×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 415

"Morti in sala parto" e salute riproduttiva

  • Giovedì, 07 Gennaio 2016 08:10 ,
  • Pubblicato in ZeroViolenza
Klimt, NascitaAnna Pompili, Zeroviolenza
7 gennaio 2016

Si torna a parlare di sicurezza in sala parto, dopo le morti degli ultimi giorni. Come sempre quando si parla di salute riproduttiva, i toni si sono fatti subito accesi,

Partorire in Italia, che avventura

  • Giovedì, 09 Luglio 2015 10:09 ,
  • Pubblicato in L'ESPRESSO

l'Espresso
09 07 2015

Dopo, quando si torna a casa e negli anni che seguono, il parto diventa 'il racconto dei racconti': c'è chi minimizza, chi senza saperlo passa alle amiche, future madri, qualche pillola di saggezza, chi infine, talvolta senza rendersene conto e talvolta invece con totale consapevolezza, ha vissuto un ordinario caso di malasanità. Una pluralità di voci su un evento che è al tempo stesso intimo e 'pubblico', ovvero rilevante per tutto il corpo sociale in un Paese che, lo dicono le statistiche più recenti, è in pieno crollo demografico e registra il tasso più basso di natalità dai tempi della prima guerra mondiale. Su questa pluralità di voci e dalle statistiche sanitarie sui parti, i tagli cesarei regione per regione e in generale sulla maternità ospedalizzata Rossana Campisi ha costruito il suo 'Partorirai con dolore' (Rizzoli, pp. 235, euro 14).

Senza la distanza del saggio 'classico', senza giudizi dall'alto ma inanellando pagina dopo pagina i racconti di molte madri, ognuna delle quali racconta un'esperienza diversa, Campisi fa un panorama di cosa significa diventare madri in Italia: nelle città del Nord e in quelle del Sud, nelle cliniche private e negli ospedali pubblici, ma anche in casa. Le storie sono le più diverse: da chi, spinta da madre suocera e ginecologa si è fatta chiudere le tube dopo il terzo parto e si è depressa, a chi ha rischiato la vita per un antibiotico non somministrato, a chi ha rifiutato l'epidurale perché era orgogliosa di quel 'dolore' unico del parto. Qui vi proponiamo alcuni brani del libro. Che, se non dà ricette, offre però una strada a chi sta per diventare madre: affrontare la maternità sentendosi padrone di se stesse e del proprio corpo, saperlo ascoltare, non aver paura di chiedere. Perché lo sviluppo di un Paese passa dalla cura che ha dei suoi figli e delle sue madri. E in molti luoghi d'Italia, e in molte menti, il rispetto per la maternità è solo una frase vuota.

Amalia, che si è salvata
Amalia Adocchio ha mollato tutto per mettere su famiglia, ai tempi. Ha lasciato il lavoro, ovvio. Adesso fa cure ormonali da cinque anni perché vuole essere mamma per la terza volta. Sembra aver dimenticato tutto del suo ultimo parto. E tutto significa paura e dolore. Una soluzione però sembra che non ci sia: ha un utero completamente assottigliato per via dei raschiamenti che ha subìto. Ma Amalia non la fermi. Per entrambi i parti ha scelto l’ospedale Buzzi di Milano, dove lavorava il suo ginecologo e dove la cugina si era trovata bene: un classico. Ha pagato ogni trenta giorni una visita ginecologica perché il medico le diceva: «Ci vediamo tra un mese». «Il primo è stato indotto, ricordo una violenza e un dolore ingestibili, anche perché mica lo conosci quel dolore. In due ore è nata Ludovica, poi mi hanno fatto l’anestesia totale per fare il raschiamento ed espellere la placenta. Per il secondo parto, il mio medico aveva sottovalutato questa mancata espulsione. Era domenica. Il mio ginecologo non c’era. Quello di turno neanche. Ne chiamano uno dal pronto soccorso che manda via mio marito, mi fa l’anestesia e usa di nuovo l’ossitocina. Con la tecnica del “secondamento manuale” ha tirato via la placenta. Senza fare l’ecografia, cioè fidandosi della sua mano. Peccato che la placenta tirata fuori non era integra. Nella cartella Donne in seconda linea 205 scrive “parzialmente integra”. Non cerca di togliere il resto, ma chiude e via. Siamo in sala parto, tutt’altro che sterile; il reparto di Terapia intensiva per la donna è in ristrutturazione. Non mi prescrive nessun antibiotico. Sembravamo accampati. Resto una notte lì dentro. Arriva la setticemia. La febbre a 41 che scambiano per montata lattea. Poi altri due raschiamenti. Nell’ultimo mi sveglio, sento la gente che urla. L’utero si era rotto a furia di raschiare e c’era un’emorragia in corso. Chiedo all’anestesista e mi dice: “Le stiamo salvando la vita”. Coperta termica, cinque sacche di sangue. Mi salvo.»

Costanza, un trauma per la vita
«Sono rimasta incinta senza programmare nulla. Una gravidanza perfetta. Verso la fine, sono arrivate le domande degli altri. “Dove vai a partorire?” Io rispondevo: “Vicino a casa mia, perché?”. Ho scelto il S. Maria alla Gruccia di Montevarchi, in provincia di Arezzo. Sapevo che non facevano l’anestesia perché l’anestesista non è disponibile h24. Stavo così bene che la cosa non mi turbava. Potevo partorire nel bosco. L’ho fatto invece in un ospedale dopo venti ore di travaglio e di abbandono totale in un letto. Ho urlato tantissimo. Alla fine avevo accanto solo il mio compagno e l’ostetrica che diceva: “Spingi!”. Non ho mai ricevuto una puntura di ossitocina, né un farmaco, solo una flebo con soluzione di glucosio perché a un certo punto sono svenuta. Ho visto il medico solo al mattino, alle quattro del pomeriggio mi ha visitato e mi ha salutato così: “Ehm, un po’ lenta!”. Per accelerare la dilatazione sono andata in una vasca di acqua calda che, dopo poco, è diventata rossa. Color sangue. Se chiedi di non voler partorire naturalmente ti guardano malissimo, ti dicono che puoi danneggiare il bambino, che è un controsenso voler fare l’epidurale e poi voler allattare. Era come se mi lamentassi del freddo nel freddo o del caldo nel caldo. La bambina che stava per nascere era sana e quindi non aveva senso che protestassi. Io ero poco informata su tutto, lo ammetto. Ma non potevo credere che fosse quella l’unica strada. Che senso ha che al corso preparto ti parlino di come la coppia dovrà accogliere un figlio senza però darti alcuna informazione medica per affrontare come donna quel momento con consapevolezza? L’unico messaggio che passa è: devi accettare tutto ciò che accade, tranquilla che non farà male. Io, a un certo punto, mi sono sentita morire. Mi aggrappavo a tutto. Gridavo aiuto. Le ostetriche passavano, si accertavano che fossi in travaglio, e se ne andavano. Il cesareo me lo avrebbero fatto solo se avessi rischiato davvero la vita. Un dolore così non penso di poterlo sopportare mai più in vita mia.

Isabella, la mamma controcorrente
Alcune mamme però vanno spedite. Seguono il buon senso, vanno controcorrente. Come Isabella. «Non mangiare prosciutto e verdure crude non è un luogo comune, ma una semplice pratica di prevenzione che ho seguito anche io. Giusto il minimo indispensabile, sia chiaro. Per il resto, non ho mai comprato omogeneizzati né omogeneizzatori. Mai liquidi per disinfettare, basta l’acqua bollente; né detergenti specifici, meglio il vecchio caro sapone di casa; né prodotti supercontrollati, i cibi per lo svezzamento venivano dall’orto o dal verduraio bio. Il mio bambino non ha mai avuto allergie o altri problemi. I vaccini li ho fatti fare, ma adesso che ho approfondito la cosa mi chiedo se ho fatto bene. Un bambino puoi crescerlo con poco. Anche senza cadere nella trappola del business. Io vivevo in quarantasei metri quadri a Milano quando è nato Filippo, e non ho comprato né fasciatoio né seggiolone né vaschetta per il bagno né ovetto né sdraio né palestrina. Niente di niente. Un anno passa in fretta e i bambini si stancano di tutto quello che gli proponi. Ce la siamo cavata con pochissimo. Abbiamo riciclato i vestiti dei cuginetti e degli amici. Piuttosto che comprare tanta biancheria, facevo qualche lavatrice in più. Persino il piumone l’ho ricavato da una vecchia trapunta piegata in due. Se vuoi puoi spendere zero per crescere un bambino. È semplice buon senso. Quei soldi
ti serviranno di più quando crescerà.»

Acqua, cannella e una matrona: è solo un’isola (spagnola)
Rosanna Limatola ha trentacinque anni e origini ternane. Da dieci vive a La Palma, un’isola dell’arcipelago delle Canarie, dove lavora in un’azienda ed è mamma di Edoardo e Agata. Il capitolo “parto” non le risveglia alcun brutto ricordo. Anzi. Ogni mese delle sue gravidanze ha fatto i controlli di pressione, peso e battito cardiaco del bambino. Tutto gratuito. Tutto sempre con una matrona, un’infermiera specializzata. Altro che medico. Se è uomo si chiama matron. Il nono mese si fa il corso preparto al Centro di salute a cui ogni donna appartiene, e qui trova medico di base, pediatra e la matrona che poi la seguirà in sala parto. Epidurale? No, grazie. Ma non per scelta, solo per consuetudine. «A pensarci oggi, è stato meraviglioso» dice. «Per come ce la presentano, l’analgesia sembra uno svantaggio. Non puoi spingere, e facilitare quindi l’espulsione, si deve ricorrere magari all’uso del forcipe o della ventosa. Sono due paroline magiche. Quando le senti, trovi la forza all’improvviso. Ma poi qui l’epidurale è arrivata nel 2011. Oggi la sceglie solo il 16% delle mamme. Non è neanche facile averla, perché deve essere presente il personale che la sappia fare. Ai corsi preparto te la vendono così: il parto è l’unico dolore col premio finale. Ma poi fanno di tutto per aiutarti. Ricordo che poco prima di iniettarmi l’ossitocina, la matrona è entrata in sala parto con un bambino appena nato e mi ha detto: “Proverai dolore, ma tra poco avrai lui tra le braccia”. Ho rinunciato all’ossitocina e ce l’ho fatta da sola. Lei non mi conosceva, ma sapeva che con quella tecnica ottiene da tutte quel che vuole. Ancora adesso, il solo ricordo mi emoziona.

I brani sono tratti da 'Partorirai con dolore' di Rossana Campisi (Rizzoli)

Lara Crinò

La 27 Ora
15 05 2015

Fattori culturali? In parte sì. Talvolta anche una scarsa consapevolezza. E questo, forse, è l’aspetto che colpisce di più. Ma non l’unico. Dietro alla mappa disegnata da Eurostat sull’età delle primipare nei 28 Paesi dell’Unione europea si disegna in filigrana una realtà complessa che tiene insieme economia e politiche sociali.

Partiamo dai numeri. La maggioranza delle donne europee (il 51,2%) partorisce il primo figlio in un’età compresa tra i 20 e i 29 anni, la media è di 28 anni e sette mesi. In Italia le mamme in questa fascia sono solo il 38%, la nostra età media è infatti di 30 anni e sei mesi. Siamo invece il Paese in Europa con il tasso più elevato di donne che fanno il primo figlio dopo i quarant’anni: 6,1%, contro una media europea del 2,8%. La maggioranza delle italiane, il 54,1%, partorisce per la prima volta tra i 30 e i 39 anni, contro una media Ue del 40,6%. Più numerose di noi in questa fascia di età sono solo le spagnole: sei su dieci. Nel gruppo delle mamme «ritardatarie» ci sono anche l’ Irlanda (52,7%) e la Grecia (51,9%). Sono gli stessi Paesi in cima alla classifica delle mamme ultraquarantenni, oltre a essere quelli che hanno sofferto di più negli ultimi anni per la crisi economica.

Nella Vecchia Europa si distinguono la Francia, dove sei giovani su dieci partoriscono tra i 20 e i 29 anni e la Germania, dove il rapporto è 5 su dieci. Si difendono bene anche i Paesi del Nord Europa, ma il primato delle mamme giovani va ai Paesi dell’Est Europa.

Dare la colpa alla crisi sarebbe la scusa più facile, in realtà «ormai da parecchi anni l’età media delle donne che affrontano la prima gravidanza è più elevata rispetto al passato e le cause sono molteplici, incluse quelle congiunturali. Uno degli impatti della crisi economica in Italia è stato quello di spingere a posticipare la decisione di avere figli in attesa di una condizione lavorativa meno precaria», osserva Alessandra Casarico, docente di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi ed esperta di temi di economia di genere. «Ma il problema è più ampio — prosegue — e coinvolge oltre alla partecipazione femminile al mondo del lavoro (c’è una correlazione tra bassa fecondità e bassa occupazione femminile) anche lo sviluppo dei servizi a sostegno della maternità. E poi c’è quello che i demografi identificano come una rigidità tipicamente italiana nella programmazione dei figli».

Lo spiega bene Giampiero Dalla Zuanna, professore di Demografia dell’Università di Padova: «Ci sono due tendenze che si sovrappongono. Da un lato la maternità tardiva è un fenomeno tipico dell’Occidente, dove donne e uomini accostano a quello della maternità/paternità anche altri desideri come realizzarsi nel lavoro e avere più tempo libero. È una fase della modernità come era stato per i babyboomer abbassare l’età in cui avere il primo figlio. Dall’altro lato, i Paesi della sponda sud del Mediterraneo così come il Giappone e la Corea del Sud, sono caratterizzati da legami di sangue molto forti e accomunati dalla tradizione culturale di attribuire una grande importanza ai figli. Questo impone condizioni indispensabili più stringenti per mettere al mondo un figlio: creazione di una famiglia, acquisto della casa, lavoro sicuro, tutti elementi che portano a posticipare la decisione. È difficile da noi vedere una studentessa-madre, nei Paesi del Nord non è così». In più, osserva Dalla Zuanna c’è l’aspetto sociale: «In questi Paesi il figlio viene considerato come un bene privato e lo Stato investe poco sui bambini e sulle politiche di conciliazione. Basti pensare che in Italia un terzo dei bambini fino ai tre anni è affidato ai nonni». E in effetti, osserva Casarico, «nel nostro Paese la spesa pubblica per la famiglia è pari a circa l’1,4% del Pil», contro al 5% della Francia, dove il numero di figli per donna è di 2 dal 1973 mentre l’Italia è scesa a 1,42.

«Certo la crisi economica ha reso più difficile avere figli — conclude Dalla Zuanna —. Ma il rinviare ha conseguenze molto più pesanti di quanto si creda, perché non è detto che poi a 40 anni le coppie che programmano un figlio riescano ad averlo. E infatti sono aumentate le richieste di adozioni in età tardiva. Talvolta la scelta di aspettare nasce da un’informazione non adeguata e si sottovaluta che la fertilità dopo i 30 anni diminuisce. È bene pensarci».

Francesca Basso

Luoghi dove venire al mondo è più rischioso

  • Lunedì, 16 Febbraio 2015 15:23 ,
  • Pubblicato in Flash news

Lipperatura
16 02 2015

Laddove si impatta con la fragilità della parola scritta. Da “Di mamma ce n’è più d’una”, due anni prima della morte di Nicole Di Pietro a Catania.

“In Italia la mortalità per parto è alta. Nel giugno 2012, l’Istituto superiore di Sanità studia cinque regioni, rappresentative del 32% delle donne italiane in età fertile, usando le schede di dimissione ospedaliere e scoprendo che il valore non è più di 4 morti ogni 100mila nati vivi, ma di 11,8, il 63% in più, contro una media dell’Europa occidentale di 7-8. Lo studio, condotto dal Reparto salute della donna e dell’età evolutiva del Cnesps-Iss, ha raccolto i dati dal 2000 al 2007 di Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia. Tra il 2000 e il 2007 in queste Regioni sono stati registrati 1.001.292 nati vivi e 260 morti materne con un’età media di 33 anni. La mortalità materna è 3 volte più alta in Sicilia (24,1) rispetto a Toscana ed Emilia Romagna (7,6), ma influiscono anche fattori come l’età e il taglio cesareo. Per le donne con gravidanza oltre i 35 anni il pericolo di morire è doppio, mentre è triplo per chi fa il taglio cesareo. Anche il basso livello di istruzione e la cittadinanza straniera sono associati a un maggior rischio di mortalità.
Andando a leggere il rapporto 2011 Osservatorio civico sul federalismo in sanità, si trovano conferme e si scopre quel che è già noto per molti altri aspetti della vita sociale. Che il sistema sanitario funziona in modo estremamente diseguale e che, in altre parole, esistono due Italie. Quella delle madri del Nord con la fascia marsupiale ecologica. E quella delle madri del Sud, che muoiono di parto sette volte più che nel resto del paese e dove la mortalità nei primi mesi di vita è del 40% superiore alla media nazionale.

Già nel 2009, nel rapporto Osservasalute, si nota che se il tasso nazionale di mortalità nel primo mese di vita è basso (il 2,5 per mille nati vivi), le differenze tra Nord e Sud sono notevolissime: si va dai valori minimi di Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Toscana (1,8, 1,8 e 2,2) a quelli di Campania e Calabria, dove si schizza a 3.1 e 3,7. Nel 2010 il tasso scende ancora: la mortalità infantile è del 3,3 per mille, quella neonatale del 2,4 per mille (è il 5,3% in Gran Bretagna, 6,7% negli USA).

Nel rapporto 2010, curato dall’’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, le cose si fanno più chiare. Se andiamo a esaminare la Sicilia, si nota che i punti nascita sono per lo più presenti in case di cura private accreditate. I cesarei sono stati il 53,27% (a Palermo il 58). La mortalità neonatale è più alta che nel resto del paese: 3 casi per 1.000 nati vivi (valore medio italiano 2,4, ricordate).

La Sicilia, peraltro, registra uno dei casi mediatici più noti degli ultimi anni: nell’agosto di quello stesso 2010 due medici vengono alle mani in sala parto a Messina, causando un ritardo nell’intervento che finisce col portare gravi conseguenze a madre e figlio. Sempre a Messina, poche settimane dopo, il primario si rifiuta di far nascere un bambino di oltre quattro chili col cesareo. Undici ore di travaglio per la madre e tre ischemie per il neonato. Per molti, è l’effetto della circolare dell’assessore Massimo Russo che invita ad abbattere del 20% il numero dei cesarei dopo la diffusione dei dati sull’eccesso di interventi chirurgici in Sicilia. “Eravamo tutti d’ accordo per il taglio cesareo- ha raccontato la madre del bambino - e proprio nessuno aveva pensato al parto naturale. Del resto le dimensioni del bambino lo sconsigliavano assolutamente. Non capisco perché l’ unico ad insistere sia stato il primario Abate. Pensi che tutti i suoi colleghi erano favorevoli al cesareo ma quando lui lo ha vietato non hanno potuto far niente. Il primario addirittura ha tolto di mano a mio marito i moduli con i quali ci assumevamo la responsabilità di far praticare il cesareo”.

In Sicilia i bambini finiscono spesso in cronaca: nel reparto di Ostetricia di Partinico sono morti otto neonati in due anni; a Catania, all’ospedale Santo Bambino, due neonati nello stesso giorno, un giorno di settembre del 2009. In cifre, e di nuovo: contro una media nazionale (e dunque non su sole cinque regioni) di tre donne morte ogni 100 mila bambini nati, quella siciliana è di 22. Fra i motivi più importanti l’ età della donna, superiore ai 35 anni, il taglio cesareo che è associato a una morte materna tre volte più che nel parto naturale, emorragie, trombo-embolie. Inoltre. In tre mesi, sempre nel 2010, sono arrivate le denunce di sette donne che hanno perso i figli al momento del parto, soprattutto in piccoli reparti. Perché il problema della Sicilia è che sono molti i punti nascita con meno di 500 parti l’anno, collocati spesso in sedi disagiate e con poco personale. Nelle cliniche private convenzionate con la Regione, infine, il dato sui cesarei è altissimo: l’81,9% dei casi nel 2009, mentre nelle strutture pubbliche si scende al 45,5.

Ma nel resto del Meridione non va meglio. Mentre, al Nord, il virtuosissimo Friuli presenta la miglior percentuale italiana con il 23,64 dei cesarei, i medesimi sono il 48,15% in Calabria, con il peggior tasso di mortalità infantile: 5,1 casi per 1.000 nati vivi, mentre la mortalità neonatale è di 4,9, anche qui il peggior dato a pari demerito con l’Abruzzo. Ancora. I cesarei sono il 50,18% in Puglia (a Foggia, nel gennaio 2010, due bambini, Giorgia e Samuele, muoiono a poche ore dal parto. Forse per setticemia). Sono il 47,76% in Molise, il 48,8% in Basilicata. Per i cesarei, il primato va alla Campania: il 61,96% , e anche in questo caso la mortalità infantile e neonatale è superiore alla media nazionale. Anche qui c’è un motivo: nella regione esistono 82 punti nascita, tra pubblici e privati, di cui 24 con meno di 500 parti l’ anno, centri troppo piccoli che non possono fornire le cure necessarie a madre e figlio. La conseguenza è che, nel 2009, 1690 neonati hanno dovuto essere trasportati in altre province e talvolta anche in altre regioni. Il 9 maggio 2010 una madre di 37 anni, con taglio cesareo programmato, è protagonista di una tragedia dell’assurdo: il piccolo nasce agli Incurabili. Parametri negativi, rianimazione. Dopo dieci minuti viene intubato. Arrivano i medici della Terapia intensiva neonatale con l’incubatrice portatile. La mettono in ascensore. L’ascensore si rompe. Salgono a piedi mentre i tecnici cercano di riparare il guasto. Si perdono quindici minuti. Altri trenta per le operazioni di preparazione. Il neonato muore due ore dopo il trasferimento al Monaldi.

Le prime ore di vita sono determinanti: coloro che hanno avuto un figlio o una figlia nati dopo un parto difficoltoso, o prematuro, lo sanno. Conoscono ogni variazione dei monitor, soppesano il tono di voce e lo sguardo anche del neonatologo più allenato a mentire: ventiquattro ore, quarantotto, l’importante è che il tempo passi, l’importante è mettere minuti, poi ore, poi giorni fra quella nascita così sottile, così fragile, e il futuro, l’importante è guadagnare possibilità di vita. I dati Istat del 2008 dicono che un terzo dei duemila bambini che non superano l’anno di vita muore nel giro di un giorno, e il 40% entro un mese. Dunque, i bambini del Sud hanno più possibilità di non farcela solo perché nascono nel luogo sbagliato, dove i punti nascita non sono attrezzati e dove si ricorre a quei trasferimenti che costituiscono un momento di enorme criticità. In Campania la percentuale di mortalità per i bimbi sottopeso è del 21 per cento, in Friuli è del 12 e nel Nord Italia del 14.

Inoltre, nella stessa Campania dove i trasferimenti si rendono indispensabili, le madri sanno di non poter contare sull’assistenza sanitaria: oltre il 60 per cento delle donne si rivolge a un ginecologo privato e solo l’11 frequenta un consultorio pubblico. Non solo: per fare esami di laboratorio o ecografie, le partorienti campane si rivolgono a un centro pubblico nella misura del 40,1 per cento contro il 70,9 a livello nazionale (l’88,7 in Toscana). In altre parole, dall’inizio della gravidanza al parto, la quota di spesa sanitaria che in Campania finisce in mano ai privati è dell’85-90 per cento del totale”.

Il paese dei cesarei

  • Giovedì, 29 Gennaio 2015 17:08 ,
  • Pubblicato in INGENERE

Gina Pavone, Ingenere.it
28 gennaio 2015

Si nasce grazie al bisturi, da noi molto più che altrove, e in particolare al sud. L'Italia continua a essere il paese dei parti cesarei, con una percentuale che supera di gran lunga la media europea, ma anche quella di Usa e Canada. Secondo i dati appena pubblicati dall'Istat nel report "Gravidanza, parto e allattamento al seno", la percentuale italiana dei cesarei è pari al 36,3% nel 2013,

facebook

 

Zeroviolenza è un progetto di informazione indipendente che legge le dinamiche sociali ed economiche attraverso la relazione tra uomini e donne e tra generazioni differenti.

leggi di più

 Creative Commons // Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Gli articoli contenuti in questo sito, qualora non diversamente specificato, sono sotto la licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0)