che l’onore non può essere ridotto al loro corpo, l’onore è lotta, l’onore è non vergognarsi della resistenza.
di Ruken Isik
Tradotto da “From Memories to Pictures: The War in Kurdistan”
Traduzione a cura di Carlo Perigli
Global Project
26 08 2015
Una marea umana al confine tra Macedonia e Grecia
Migliaia di migranti da settimane stanno arrivando in massa al confine tra la Grecia e la Macedonia per fuggire verso l'Europa del Nord. Dopo essersi imbarcati in territorio turco, arrivano sulle isole greche e da qui si dirigono verso il nord dei Balcani. La scorsa settimana è stata particolarmente caotica per lo stato macedone. La piccola cittadina di Gevgelija, al confine con il territorio greco, si è trovata alle prese con migliaia di uomini e donne che cercano la salvezza in Occidente scappando dalla guerra in Medio Oriente. I pochi e vecchi treni lungo la linea Salonicco-Skopje venivano letteralmente presi d'assalto dai profughi, che si accavalcavano gli uni sopra gli altri e entravano dai finestrini pur di salire sulle poche carrozze disponibili. Di fronte alla grande presenza di migranti e alla fortissima pressione ai suoi confini, la Macedonia ha così deciso di dichiarare lo stato d'emergenza, chiudere il confine e inviare l'esercito.
Tra la Grecia e la Macedonia, nella cosiddetta “terra di nessuno”, ormai da settimane sono sorti accampamenti e tendopoli dove intere famiglie aspettano nell'attesa di attraversare il confine e prendere il treno per la Serbia e poi continuare verso l'Ungheria ovvero nell'Europa della libera circolazione. Più passano i giorni più però la tensione sale, mancano vestiti, acqua e cibo.
C'è chi addirittura cerca di guadagnare sulla miseria, vendendo panini e bibite a prezzi salatissimi. Ci sono per fortuna anche i volontari delle ONG e delle associazioni macedoni che offrono prima assistenza ai migranti. Dopo la dichiarazione dello stato d'emergenza, lo scorso venerdì tutto il mondo ha assistito alla brutalità della polizia macedone. Di fronte a migliaia di persone, di cui tantissimi bambini anche molto piccoli, che cercavano di superare il confine anche buttandosi sulle reti del filo spinato, la polizia ha sparato lacrimogeni e bombe urticanti. Nonostante le pesanti cariche, qualche centinaio di persone sono riuscite ad aggirare il blocco della polizia mentre tanti genitori letteralmente buttavano i figli oltre il filo spinato per farli proseguire il viaggio, sperando che qualcuno li porti in salvo. La scena più raccapricciante è stata quella di un poliziotto che manganellava un uomo con in braccio il figlioletto di 4 o 5 anni.
Dopo questa giornata di sangue con decine di feriti, il governo macedone ha prima deciso di far passare solo donne e bambini mentre due giorni fa, non riuscendo più a gestire la situazione con i suoi pochi mezzi, ha aperto il confine a tutti. I migranti hanno raggiunto così il sud della Serbia dove sono stati caricati su circa 70 autobus e portati a Belgrado. Circa 7 mila persone sono entrate in Serbia nella notte tra sabato e domenica. Il numero ovviamente continuerà a crescere giorno dopo giorno perché le persone continuano ad arrivare prima dalla Grecia e poi dalla Macedonia.
La Croce Rossa che opera nel campo di Presevo, all'estremo sud dello stato serbo, dichiara che le scorte di acqua e cibo bastano solo per un giorno ancora e chiedono un disperato aiuto. In questo campo i profughi ottengono dal governo di Belgrado un permesso temporaneo, valido 72 ore che consente loro da arrivare al nord e continuare il viaggio verso l'Ungheria. Qui però, il governo guidato dal nazionalista Orban sta accelerando la costruzione di un reticolato di 175 km, proprio per impedire a queste persone di raggiungere l'Europa di Schengen.
Chi sono i migranti che attraversano i paesi balcanici e percorrono a piedi o con mezzi di fortuna migliaia di chilometri? Si tratta di persone provenienti in maggioranza dalla Siria ma anche dall'Afghanistan, Iraq e Pakistan. Sono della classe media e altamente istruiti. Quasi tutti conoscono l'inglese o il francese, tra di loro tanti sono avvocati, dottori, ingegneri o studenti. Il loro scopo non è chiaramente di restare nei Balcani ma di arrivare quanto prima in Germania o nei paesi scandinavi. Scappano da una guerra che ha trasformato in macerie la Siria dopo anni di aspri combattimenti, dal terrore dei miliziani dell'ISIS e non saranno certamente i manganelli della polizia macedone o i muri ungheresi a fermarli. Tanti di loro prima della guerra avevano un buon lavoro, una casa e una vita dignitosa che ora cercano in qualche paese europeo che voglia accoglierli. Sanno già che una volta arrivati alle porte dell'Ungheria, dovranno pagare 1500 euro a qualche trafficante di uomini per attraversare la frontiera clandestinamente.
Per il momento la situazione ai confini è tornata tranquilla dopo le scene di vergogna mondiale della settimana scorsa. I profughi passano, vengono assistiti e poi proseguono oltre. Siamo solo all'inizio però, altri migranti stanno arrivando e altri ancora continueranno ad arrivare mettendo in allarme gli altri paesi vicini. La Bulgaria si è dichiarata pronta a contenere l'ondata migratoria mettendo in allerta le forze speciali. Il primo ministro croato, il socialdemocratico Milanovic ha invece dichiarato che il suo paese è pronto ad accogliere i profughi in base a quelle che sono le proprie possibilità. “Non si tratta di sacchi di patate ma di persone disperate che non possiamo attendere con i manganelli in mano come successo in Macedonia.” Al di là delle posizione dei vari stati, sarà difficile fermare decine di migliaia di persone disposte anche a morire pur di raggiungere una vita degna in qualche angolo d'Europa.
di Marko Urukalo
Huffington Post
26 08 2015
È nata nel 2004 per porre fine all'estrema frammentazione della sinistra ellenica, in contrapposizione a centrodestra e centrosinistra, "entrambi figli del neoliberismo". Il Pasok come Neo Democratia. A tale principio non è mai venuta meno. In greco significa "coalizione della sinistra radicale".
È diventata un partito unico soltanto dopo un lungo e farraginoso processo interno. E, soprattutto, alle elezioni di gennaio - rompendo con quel bipolarismo corrotto e screditato - ha rappresentato agli occhi dei greci l'unica alternativa credibile per uscire dai memorandum e dall'austerity. Grazie alla contaminazione coi movimenti, anche più radicali, e a significative pratiche di autorganizzazione e mutualismo dal basso (mense popolari, farmacie e ambulatori gratuiti, cooperative socio-lavorative, scuole popolari, riallacci delle utenze per i bisognosi) supplendo alle manchevolezze dello Stato, ha incarnato la speranza di cambiamento.
La forza di Syriza: un partito radicato socialmente, vicino ai movimenti, e coerente. Ecco, quella Syriza, presa come modello da molte sinistre europee, va a pezzi. In frantumi. La fine di un'esperienza, almeno quella conosciuta finora. Si apre per il partito una seconda fase, da scoprire. Dopo la pace punitiva inflitta ad Alexis Tsipras all'Eurogruppo del 12 luglio scorso, siamo ad un'altra schiacciante vittoria delle Istituzioni: la scissione di Syriza rientra, infatti, nei piani originari della Troika che ora ha da gioire.
Sarebbe riduttivo banalizzare il tutto come una divisione interna tra "duri e puri" e "moderati". Le cose, spesso e volentieri, sono più complesse. In Italia si tende purtroppo a banalizzare, tifare ed etichettare. Alexis Tsipras da nuovo Che Guevara è diventato, per qualcuno, un "traditore"; altri che prima lo definivano un "populista euroscettico" ora lo elogiano come politico responsabile. Tante parole, pochi ragionamenti e consapevolezza dei fatti. Andiamo con ordine.
Tsipras non è passato al soldo della Bilderberg né nel campo dei nemici, ma sicuramente - come lui stesso ammette - ha commesso gravi errori durante i 5 mesi di trattativa con l'Eurogruppo. Innanzitutto ha sottovalutato i rapporti di forza con quell'Europa che ha gettato (per suo merito, va detto) definitivamente la maschera e mostrato il proprio crudele volto; in qualche momento il leader ellenico ha ipotizzato, e sognato, che la piccola Grecia potesse cambiare l'Europa. Che Davide potesse sconfiggere Golia.
Una sottovalutazione dovuta dalla mancata consapevolezza del ruolo del Pse nella partita. Convinto che Francia e Italia, Hollande e Renzi, dopo la vittoria referendaria dell'OXI ad Atene, avessero sostenuto la sua posizione all'interno dell'Eurogruppo rompendo il proprio isolamento. Non è avvenuto, anzi. Il Pse si è schierato con Angela Merkel invitando la Grecia a rientrare nei ranghi. Infine, l'errore più grande: non aver mai ipotizzato un piano B. L'accusa mossa dall'ex ministro delle Finanze, dimissionario, Yannis Varoufakis il quale, in una recente intervista al giornale Journal du Dimanche oltre a criticare Tsipras, bacchetta Hollande:
"La logica di Schäuble è semplice: la disciplina è imposta alle nazioni in deficit. La Grecia non è poi così importante. Il motivo per cui l'Eurogruppo, la Troika, il Fondo monetario internazionale hanno speso così tanto tempo per imporre la propria volontà su una piccola nazione come la nostra, è che siamo un laboratorio di austerità. Ciò è stato sperimentato in Grecia, ma l'obiettivo è ovviamente quello di infliggerlo alla Francia, per il suo modello sociale, il suo diritto del lavoro".
Insomma, punire la Grecia per educare la Francia e l'Italia. I veri obiettivi.
Chiudendo l'accordo all'Eurogruppo e il recente piano di salvataggio, Tsipras ha eluso il programma elettorale di Salonicco deludendo le aspettative di quel popolo che si era schierato al referendum, col 63 per cento, contro un nuovo, ennesimo, memorandum. Ha dovuto ingoiare la cicuta e snaturare i suoi piani originari partendo da una fondamentale premessa: la maggioranza dei greci - sondaggi alla mano - vuole ancora rimanere nell'eurozona e nella moneta unica.
La sua partita è in chiave europeista, ad essa non vede vie di fuga, e adesso punta all'alleggerimento del debito e a politiche per tutelare i cittadini più deboli all'interno della cornice del memorandum. Cosa ardua. Quasi un'impresa. Ci riuscirà? Del sano riformismo sociale che si posizionerebbe sul crinale scivoloso lungo cui cercare di modificare da dentro l'Unione europea. Prospettiva che guarda alla possibilità di costruire un asse con altri Stati, in particolare con la Spagna di Podemos, l'Irlanda dello Sinn Fein e la Gran Bretagna di Corbyn. Si sarebbe persa una battaglia il 12 luglio, non la guerra.
Le divergenze in Syriza sono sul piano strategico. La minoranza di Panagiotis Lafazanis ha deciso di andarsene per fondare Unità Popolare pensando di rompere con l'Europa: "Non possiamo lasciare orfani i greci che non vogliono quest'Europa". La Grexit come piano B da giocarsi, mentre Tsipras avrebbe tradito il popolo ellenico. Una prospettiva no euro che guarda con simpatia al ritorno alla dracma.
Il vero tema - che interroga tutti noi - è quindi l'Europa e la sua capacità di modificarla dal suo interno o meno. Intanto si palesa, in Grecia, una terza fazione. Quella del segretario dimissionario del partito, Tasos Koronakis (così anche Varoufakis, per intenderci), che critica Tsipras ma non ha seguito la scissione di Lafazanis. Una visione europeista, ma più intransigente rispetto a quella di Tsipras.
E ora? Chi vincerà le elezioni? Proprio sull'Huffington Post, la direttrice Lucia Annunziata scriveva giustamente qualche giorno fa:
"Tsipras ha manovrato la leva elettorale con spericolatezza, sapienza, furbizia e cinismo. In pochi mesi ha vinto nelle urne con un programma di sfida all'Europa, poi ha fatto un referendum per avere dalla sua parte di nuovo i cittadini nel "no" alle condizioni poste dall'Europa, e oggi, dopo aver ottenuto un accordo con i creditori, va di nuovo alle urne per chiedere al popolo di esprimersi con lui o contro di lui. Una vera e propria partita a scacchi, una sorta di permanente guerra di posizione per via di ballottaggio. Su abilità e coraggio, nulla da dire".
Abilità e coraggio. Ma anche furbizia, decisionismo e strategia. Tsipras ha bruciato tutti sul tempo. Dando le dimissioni già in agosto, Lafazanis - seguito comunque da pezzi da 90 del partito come lo storico partigiano Manolis Glezos - è stato costretto ad anticipare i tempi della scissione. Neanche le forze contendenti (Neo Demokratia e Alba Dorata) sembrano pronte per una competizione elettorale, ancora alle prese con vicissitudini interne. Si voterà quasi certamente il 27 settembre, quel giorno dovrebbe essere rieletto Alexis Tsipras con l'Unità Popolare di Lafazanis - sostenuta da alcuni movimenti - data nei primi sondaggi tra il 5 e l'8 per cento.
Rivincerà Tsipras, un leader a cui i greci non vedono alternativa. Rivincerà Syriza, una Syriza 2.0, diversa da quella conosciuta finora. Perché la Syriza di "lotta e di governo" è durata soltanto 6 mesi al potere. Da gennaio a luglio. Ed è una sconfitta per tutti, che dovrebbe far riflettere. E una vittoria della Troika.
di Giacomo Russo Spena