atinel

atinel

Il Corriere Della Sera
24 08 2015

La fine dell’estate ha portato nuova volatilità sui mercati generata, sembra, da una parziale liberalizzazione del tasso di cambio in Cina, a sua volta indice di un rallentamento della crescita della sua economia. La domanda chiave di fine estate è se questa volatilità sia un fenomeno passeggero, legato in modo specifico alle vulnerabilità dei Paesi emergenti, o piuttosto riveli una incertezza piu radicata sulle prospettive dell’economia globale, Europa e Stati Uniti inclusi. La seconda ipotesi prende corpo da molte osservazioni.

La prima è che la ripresa Usa è meno solida di quanto non ci si aspettasse. Le previsioni di molti, incluse quelle di metà anno del congressional budget office , danno per il 2015 un tasso di crescita del Prodotto interno lordo del 2%, un punto in meno di quanto si ipotizzava a febbraio, e l’inflazione allo 0,2%, contro l’1,4% previsto sempre a febbraio. A questo si accompagna un prolungato rallentamento della produttività sia negli Stati Uniti che negli altri Paesi avanzati.

È difficile interpretare il significato di questi dati e anche la Federal Reserve sembra essere incerta nella lettura. Perché l’inflazione non riprende? Perché la produttività rallenta? È questo un fenomeno ciclico o indica invece un rallentamento di tendenza che si prolungherà nel futuro? Come si concilia questo rallentamento con la vivacità dell’innovazione tecnologica?

Dati deludenti, nonostante l’intervento massiccio delle Banche centrali, arrivano anche dal Giappone e dall’area dell’euro. L a Gran Bretagna va meglio ma anche qui, come negli Usa, una visione ottimista della ripresa è contraddetta dalla bassa produttività e da un’inflazione che continua ad essere vicina allo zero. Per questa ragione la Banca d’Inghilterra ha deciso che per ora non alzerà i tassi di interesse. Non è quindi da escludere che la volatilità di questi giorni indichi un’incertezza generale sull’economia globale che non è solo legata alla questione cinese.

Le previsioni dei mercati rivelano una grande diversità nelle opinioni dovuta, io penso, alla difficoltà di interpretare i dati e di capire l’entità del rischio che gli Stati Uniti entrino in una nuova recessione. L’economia Usa continua ad essere il motore dell’economia mondiale e fino a poco fa si pensava che la sua forza ci avrebbe difeso dai rischi provenienti dai Paesi emergenti. Ma se il gigante americano dovesse entrare in recessione quando gran parte del resto del mondo o è ancora debole, come nel caso dei Paesi avanzati, o è in deciso rallentamento, come in molti Paesi emergenti, ci si ritroverebbe ancora una volta, dopo il 2008, di fronte a una crisi globale. Questo avverrebbe inoltre in una situazione in cui i tassi di interesse in molti Paesi, inclusi area euro, Giappone, Stati Uniti, sono a zero o vicino allo zero. Il che costituisce un vincolo per la politica monetaria e costringerebbe le Banche centrali a estendere gli acquisti di titoli pubblici e privati o a introdurre tassi negativi, politiche i cui effetti sono molto incerti e che potrebbero comportare rischi per la stabilità finanziaria.

In una situazione di questo tipo dovrebbe essere prioritario affrontare i grandi temi della crescita, capire gli effetti dell’innovazione sulla distribuzione del reddito, pensare a politiche innovative, appropriate alle grandi trasformazioni dell’economia globale. È successo negli anni Trenta. Dopo la crisi del 2008, invece, l’iniziativa è stata lasciata quasi esclusivamente alle Banche centrali. La loro azione ha certamente evitato il peggio, ma ora non basta più. In assenza di politiche economiche di altro tipo non è difficile prevedere che i Paesi ricorreranno ad una guerra del cambio e a politiche protezionistiche. D’altro canto queste ultime sono sempre più presenti nei programmi elettorali di partiti politici di ogni colore e, per ragioni comprensibili, raccolgono crescenti consensi da parte dei cittadini sia in Europa che negli Usa.

Mai come oggi ci sarebbe bisogno di una rinascita politica e intellettuale che sappia affrontare i grandi temi, nazionali e globali, con una risposta adeguata, combattendo la frammentazione delle nostre società.

Etichettato sotto

Il Corriere Della Sera
24 08 2015

Incostituzionale il bilancio del Piemonte, il fenomeno potrebbe allargarsi con un buco fino a 20 miliardi. Per i governatori è impossibile rispettare il pareggio di bilancio

Un buco che può arrivare a venti miliardi di euro. Il piano straordinario per il rimborso dei debiti arretrati della pubblica amministrazione si risolve in una catastrofe per i bilanci regionali, che mette a rischio anche i conti pubblici dello Stato. Quasi tutte le Regioni hanno infatti usato quei soldi, 26 miliardi prestati dallo Stato tra il 2013 e il 2014 e vincolati al ripiano dei debiti, anche per finanziare nuova spesa corrente, in barba alle regole contabili. La Consulta, attivata dalla Corte dei Conti, a fine luglio ha dichiarato incostituzionale il bilancio di assestamento 2013 del Piemonte, e dopo questa sentenza rischiano la bocciatura della Corte dei Conti i bilanci di quasi tutte le altre Regioni, Lombardia esclusa.

La questione è delicatissima, ed è gestita direttamente dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dal Ragioniere Generale dello Stato, Daniele Franco. Si cerca una soluzione per limitare il più possibile i danni, ma è già chiaro che servirà una legge per sterilizzare almeno in parte l’impatto della sentenza. Non bastassero le altre enormi grane che stanno emergendo in quello che resta dell’Italia federalista. L’abolizione delle Province doveva portare forti risparmi già quest’anno, ma sempre secondo la Corte dei Conti alla fine sarà il governo a metterci soldi, e un paio di miliardi rischiano di non bastare. Tra i sindaci, poi, sta crescendo la protesta per l’annunciata soppressione delle tasse sulla prima casa, che finirà per erodere un altro pezzo della loro autonomia, mentre i governatori regionali non vogliono più sottostare al pareggio di bilancio impostogli già da quest’anno.

Tagli per 80 miliardi

Pessime avvisaglie alla vigilia della legge di Stabilità e della nuova manovra da 25 miliardi di euro. I Comuni e le Regioni hanno già detto a Renzi e Padoan che non accetteranno nuovi tagli. Le strette operate sul patto di Stabilità interno a partire dal 2008, nel 2015 pesano per 40 miliardi di euro sui conti degli enti territoriali. A questi bisogna aggiungere il taglio diretto dei trasferimenti, altri 22 miliardi, e la sforbiciata sulla sanità, per altri 17,5 miliardi. Un taglio di 80 miliardi rispetto a sette anni fa. Tanto forte che la Corte dei Conti ha messo sull’avviso il governo. Nell’ultimo rapporto sulla finanza locale esprime «interrogativi in ordine all’effettiva rispondenza tra gli oneri derivanti dalle funzioni attribuite agli enti e le risorse rese loro disponibili nel contesto del pareggio di bilancio», sottolinea «l’assenza di adeguati meccanismi distributivi e perequativi» e dubita della possibilità di fare altri risparmi nel settore.
La bocciatura
Il primo problema da risolvere, però, è quello del buco nei bilanci delle Regioni, clamoroso. «Una legge dello Stato nata per porre rimedio agli intollerabili ritardi nei pagamenti - scrive la Consulta nella sentenza sul bilancio del Piemonte - ha subito una singolare eterogenesi dei fini, i cui più sorprendenti esiti sono costituiti dalla mancata spendita delle anticipazioni di cassa, dall’allargamento oltre i limiti di legge della spesa di competenza, dall’alterazione del risultato di amministrazione, dalla mancata copertura del deficit». Un vero e proprio disastro. In molti casi le Regioni non solo hanno distratto i fondi vincolati ai rimborsi, ma li hanno usati anche per gonfiare la capacità di spesa, facendoli figurare come fossero mutui. E ora rischiano di trovarsi una voragine nei bilanci che va da un minimo di 9 a un massimo di oltre 20 miliardi di euro. Che lo coprano le Regioni con le tasse o tagli di spesa (impossibile senza una norma che permetta loro di spalmare il debito in più anni), oppure lo Stato con maggiori trasferimenti, il discorso non cambia: il buco dovrà essere chiuso, e a pagare saranno i cittadini.

Addio federalismo

Mentre incombe il pareggio di bilancio, lo Stato dei rapporti tra il centro e gli enti territoriali sembra giunto al punto più basso. Il federalismo, poi, è ormai soltanto un’idea sbiadita sullo sfondo. «C’è un ripensamento che non trova ancora una sua ben precisa connotazione» scrive la Corte dei Conti denunciando «il rischio non solo di nuovi squilibri economici, ma anche di un’endemica conflittualità tra i livelli territoriali di governo». Secondo Luca Antonini, presidente della Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale, di cui viene considerato il padre, quel disegno è già morto.

«Invece di coordinarla, lo Stato sta massacrando la finanza locale. È in atto - accusa - la destituzione della democrazia locale, con una deresponsabilizzazione dello Stato che non aggredisce la spesa centrale e scarica i tagli su Regioni e Comuni. Questo è lo smantellamento dello stato sociale, perché i tagli si fanno sulla sanità, l’assistenza, gli asili nido. E sugli investimenti, che tutti sollecitano per stimolare la crescita. Così - prosegue Antonini - gli enti locali sono costretti ad alzare le tasse, anche per garantire un gettito allo Stato, che si mangia ad esempio una buona parte dell’Imu, e nello stesso tempo a ridurre la spesa. E tutto questo senza che i cittadini abbiano la possibilità di capire di chi siano le vere responsabilità delle tasse più alte e dei servizi ridotti».

Etichettato sotto

Essere Sinistra.com
24 08 2015

[Prima di partecipare alla Festa della Rosa di Frangy-en-Bresse, Yanis Varoufakis concede una breve intervista al Journal du Dimanche – JDD. Ecco la traduzione dell’intervista di Cécile Amar]

Come interpreta le dimissioni di Alexis Tsipras?

Il 12 luglio, contro il mio parere e quello di molti altri membri del governo e del partito, Alexis Tsipras ha deciso di accettare le misure di austerità proposte dallEurogruppo nel vertice europeo. Che vanno in contrasto con tutta la filosofia di Syriza. La sua maggioranza si è ribellata. La sua conclusione è stata semplice: se vuole ripulire il partito, ha bisogno di nuove elezioni.

Lei sarà candidato?

No, non voglio essere un candidato a nome di Syriza. Syriza ora sta adottando la dottrina irrazionale alla cui mi sono opposto per cinque anni: estendere ulteriormente la crisi e sostenere che si è risolta, pur mantenendo un debito impagabile . Sono stato estromesso perché io stesso mi opponevo.

E’ proprio contro questa logica che avevo già rotto con Papandreou. Alexis Tsipras aveva scelto me perché gli si opponeva. Ora che ha accettato la logica che respingo, non posso essere candidato.

Al momento che questo piano è stato messo a punto, Hollande ha detto che la Grecia si sarebbe salvata. Aveva torto?

(Ride). Credo che Francois Hollande sia profondamente, sostanzialmente bloccato. Nicolas Sarkozy ha già detto nel 2010 che la Grecia è stata salvata. Nel 2012, la Grecia è stata salvata. E ora, siamo ancora salvi! Questa è una tecnica per nascondere la polvere sotto il tappeto facendo finta che non ci sia più. L’unica cosa fatta, il 12 luglio, è stato infliggere un grande schiaffo alla democrazia europea. La storia giudicherà severamente quello che è successo quel giorno e soprattutto i nostri leader che continuano questa farsa.

Perché dice che l’obiettivo dei creditori e di Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco, è in realtà la Francia?

La logica di Schäuble è semplice: la disciplina è imposta alle nazioni in deficit. La Grecia non è poi così importante. Il motivo per cui l’Eurogruppo, la troika, il Fondo monetario internazionale hanno speso così tanto tempo per imporre la propria volontà su una piccola nazione come la nostra, è che siamo un laboratorio di austerità. Ciò è stato sperimentato in Grecia, ma l’obiettivo è ovviamente quello di infliggerlo alla Francia, per il suo modello sociale, il suo diritto del lavoro.

“Nei vertici europei, la Francia non ha alcuna autorità”
Mentre era ministro, come si comportava la Francia?

All’interno dei vertici europei, in seno all’Eurogruppo, ho sentito che il governo francese non aveva alcuna autorità per difendere o addirittura presentare semplicemente il proprio punto di vista e perchè venga tenuto in conto nel processo di negoziazione. Sono cresciuto con l’Illuminismo, l’idea che anche la Francia è stato fondamentale nella creazione dell’Unione europea. Nell’avere tutto questo in mente, il silenzio dei francesi, sia di Michel Sapin all’interno dell’Eurogruppo, il fatto che una posizione diversa francese non è mai stata assunta ha provocato in me una grande tristezza.

Vuole lanciare un movimento europeo contro l’austerity?

A Frangy, lancerò una rete progressista europea. Nei giorni terribili della dittatura greca, i nostri genitori e nonni erano in Germania, Austria, Canada, Australia, per la solidarietà espressa verso la sofferenza greca. Non vengo in Francia per chiedere solidarietà alla Grecia. Ma i problemi che ha di fronte la Francia sono uguali come altrove. I francesi e i cittadini di altri paesi sono preoccupati per quello che ho da dire, perché sono preoccupati per lo stato della democrazia, l’economia, le prospettive future.

Se lei fosse il primo ministro in Grecia o Arnaud Montebourg fosse presidente della Repubblica in Francia, sarebbe davvero diverso?

Non è una questione di persone. Sono sicuro che ci sono persone valide nel governo francese e altrove. I cittadini devono riappropriarsi del cammino europeo. Se i tedeschi, i francesi, gli italiani, gli olandesi, gli spagnoli diventassero consapevoli della totale mancanza di responsabilità e opacità dei loro capi nei confronti dell’elettorato, si sarebbero già svegliati e chiederebbero che vada in modo diverso. Dobbiamo rilanciare il dialogo e ripristinare ciò che è stato perso completamente: la democrazia.

Etichettato sotto

Dinamo Press
24 08 2015

Spettacolo osceno, ma il migliore in assoluto di questa mediocre Estate Romana, di gran lunga più performativo delle meschine liturgie leopolde, il funerale Casamonica ha ridestato Ubik da un torpido letargo.

Le legge è legge, cazzo! Vale per i grandi come per i piccoli, negli eventi storici come nei dettagli.

Per esempio.

L’Ama, già regno di Panzironi, deve tenere le strade pulite no? Gli elicotteristi devono chiedere l’autorizzazione per “spargere sostanze sulla città”, nella fattispecie “petali di rose” (ahimè, ci eravamo illusi). Chiusura del sillogismo: sospensione della licenza per l’elicotterista sorvolatore ed elogio all’Ama che ha prontamente ripulito le strade del Tuscolano dagli sdrucciolevoli petali nonché dalle residue corone di fiori. Mancano solo provvedimenti contro i fornitori floreali e i musici della banda che hanno suonato ai funerali. Giustizia è fatta.

Ah, dimenticavo. Elogi anche ai vigili, che hanno garantito la fluidità del traffico lungo la via Tuscolana, costringendo il corteo tamarro a mantenere la destra. Ora potranno tornare ai loro più gravosi compiti istituzionali di sgombero delle abitazioni occupate e dei centri sociali. Auto in tripla fila, dehors di ristoranti straripanti e abusi edilizi? Non esageriamo.

Ministro, prefetto-commissario, questore e sindaco nulla sapevano. Nessuno li aveva preavvertiti (del resto si usa così anche per le rapine). Per il Giubileo stiamo tranquilli, l’Isis preavvisa con largo anticipo e ama i petali di rosa. Per le futuribili Olimpiadi meglio ancora, un viatico alle decisioni in corso sulla sede 2024.

Ri-dimenticavo (alzh). La società civile ha reagito. Orfini ha convocato un presidio permanente davanti alla chiesa di S. Giovanni Bosco, forte del sostegno locale dei circoli Pd di Tuscolano-Quadraro (definito “inerte” nella famosa relazione Barca) e addirittura di Cinecittà-v. Stilicone (ivi classificato fra i “dannosi”). Mafia, camorra e ‘ndrangheta tremano. Figuriamoci i cavallari Casamonica.

Ok, esaurita l’indignazione episodica e prendendo atto che l’aspetto principale del clamore mediatico rientra ormai di diritto nella campagna renziana contro Marino e nelle squallide manovre per tenere sotto botta Alfano come pedina di scambio per una maggioranza al Senato con i berlusconiani, vediamo che peso dare al nostro episodio. Come dire? Spendiamo meglio la nostra legittima indignazione.

Quei funerali, remake fra Kusturica e Coppola, sono l’apoteosi di un clan di peso ma non dominante nella mafia romana, di una struttura di cravattari e spacciatori che approfittano della strozzatura del credito bancario e delle follie del proibizionismo, della logica del neo-liberismo e delle sue perversioni repressive compensatrici. Riprendiamo la foto ormai famosa della cena del 2010. Luciano Casamonica, il più plausibile leader del clan, se ne sta seduto in un tavolino a parte, con una felpa alla Salvini, mentre in primo piano abbiamo tutti i dirigenti comunali dell’èra Alemanno (immortalato in un altro selfie con Lucianone), Buzzi e –guarda guarda– il ministro Poletti, allora “soltanto” presidente della Legacoop.

Il Casamonica junior era (cfr. interrogatorio Buzzi) un buttafuori assunto come kapò per mantenere l’ordine nei campi rom. Chi mungeva alla grande la vacca Roma erano altri, poi passati pacificamente nell’amministrazione Marino (tranne il troppo compromesso Panzironi). E se, invece di fare del moralismo, facessimo critica politica, dovremmo passare dal kitsch alla rabbia con l’ineffabile Poletti, sgusciato dalle maglie di mafia capitale solo per ricomparire come alfiere dell’austerità con il JobsAct e adesso impegnato nella demolizione del sindacato e del diritto di sciopero.

Tanto per restare ai protagonisti di quell’ineffabile foto ricordo, è più criminale suonare colonne sonore allusive a un funerale sinti-mafioso o escludere i sindacati di base dalle trattative? È più criminale esporre gigantografie simil-papali di un boss sulla facciata di una parrocchia connivente o richiedere un referendum per indire uno sciopero? E più criticabile l’ossequioso dispiegamento funerario dei vigili di Roma capitale (o mafia capitale) o il loro impiego nello sgombero dei campi rom e della baraccopoli di asilanti a Ponte Mammolo?

L’autunno di Renzi e Poletti ci riserverà sorprese ben peggiori e, per dirla con Totò (la cui sfarzosa carrozza funebre è stata indegnamente riutilizzata), “distinte esequie”.

Etichettato sotto

Dinamo Press
24 08 2015

Al confine tra Grecia e Macedonia fitto lancio di lacrimogeni e granate assordanti sui migranti in fuga da Siria, Iraq e Afghanistan. Le barriere di filo spinato sono state sfondate e in molti hanno aggirato il cordone delle forze di polizia

In questo momento, tra il villaggio greco di Idomeni e la città macedone di Gevgelija, migliaia di migranti stanno cercando di forzare il blocco delle forze dell’ordine che gli impedisce di entrare in Macedonia. Queste persone, di cui la maggior parte provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan, sono da giorni ammassate al confine che separa i due Stati, in attesa di poter passare e arrivare poi, tramite la Serbia, in Ungheria e quindi nell’Unione Europea.

Tra loro e la Macedonia li separa un fitto cordone di forze dell’ordine: appena i migranti chiedono a gran voce di poter passare e raggiungere il Nord Europa – “Non vogliamo stare in Macedonia, fateci andare via”, ripete stremato un signore a cui nessuno darà ascolto – la polizia carica con i manganelli, usa le granate stordenti, lancia lacrimogeni in mezzo alla folla. Non importa se quelle davanti a loro sono persone, non importa se ci sono donne incinte, persone anziane, bambini di pochi mesi: l’unica cosa che conta è rimandare indietro quella massa informe vista solo come un enorme problema.

A chi si trova in questo momento tra Grecia e Macedonia, non è riconosciuta nemmeno un briciolo di quella dignità di cui si parla nella Dichiarazione universale dei diritti umani in cui, almeno teoricamente, si riconosce l’Unione Europea. Chi si trova in questo momento tra Grecia e Macedonia non è visto nemmeno come persona, ma solo come un problema, un fastidio da mandare indietro.

La paranoia degli stati è arrivata a un punto tale che l’Ungheria, primo paese europeo raggiungibile attraverso la rotta dei Balcani, sta costruendo un muro al confine con la Serbia per impedire ai migranti di entrare nel proprio paese. In realtà, l’Ungheria non è il primo Stato membro dell’Unione che sta iniziando a delimitare i propri confini: pure la Bulgaria sta costruendo un muro al confine con la Turchia, così come l’ha già costruito la Grecia durante il governo Papandreou nel 2011.

La risposta a guerra, morte e disperazione data dagli Stati europei è quella dei muri e dei respingimenti: le popolazioni e i governi si strappano i capelli e fanno la voce grossa di fronte alla minaccia dell’Is ma intanto lasciano morire le sue vittime. Quest’ultime sono da compatire finché sono lontane dagli occhi e compaiono solo in qualche video sul giornale, ma sono da odiare, uccidere e respingere qualora si azzardino a cercare riparo all’interno della civile Europa.

Attualmente tra Idomeni e Gevgelija molti dei migranti sono riusciti a forzare il blocco e sembra che ne siano passati attualmente duemila. La polizia ha risposto con un fitto lancio di lacrimogeni e granate assordanti, provocando il panico tra tutti quanti: molti sono i bambini che si sono persi nella confusione e che non riescono a ritrovare i loro genitori. Tanti sono rimasti feriti duranti gli scontri e nemmeno un dottore è andato a controllare le condizioni di chi si è fatto o si è sentito male. È in corso un’emergenza umanitaria e agli Stati – nessuno escluso – non importa nulla. O meglio, importa: ma solo finché non tocca i propri preziosissimi confini.

di Natascia Grbic

Etichettato sotto

facebook