×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 415

Dipendenza InternetMaria Elena Vincenzi, La Repubblica
30 ottobre 2015

"Sicuramente c'è un problema per quanto riguarda l`uso di internet e dei social network. Ma questo caso va collocato all`interno di una situazione molto difficile e conflittuale perché di per sé il social network non determina queste situazioni. ...

Facebook: libero pensiero in libero business?

  • Martedì, 27 Ottobre 2015 13:51 ,
  • Pubblicato in Flash news

Cronache di ordinario razzismo
27 10 2015

In Italia, la questione della eccessiva “tolleranza” di Facebook verso i razzisti è da tempo un leitmotif ricorrente. Per i vertici di Facebook far rimuovere i commenti razzisti è un procedimento molto “complesso” e macchinoso, benché nel suo “statuto”, lo stesso Facebook affermi di non ammettere i contenuti che incitano all’odio e ripudi “la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia”. A tal proposito, esiste un’apposita “finestra” che consente agli utenti di segnalare i commenti e i post di questa natura. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, essi restano visibili e non vengono rimossi. Questa è una querelle che ha ragioni molto profonde, legate ad un’idea molto ampia (e forse distorta?) del concetto di “libertà di manifestazione del pensiero”, che arriva ad includere anche le affermazioni più violente o addirittura false.

E mentre in Germania fa notizia la denuncia da parte di un avvocato nei confronti del gestore di Facebook (nelle persone dei manager della società che gestisce il social network in Germania) per non aver cancellato una sessantina di post e di pagine contenenti messaggi di odio e di violenza razzista, in Italia si parla del post xenofobo di una giovane commessa nei confronti dei cittadini rumeni. Michela Bartolotta, giovane veneta che nell’agosto 2012 arrivò alle finali di Miss Muretto ad Alassio, lavora in un negozio del centro Padova, nella zona delle Piazze. Nel luglio del 2014, appena diciottenne, ha un battibecco con un cliente rumeno che lei definisce “arrogante”.

Poi si sfoga su Facebook: “Io e il popolo rumeno non andremo mai d’accordo: puttane senza pudore, badanti represse ed altri elementi maleodoranti privi di civiltà e di educazione. Prima o poi vi stermino”. La ragazza, nonostante le scuse ed un pubblico pentimento (a nulla sono valsi i gesti di apertura del padre della ragazza e del gestore del centro di telefonia dove Michela lavora), viene accusata e denunciata per “discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” da parte di Ion Leontin Cojocea, presidente del Centro di Assistenza e Servizi dei Cittadini Romeni in Italia. La Giustizia fa il suo corso e sulla giovane pendono oggi pesanti accuse. «Le ingiurie attribuite alle donne offendono, con solo tre parole, la dignità, l’onore e la reputazione di tutta la componente femminile dell’associazione e dell’intera comunità romena» spiega Cojcocea.

Sui social, oramai, è possibile esprimere sentimenti che, tuttavia, spingono a volte azioni inconsulte ed ai limiti (ed oltre) dell’odio e della violenza razzista, come ad esempio la legittimazione a possedere un’arma per “farsi giustizia da soli” (emblematico, in tal senso, lo “show” del leghista Buonanno andato in onda qualche giorno fa su Sky TG 24) o, appunto, la pubblicazione di post pesantemente offensivi e stigmatizzanti contro un’intera popolazione (quella rumena in questo caso).

Ma l’indagine aperta ad Amburgo potrebbe segnare una svolta in Europa per il fatto stesso di aver coinvolto per la prima volta le altre cariche dei social network, tralasciando i singoli autori dei post. Si sale di livello quindi.

E la cosa non sarebbe male, se venisse fatta anche in Italia, al fine di creare un’azione condivisa e simultanea che obblighi i social ad agire una volta per tutte. E dall’alto. L’hate speech, come abbiamo ribadito più volte, necessita di regole chiare e valide a livello europeo. Non ci si può fermare al singolo post segnalato. E l’ultima frontiera, che si è aperta di recente, è quella che insinua il sospetto che all’origine di questa sorta di “lassismo” e di laisser-faire nei confronti di post violenti, carichi di odio e alle volte anche bugiardi, non ci sia solo un’idea molto ampia (e ambigua) di libero pensiero, ma piuttosto un’idea che i discorsi d’odio vengano “tollerati” perché “producono” visualizzazioni, like, condivisioni. Ovvero, business virale.

La Stampa
18 09 2015

In una foto era chiuso in un bidone, contro la sua volontà. In un’altra aveva in testa un sacchetto dell’immondizia. Ridevano di lui, quelli che dicevano di essere suoi amici. Poi lo fotografavano con il cellulare e pubblicavano gli scatti su Facebook. Crudeli per un ragazzo sensibile di 26 anni. Così tanto da spingerlo al suicidio. La madre lo ha chiamato per colazione, lui non ha risposto. Si era impiccato nella sua camera al secondo piano.

LA VITA
Andrea Natali viveva con i genitori a Borgo d’Ale, paese di duemila anime immerso nelle campagne del Vercellese. Quella vita fatta di cose semplici - il lavoro da operaio, la passione per le auto, le uscite con gli amici - nascondeva un demone: quegli scherzi che da troppo tempo lo stavano consumarlo dentro.

«Chiediamo giustizia per Andrea anche se niente potrà mai restituircelo - piangono Federico e Liliana, i genitori -. Il suo calvario è iniziato quattro anni fa: alcune persone che frequentano il paese hanno iniziato a prenderlo di mira con vari scherzi. All’inizio lui non diceva niente.

Gli scherzi, però, nel tempo sono diventati via via più pesanti, tanto che un anno fa aveva deciso di sporgere denuncia alla Polizia postale. Ma senza che i responsabili pagassero davvero. E tutto si era chiuso con un nulla di fatto. «Diceva sempre che non si era rivolto alle forze dell’ordine solo per fermare i suoi aguzzini - continua Federico Natali - ma per evitare ad altri ciò che è accaduto a lui».

Non ce la faceva più, Andrea. Nel frattempo quei ragazzi si erano messi a fotografare gli scherzi e avevano pure creato una pagina a lui dedicata su Facebook. Che ora è stata eliminata dalla Polizia postale. «Nostro figlio continuava a ripetere “mi hanno tolto la dignità” e da quel momento è iniziato il suo declino psicologico», ricordano il padre e la madre.

L’ISOLAMENTO
Il ragazzo, raccontano, nell’ultimo anno e mezzo non era più uscito di casa se non accompagnato. «Dopo la denuncia - continuano - aveva paura di uscire, si sentiva minacciato. Non andava nemmeno in paese. Temeva che quelle persone potessero fargli del male e probabilmente qualcuno gli aveva detto qualcosa di terribile per farlo arrivare a quel punto».

Ora i genitori tengono in mano la sua foto: era sorridente, spensierato. Allora i demoni erano lontani, c’era spazio solo per i sogni: «Amava vivere, ma poco a poco la sua fiamma si è spenta. Era un gran lavoratore prima che gli accadesse questa vicenda assurda».

Fino a poco tempo fa organizzava i raduni dell’Alfa Romeo e sognava di raggiungere il fratello Alessandro in Germania per trovare un nuovo lavoro e mettere su famiglia. I genitori ricordano i suoi ultimi desideri: «In fondo nostro figlio sperava che quelle persone venissero a chiedergli scusa ma non è mai successo. Ora, anche se qualcuno volesse farlo, è troppo tardi. Non vogliamo vendetta, ma solo capire cosa è successo».

Alessandro Ballesio e Valentina Roberto

Su le maschere!

  • Lunedì, 31 Agosto 2015 11:46 ,
  • Pubblicato in DINAMO PRESS

DinamoPress
31 08 2015

La comunicazione, inquadrata nell’intera molteplicità dell’odierno spazio mediatico, determina la creazione di verità. È indubbiamente un terreno cruciale per esprimere un’azione radicale sul reale, ma come?

Una ruiflessione collettiva in vista del seminario di Euronomade "Costruire potere nella crisi", Roma 10-13 settembre.

Di certo, oggi, non attraverso un lungo testo come questo. Il primo passo per un’analisi sulle forme di comunicazione è infatti assumere che la forma del testo scritto che siamo soliti impiegare non è all’altezza dell’istantaneità assunta oggi dalla comunicazione; esso non riesce a permeare la società nella quale vogliamo intervenire; banalmente, non comunica, non riesce a veicolare messaggi se non all’interno delle nostre cerchie. Tutto ciò non significa, ovviamente, che sia inutile scrivere un testo utilizzando più di 140 caratteri, quanto piuttosto che sia ingenuo pensare che esso possa essere genericamente diretto a tutt*. Insomma, se il testo di 4-5 pagine è il codice più efficace per confrontarsi e far circolare posizioni politiche all’interno degli ambienti del “movimento” in Italia, esso va usato con la consapevolezza di questo particolare “target” a discapito di altri, rispetto ai quali tale codice si mostra del tutto inefficace.

Proviamo dunque, con un documento del tipo sopra descritto, a fornire alcuni strumenti analitici utili alla discussione di Roma, e in particolare al workshop sui social network, per la costruzione di un metodo nel terreno comunicativo che sia in grado tanto di aprire a sperimentazioni pratiche, quanto di tracciare linee programmatiche.

Innanzitutto, l’analisi del sistema dei media: complessivamente ne usciamo perdenti, ormai lo percepiamo chiaramente. Assistiamo ad una diffusa estraniazione nei confronti delle narrazioni mediali la cui strutturazione gerarchica ed antidemocratica è maggiormente solida. Tale estraniazione, che investe in primis l’attivismo sociale e la vecchia sinistra ma non solo, pensando in generale alle giovani generazioni, non determina in alcun modo la fine della subalternità degli “estraniati” nei confronti della funzione di verità svolta da grandi televisioni e testate giornalistiche, dalle loro regole e dalle loro maschere.

Più nel particolare, l’analisi delle reti– e più propriamente il terreno dei social network – ci vede al contrario più capaci, più reattivi. Analizzare nel dettaglio i codici funzionanti su questo terreno, tanto nelle espressioni vicine ai movimenti quanto in quelle esterne, deve fornirci un implemento della capacità di agire all’interno dello spazio mediatico.

Ci sembra però utile, anche in questo campo, partire dai problemi riscontrati per elaborare le nostre contromisure strategiche.
Innanzitutto registriamo che i tempi delle notizie, delle storture e degli attacchi al corpo sociale svolti dal potere attraverso i media sono incommensurabilmente superiori ai nostri. Le nostre risposte sono spesso tardive rispetto alle accelerazioni di dibattito provocate dai “temi caldi”. Inoltre, la forma di risposta nettamente più usata, quella del comunicato scritto di cui sopra, rimarca e perpetua oggi quella “lentezza” già accumulata nel seguire l’accadere degli eventi e la possibilità di intervenirvi politicamente.

Con che forma allora si interviene sui temi imposti dall’agenda dei grandi media nemici?

Nei social network si evidenzia già un ruolo determinante nella produzione di (contro)informazione e discorso politico attraverso una moltitudine di “profili”, collettivi e individuali, tra i quali troviamo quelli di molti di noi. La nostra partecipazione “di parte” nelle reti sociali va identificata e definita più chiaramente per poterne chiarire i difetti e le potenzialità. Per fare un esempio, in un momento come l’attuale, certamente difficile per la capacità delle lotte di contendere al potere la costruzione di senso nello spazio mediatico, le risposte che riescono maggiormente a catalizzare i consensi dei nostri sciami d’opinione ci paiono spesso, ahinoi, volti ad un pessimismo pericoloso. Ciò rischia di investirci infatti di una valutazione morale della moltitudine (frutto degli allarmi sulle passioni razziste e sessiste che investono l’Italia con preoccupanti primati nel contesto europeo) che non permette una azione costruttiva di discorso, non aprendo alla prassi.

Ci sono per fortuna anche alcuni profili, che possiamo chiamare maschere, molto vicini a noi e che funzionano. Esse si nutrono di meccanismi di viralità che sono trasversali al successo negli ambiti delle reti sociali: ad esempio, la capacità tecnica specializzata nei microcampi dell’arte visiva (Zerocalcare) e la forte impronta ironica, asse portante della viralità stessa dei social network (Spinoza). Dalla scoperta di questi elementi come efficaci è importante partire per costruire forme di comunicazione differenti, specifiche, che riescano a smuovere le stasi che gli stessi media mainstream impongono nella loro costruzione di senso e a cui crediamo nel momento in cui vediamo espressi pessimismo e rassegnazione.

Gli esperimenti migliori di mobilitazione sociale tentati nell’azione sui social network hanno funzionato in una determinazione visiva, costruendo delle maschere utilizzabili da chiunque (Strikers nello Sciopero Sociale, V per Vendetta in Anonymous, Pulcinella nelle mobilitazioni campane). Analizzare queste esperienze, che su scala globale, regionale e urbana hanno determinato processi politici importanti, può aiutarci a costruire degli strumenti per valutare e sperimentare i processi comunicativi che mettiamo in campo.

Il tema della maschera ci porta ad affrontare una questione che ci pare determinante nel panorama mediatico complessivo. Sono le maschere, in fondo, segni che riescono a transitare tra le differenti sfere dello spazio mediatico. Per maschera intendiamo da un lato la funzione ricoperta dai corpi e dai volti dei singoli che intervengono nello spazio mediatico, in televisione come in rete, permettendo a chi vi entra in relazione, guardandoli, ascoltandoli, condividendoli, una forma di riconoscimento collettivo; dall’altro invece il profilo incorporeo che costruisce la sua fisicità attraverso un’identità che è insieme personale e collettiva, in particolare sui social network. In questo spazio, assistiamo sia al dispiegamento di una notevole capacità personale d’intervento, sia alla costruzione di forme d’identità mobile e allargata come nel caso della maschera di anonymous o dello striker.

Come lo striker per lo Sciopero Sociale, come la maschera di V per Anonymous, è il tweet di Renzi o la sua quotidiana “scenetta” che rappresenta oggi in Italia la maschera con cui il potere detta e distribuisce la sua agenda, la sua notizia, il dato attorno a cui spingere gli sciami.

Il focus su ciò che abbiamo chiamato “maschera”, ci riporta alla centralità di un altro elemento basilare del meccanismo comunicativo: il mittente. L’importanza di questo elemento comunicativo, oltre a quelli di codice/forma e destinatario da cui siamo partiti, rischia di rimandarci ad una questione fin troppo spinosa riguardante, in senso ampio, l’identità. Il problema che possiamo però porci da subito sul tema del mittente nei quotidiani tentativi di fare opinione politica sui social network è se, ad esempio, i fondamentali profili di informazione alternativa e quelli degli spazi occupati – i più utilizzati nei nostri ambienti per intervenire sui temi caldi nei social network – siano effettivamente gli strumenti migliori, le migliori maschere, per produrre opinione su temi specifici su cui il potere indirizza l’attenzione. La nostra impressione in merito è che la facilità di creare, ex novo, voci che non siano immediatamente identificabili per trattare i temi più in voga nel sistema mediale, ci doti di una potenzialità nell’intervento sui social network che dobbiamo approfondire, utilizzare e inflazionare per creare maschere transitorie che sappiano contendere in modo più specifico e tematico la creazione di senso.

Le maschere riportano infine al centro una corporalità che è integrata nei meccanismi di efficacia di tutti i contesti comunicativi e che la potenza dell’audiovisivo, persino nelle forme spettacolarizzate da questo assunte, esprime anche nei nuovi spazi comunicativi delle reti sociali. Sarebbe interessante continuare ad indagare la relazione che questa dimensione corporale della maschera e la sua efficacia ha con la questione della personalizzazione e dell’identità nei processi comunicativi di creazione di senso sul reale.

Tuttavia, ciò che può essere utile per imbastire una discussione volta alla costruzione di occupymaskwallmeccanismi pratici di comunicazione, è piuttosto tener presente l’in-mediata potenza della funzione corporale-visiva che abbiamo chiamato maschera, in tutte le sue forme. Dobbiamo dunque scoprire le prerogative, i meccanismi efficaci nei contesti di rete, consapevoli di dover sperimentare e quindi essere disposti a costruire maschere, persino individuali laddove già accade nei profili personali dei social network, che possano essere, sempre transitoriamente, utili nelle differenti fasi della lotta contro il violento potere, anche mediatico, che ci troviamo di fronte.

Pubblicato su euronomade.info come contributo alla discussione verso la Scuola Estiva di Roma 10-13 settembre 2015.

Hanno violentato due volte una turista americana nel bagno della discoteca, poi si sono scattati un selfie facendo il segno della vittoria con l'indice e il medio e l'hanno postato su Facebook.
Titti Beneduce, Il Corriere Della Sera ...

facebook