la Repubblica
30 04 2015
Un tribunale antiterrorismo pachistano ha condannato dieci persone all'ergastolo per l'attentato realizzato contro Malala Yousafzai, la giovane pachistana Premio Nobel per la Pace. La giovane, di 15 anni, fu ferita gravemente il 19 ottobre 2012 da un commando di talebani del TTP.
Malala fu gravemente ferita alla testa mentre ritornava a casa da scuola a Mingora, nella Valle dello Swat, e l'attentato fu rivendicato dai militanti del Tehreek-e-Taliban Pakistan. Insieme a lei furono ferite, anche se meno gravemente, due altre giovani studentesse, Kainat e Shazia.
I dieci imputati condannati oggi, originari del Malakand, furono arrestati dall'esercito pachistano nel settembre dello scorso anno e consegnati ai tribunali antiterrorismo. Trasportata in aereo in Gran Bretagna, Malala fu sottoposta a delicati interventi chirurgici recuperando quasi completamente il suo stato fisico. La sua azione per l'istruzione, soprattutto delle bambine nel mondo islamico, le ha permesso lo scorso anno di diventare la più giovane Premio Nobel per la Pace, insieme all'attivista indiano Kailash Satyarthi.
la Repubblica
23 04 2015
"Un impulso l'ha fatta scattare mentre pensava: 'Sono incinta al settimo mese, non mi ammazzeranno mai...'". E invece le hanno sparato. Così, nel ricordo ancora straziato del figlio Mario, 82 anni, è morta ammazzata Teresa Gullace, la donna impersonata da Anna Magnani nel film di Roberto Rossellini Roma Città Aperta.
È il 3 marzo del 1944, un venerdì. Roma sotto l'occupazione nazista, flagellata dai bombardamenti, gli alleati alle porte, si combatte furiosamente "nella testa di sbarco di Nettuno". Pur sottoposto alla più rigida censura fascista, il Messaggero di quei giorni racconta un popolo stremato, senza acqua, senza cibo, centinaia e centinaia di morti sotto le macerie. In quelle pagine ingiallite si legge della "Deplorazione vaticana per la caduta delle bombe nelle adiacenze di San Pietro".
Il "Comando germanico" reagisce con feroci "rastrellamenti" alle incursioni dei partigiani gappisti. Incursioni che sarebbero culminate, di lì a poco, appena 20 giorni, con l'attentato di via Rasella. E la conseguente rappresaglia tedesca della Fosse Ardeatine con il massacro di 335 persone.
È in questo drammatico contesto che Teresa Gullace, 37 anni, cinque figli (tre maschietti, Mario era il terzo, e due bambine, il sesto in grembo) finisce davanti alla caserma dell'81esima Fanteria, in viale Giulio Cesare, a Prati, dove ha saputo che si trova rinchiuso il marito Girolamo, catturato in un rastrellamento all'altezza di Porta Cavalleggeri.
Davanti alla caserma si sono radunate decine di donne, mogli e madri, in ansia per la sorte dei loro uomini catturati dalla Gestapo. Teresa ad un certo punto intravede il marito che riesce ad affacciarsi a una finestra, dietro alle inferriate. Con un gesto di disperazione e di incoscienza tenta di raggiungerlo per portargli un po' di cibo che aveva racimolato alla Caritas. "Aveva paura - ricostruisce Mario - che le portassero via papà, e con lui il sostentamento della famiglia". Era un ragazzino, allora, di 11 anni. Né lui, né gli altri due fratelli sono presenti quando un soldato tedesco fulmina la madre con un colpo di pistola, una Luger.
Sul set, Rossellini si concede una licenza narrativa: la presenza del piccolo Mario (nel film ha il nome di Marcello, interpretato da Vito Annicchiarico), il figlio di Pina-Teresa, alias Anna Magnani.
"No, nella realtà noi figli lì non c'eravamo. E papà era in caserma, non sul camion che si vede in 'Roma città aperta'". "Io - ricorda oggi Mario con il suo romanesco così antico - stavo facendo la coda dalle monache di Santa Marta, accanto a San Pietro, per elemosinare una sgummarellata di cicerchia e polentina. Eravamo in parecchi a fare la fila per andare a prendere quella buiacca. Dentro alla cicerchia ci stavano dei bacarozzetti, io provavo a levarli, ma a forza di toglierli a un certo punto mi sono detto: "Ma che li levo a fa'? Facciamo conto che sia companatico"".
Continua: "Mentre aspettavo, sentivo della gente che urlava 'hanno ammazzato 'na donna!'. Ma non capivo cosa stesse accadendo. Pensavo che mamma sarebbe arrivata con i buoni per avere il pasto. Invece non arrivò, e la monaca mi cacciò via in malo modo".
"Mio fratello più grande, invece - aggiunge Mario - s'era precipitato in fretta e furia su, a Monteverde, per avvisare che papà non poteva andare a lavorare nel cantiere, perché era stato rastrellato". Gli altri figli di Teresa erano a casa: "Quando è stata uccisa, mamma era sola. Stava soltanto con la creatura che aveva nel grembo. Io ho saputo della tragedia quando sono arrivato a casa. Un macello, un disastro".
Mario è un uomo anziano, scoppia in lacrime, è un pianto contagioso: "Da allora mi è mancato il terreno sotto i piedi". I suoi ricordi sono nitidi. "Era tutto un pianto, tanta gente ci veniva a trovare, la cosa aveva suscitato una grande reazione a Roma". I romani, nei giorni successivi e fino all'8 marzo, Festa della Donna, nonostante i divieti ricoprono di fiori e di mimose la macchia di sangue lasciata dal cadavere di Teresa Gullace sulla strada, sotto i platani di viale Giulio Cesare. "Quando mamma cadde a terra - racconta Mario, asciugandosi le lacrime - qualcuno l'ha presa e trascinata verso il marciapiede. In quel momento passava un camioncino che portava il pesce, l'hanno tirata su quel furgoncino e trasportata all'ospedale Santo Spirito".
Sabato 4 marzo 1944, i funerali. "La bara - ricorda Mario - era stata caricata su un carro a quattro ruote tirato dai cavalli. Ma appena siamo usciti dalla camera mortuaria, verso il Lungotevere, ecco che si avvicinarono dei militari e sciolsero il corteo funebre". Riflette: "Questa è stata la cosa che a me, ragazzino, mi ha fatto più male. Ma come? M'avete distrutto l'esistenza, mi avete ammazzato la madre e poi mi impedite di farle il funerale per motivi di sicurezza? Certo che le guerre ne fanno vedere di nefandezze. E fanno vedere quanto è cattivo l'uomo".
Il Messaggero del giorno dopo, sabato 4 marzo, continua a dare notizia dei bombardamenti: sulla stazione Tiburtina, sull'Ostiense, a Testaccio. Si legge dell'investimento mortale di un pedone da parte di un autocarro in via del Tritone, della morte di Gigetto, sagrestano 91enne della Chiesa del Gesù, della distruzione dell'abbazia di Montecassino, dell'uccisione da parte dei gappisti di un commissario di polizia fascista, probabile ritorsione alla morte della Gullace. Si dà perfino conto della distribuzione del sapone da bucato e da toeletta. Ma invano si trova traccia dell'uccisione di Teresa Gullace.
Il 27 settembre 1945, Mario Gullace, accolto da Rossellini e dalla Magnani, rivisse, pur nella fiction cinematografica, la tragica scena dell'uccisione di sua madre. E tra saponi e dolori, sangue, fame e stravaganze nasceva un capolavoro che a settant'anni di distanza ancora smuove i sentimenti.
Alberto Custodero
la Repubblica
16 04 2015
Tempo fa, all'Università di Urbino, sono passato accanto ad alcuni studenti del mio corso, seduti intorno a un tavolo. Ciascuno davanti al proprio tablet. O allo smartphone. Assorti, concentrati, impegnati a battere sulla tastiera - perlopiù touchscreen. Immagine consueta, ma ho sorriso, pensando a quanto la dissociazione spaziale sia diffusa, soprattutto - ma non solo - fra i giovani. Perché capita, sempre più spesso, di comunicare con altre persone lontane, lontanissime da noi. Parlare con amici, oppure dialogare, collaborare con colleghi e interlocutori professionali, collegati in video da altre città, in paesi, continenti.
Inutile stupirsi. Si fa la figura dei preistorici. Nostalgici di un'epoca che non c'è più. Senza contare che le tecnologie della connessione hanno agevolato e moltiplicato le possibilità di relazione. Perché hanno dilatato il nostro spazio cognitivo e operativo. Riducendo e, anzi, annullando la distanza temporale. In fondo, la globalizzazione si traduce e riproduce in stretching dello spazio, per citare Giddens. In altri termini, tutto ciò che avviene dovunque, nei luoghi più lontani, può avere un impatto immediato sulla nostra vita e, anzitutto, sulla nostra coscienza. Per effetto della comunicazione e dei media. Mentre ciascuno di noi può inter-agire con luoghi e persone che sono "altrove". Sempre e dovunque.
In questo modo, d'altra parte, il senso della relazione con gli altri quasi si perde. Perché io non vedo i miei interlocutori. Sono empaticamente distinto e distante da loro. Così il "mio" spazio si allarga a dismisura e, dunque, svanisce. Diventa sfondo, scenario impersonale. Come avviene a tutti coloro che parlano con qualcuno al telefono, pardon, smartphone, mentre camminano per strada, oppure viaggiano - in treno o in autobus. O in auto. Armati di auricolari: non debbono neppure alzare la testa. Guardarsi attorno. Prestano solo attenzione - istintiva e inconsapevole - agli ostacoli del percorso. Per non schiantarsi addosso a un lampione o a una vetrina. Perché, in quei momenti, durante quelle comunicazioni, sono - siamo - altrove. Con la testa. Con la coscienza. Siamo in-
coscienti. Dissociati dal luogo e dal contesto.
Per questo mi divertiva osservare i miei giovani studenti, tutti lì, uno accanto all'altro, e tutti altrove. Lontano. Non c'era nulla di strano, ovviamente. Si tratta di una "routine". Di una pratica "normale". Anche se qualcosa di strano, in effetti, in quell'occasione c'era. Così, almeno, mi pareva. Perché, ciascuno di loro - concentrato e "perduto" sul proprio tablet o smartphone - mostrava reazioni coerenti e sincroniche con gli altri. Smorfie, risolini, cenni del capo. Come se fossero in reciproca e diretta relazione. Così, per curiosità, mi sono intromesso. Ho interrotto la loro comunicazione. E i miei dubbi hanno trovato puntuale conferma. Gli studenti, infatti, dialogavano tra loro. Uno accanto all'altro, uno davanti all'altro, invece di parlarsi direttamente: messaggiavano. Si scambiavano messaggi in rete.
Vista la mia sorpresa, gli studenti mi hanno rassicurato. "Guardi che non stiamo parlando solo tra noi. Ma con molti altri amici, sparsi in Europa. In diverse città e università. Siamo su WhatsApp e chattiamo in un gruppo globale".
Così mi sento più tranquillo. Ho capito che le tecnologie ci permettono di dialogare, in ogni momento, con persone lontanissime, che stanno altrove, come se fossero accanto a noi. E, al tempo stesso, possono allontanare chi ci sta vicino, chi ci sta parlando, fino a renderlo invisibile, ai nostri occhi. Anche se è lì, a un passo. È la comunicazione globale, bellezza. Ci permette di stare sempre insieme e vicino agli altri, in ogni luogo. Ma, al tempo stesso, ci lascia soli. E fuori luogo.
Ilvo Diamanti
la Repubblica
16 04 2015
"Puzzate come cani" gridava 14 anni fa, ai ragazzi del G8, alla caserma di Bolzaneto. Sabato, alla Commenda, relazionerà al convegno “ La salute in carcere” che ha organizzato per la Asl3.
La dottoressa Zaccardi, condannata per gli abusi di Bolzaneto è relatrice ad un forum sulle carceri. Nel 2001 a una ragazza ferita e terrorizzata a cui veniva impedito di andare in bagno disse: “Puzzi come un cane.
È la parabola di Marilena Zaccardi, medico del carcere di Marassi, del penitenziario femminile di Pontedecimo, che ha legato il suo nome a quello del “medico in mimetica”, Giacomo Toccafondi, nella caserma di Bolzaneto trasformata in centro di torture e sevizie nel luglio 2001.
Sembra incredibile, ma invece è così: dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo sul blitz alla scuola Diaz, "fu tortura". Dopo il putiferio sollevato dal post su Facebook del poliziotto del VII nucleo che fece l’irruzione alla Diaz, Fabio Tortosa ("io ero quella notte alla Diaz. Io ci entrerei mille e mille volte"). Un’azienda pubblica come la Asl non soltanto ha mantenuto al suo posto Marilena Zaccardi, ma le ha dato visibilità e riconosciuto rilievo professionale se è arrivata ad affidarle la curatela scientifica, insieme ad altri quattro colleghi, di un convegno dedicato alla salute in carcere.
Proprio lei che a Bolzaneto, secondo la sentenza della Corte d’Appello di Genova, dal 20 luglio al 22 luglio 2001, è stata accusata, di “aver consentito o effettuato controlli di triage e di visita sottoponendo le persone a trattamento inumano e in violazione della dignità”, “costringendo persone di sesso femminile a stazionare nude in presenza di uomini oltre il tempo necessario e quindi sottoponendole a umiliazione fisica e morale”. “Per aver ingiuriato le persone visitate con espressioni di disprezzo e di scherno”. “Per aver omesso o consentito l’omissione circa la visita di primo ingresso sull’individuazione di lesioni presenti sulle persone”. “Per aver omesso o consentito l’omissione di intervento sulle condizioni di sofferenza delle persone ristrette in condizioni di minorata difesa”.
Marilena Zaccardi, assolta in primo grado, è stata condannata in Appello per abuso d’ufficio pluriaggravato e ingiuria pluriaggravata . E le condanne della Corte d’Appello a carico dei cinque medici della caserma di Bolzaneto, oltre alla Zaccardi e Toccafondi anche Aldo Amenta, Adriana Mazzoleni e Sonia Sciandra, sono state confermate dalla sentenza di Cassazione, che nel 2013.
La dottoressa Zaccardi, però, così come Toccafondi, è stata salvata dalla prescrizione. Salvata, ma solo in campo penale, perchè sul piano civile è stata riconosciuta la sua responsabilità.
Michela Bompani e Marco Preve
La Repubblica
15 04 2015
I giudici bocciano il ricorso di un libico contro la polizia. "Corrompono la morale". Retate e arresti di omosessuali al Cairo
La polizia egiziana potrà espellere gli stranieri omosessuali e vietare il loro ingresso nel Paese. Lo ha stabilito ieri la Corte amministrativa egiziana, respingendo un ricorso riguardante una decisione del ministero dell'Interno in merito all'espulsione di un cittadino libico omosessuale. Il Tribunale ha riconosciuto legittimo il diritto del ministero di espellere stranieri omosessuali e di impedire il loro ingresso in Egitto.
Una decisione senza precedenti subito riportata ieri pomeriggio dal sito di Al Ahram. "La Corte amministrativa dell'Egitto", precisa il quotidiano più antico del Medio Oriente "ha confermato ciò che ha definito essere il diritto del ministero ad espellere stranieri omosessuali e ad interdire il loro ingresso in Egitto". Il tribunale ha confermato la decisione che nel caso specifico venne presa nel 2008, stabilendo che è stata assunta per preservare l'interesse pubblico e religioso e i valori sociali.
L'omosessualità non è ufficialmente fuorilegge in Egitto, ma le persone accusate di essere gay vengono spesso incriminate in base alle leggi che puniscono la "dissolutezza" o la "corruzione della morale pubblica", in pratica le leggi anti-prostituzione. La decisione della Corte cairota rischia di dare un serio colpo anche all'industria turistica, già in difficoltà per il terrorismo islamico. I resort per stranieri lungo le rive del Mar Rosso sono (erano) tra le mete più ambite per coppie gay e rischiano adesso di perdere una importante quota di clientela. I difensori dei diritti umani in Egitto denunciano una vera e propria campagna governativa contro i gay, arresti e persecuzioni contro gli uomini accusati di omosessualità sono aumentati drammaticamente negli ultimi mesi. Così come la gogna mediatica a cui vengono talvolta sottoposti gli arrestati.
Ha destato scalpore lo scorso dicembre la puntata del programma tv "El Mestakhabi" ("Nascosto") sulla retata anti gay della polizia in un hammam del Cairo, dove sono state arrestate 33 persone con l'accusa di "dissolutezza". Le troupe della rete Al Qahira wal Nas hanno accompagnato il blitz della polizia e gli arrestati sono stati trascinati fuori dal bagno turco in manette e seminudi sotto i riflettori delle telecamere. Ne è nata una forte polemica ma la polizia ha continuato in questi mesi a tenere sotto stretto controllo quel quadrilatero di strade fra la celebre Piazza Tahrir e Piazza Talaat Harb, dove tradizionalmente si ritrova la comunità gay.
la Repubblica
10 04 2015
Michael Slager, l'agente che sparò sabato scorso alle spalle di Walter Scott e lo uccise, fu coinvolto in un altro episodio analogo di abusi che spinse un uomo a denunciarlo alla polizia. Ma invano, perchè, come avvenuto in altri 46 casi dal 2000, il Dipartimento di polizia di North Charleston uscì indenne dalle accuse. "Se mi avessero davvero ascoltato e avessero indagato, quell'uomo (Scott, ndr) sarebbe ancora vivo poichè quell'altro (Slager, ndr) non sarebbe stato più in servizio", ha detto Mario Givens, anche lui afroamericano, che nel settembre 2013 indicò un abuso nei suoi confronti commesso proprio dal poliziotto oggi incriminato e in carcere per omicidio.
Nel corso di una conferenza stampa Givens ha raccontato che Slager fece irruzione nella sua abitazione in cerca di un sospettato di furto e lo costrinse a stendersi a terra con la forza. Poi usò la pistola taser per obbligarlo a star fermo. "Non vi era alcuna ragione per tutto questo", ha detto Givens, che sporse denuncia la dopo una breve indagine e la testimonianza di un altro agente a favore di Slager la faccenda venne accantonata.
Il Dipartimento di Polizia di Charleston, è emerso, ha una lunga storia di denunce ai suoi agenti per presunti abusi. Il periodico americano Salon racconta di Sheldon Williams, afroamericano, che dormiva tranquillamente nel motel Budget Inn della città quando cinque poliziotti entrarono nella sua stanza, lo ammanettarono e lo pestarono, accanendosi, in particolare, sul suo volto.
Williams era disarmato e non è mai stato accusato di aver opposto resistenza al suo arresto. Gli furono diagnosticate fratture al volto ma i cinque lo trasferirono comunque in carcere, dal quale venne di nuovo riportato in ospedale su indicazione delle autorità della prigione. Quando venne dimesso, i medici scrissero al Dipartimento di polizia insistendo affinchè venisse visitato da un chirurgo ed eventualmente operato al volto. Ma quel Dipartimento fece orecchie da mercante, secondo quanto riporta Salon.
"Oggi Williams -si legge- non riesce neanche a prendere sonno per il danno neurologico subito e talvolta avverte la sensazione di una presenza di insetti che strisciano sul suo viso. Quello accaduto a Willams è solo uno degli episodi di abusi su cui Salon ha indagato. In realtà è in tutto il South Carolina che la polizia ha il grilletto facile. La rivista The State ha indicato in 209 i casi di sospettati ai quali gli agenti hanno sparato: solo pochi tra questi sono poi stati incriminati e nessuno condannato.
Intanto la famiglia dell'afroamericano ucciso ha deciso di far causa al Dipartimento di polizia. "Vogliamo fino all'ultimo penny di ciò che la famiglia di Scott merita". Sono durissimi i toni con cui Justin Bamberg, legale dei familiari dell'uomo ucciso a Charleston, annuncia una causa contro il Dipartimento di polizia dal quale dipende Michael Slager, l'agente che ha sparato alle spalle all'afroamericano. "La gente", ha detto Bamberg al New York Daily News, "è stufa degli abusi di potere delle forze di polizia, ha aggiunto Bamberg, affermando che nel filmato registrato da un passante Slager sta "cercando di coprire" il proprio crimine "piazzando il Taser accanto" a Scott, ormai quasi privo di vita.
Nel tentativo in qualche modo di spiegare l'accaduto, la polizia di Charleston ha diffuso ieri un video ripreso dalla telecamera dell'autoveicolo dell'agente. E' possibile vedere cosa è accaduto quattro minuti prima che l'agente Michael Slager uccidesse Walter Scott sparandogli alle spalle. Nel filmato si vede il poliziotto fermare l'auto di Scott, avvicinarsi a lui e chiedergli i documenti. Slager non scende dall'auto e glieli porge. Dopo circa tre minuti, mentre la polizia controlla i documenti, Scott apre improvvisamente lo sportello e comincia a correre. Scatta l'inseguimento, che finirà in modo tragico.
la Repubblica
09 04 2015
Sul volo Alitalia da Istanbul a Roma, Aya si toglie l'hijab, il velo delle donne musulmane. Per lei, siriana, che ha 19 anni, indossarlo è una costrizione e con quel gesto liberatorio, le sembra si apra una nuova vita. Sul futuro della ragazza pesa però una grossa ipoteca: un condrosarcoma nel suo calcagno sinistro. In Siria, dopo l'operazione per rimuovere il cancro, i medici le hanno detto che il tumore è tornato. Le resta poco da vivere se non accetta di farsi amputare il piede. "Preferisco morire piuttosto", risponde.
Quei duemila euro spesi per il passaporto (falso). Ma su quel volo i pensieri cupi hanno lasciato il posto ad un'unica certezza: l'Europa è il mondo libero e il peggio sembra ormai alle spalle. Seduto accanto a lei c'è Fady, il suo compagno, arrivato dalla Svezia, dove si è rifugiato nel 2013 in fuga da Homs, luogo simbolo della carneficina siriana. Nella corsa contro il tempo e contro il tumore, Fady ha comprato per Aya un passaporto falso, spendendo 2000 euro. Il volo da Istanbul è uno di quelli considerati a rischio di immigrazione illegale dalla polizia di frontiera di Fiumicino. L'aeroporto di Roma è uno degli accessi all'area Schengen più a sud d'Europa, una porta per i popoli del Mediterraneo. Così gli agenti si preparano a controllare i passeggeri già all'atterraggio, molto prima del controllo passaporti.
Fady farebbe di tutto per Aya. Si è innamorato di lei a prima vista, quando l'ha vista in un video a casa del cugino, che vive in Germania ed ha sposato la sorella di Aya. La prima volta le ha parlato via Skype, lui in salvo in Europa, lei ancora in Siria. Aya non vorrebbe sposarsi perché, dice, potrebbe presto morire di cancro e non vuole rendere infelice un uomo. Fady allora cerca un sistema per portarla in Svezia. Prova con il ricongiungimento familiare, ma servono dai sei mesi a un anno. Chiede all'ambasciata tedesca in Libano un visto per le cure mediche, ma viene negato per ragioni burocratiche. "La donna che amo è in pericolo, non solo per la guerra, ma anche per la malattia" protesta Fady.
Rischiare il tutto per tutto. Decide così di rischiare il tutto per tutto. Aya e Fady si incontrano in Libano. Si sposano. Ripartono dalla Turchia con il passaporto falso per lei. Nel viaggio verso la Svezia decidono di fare scalo a Roma. "Chissà com'è bella la città eterna - pensa Aya - con i suoi monumenti, la sua cultura". Per questo chiede al marito di poterci trascorrere qualche giorno in luna di miele. "Sapevo che era illegale farla viaggiare con un passaporto falso, ma ero forte, perché sentivo che era la cosa giusta da fare per salvarla, dopo aver tentato ogni via legale", racconta oggi l'uomo da una casa di Acilia.
L'arrivo a Fiumicino. È il 6 ottobre 2014 quando la coppia atterra all'aeroporto Leonardo Da Vinci. I poliziotti in borghese fanno i controlli sotto l'aereo. Vedono quella ragazza, che nella foto sul passaporto porta l'hijab, mentre lì davanti a loro non lo porta. tutti e due vengono così portati negli uffici della polizia al Terminal 3, a destra del controllo passaporti. Un corridoio e una serie di stanze con le sedie rosse. Più si aggrava la posizione, più si scivola in fondo. Gli agenti trovano nello zaino di Fady il vero passaporto della donna, quello siriano. L'uomo ricorda quei momenti che resteranno per sempre impressi nella sua mente. "Ho provato a spiegare che Aya era mia moglie, ma il certificato di matrimonio era in arabo e non ci hanno creduto. Ho provato a dire loro che si trattava di una donna malata, ma non è servito".
Moglie e marito vengono separati. Tolgono loro il telefono e il passaporto. Per lui si aprono le porte del carcere di Civitavecchia, con l'accusa di essere un trafficante. Lei viene costretta a salire sul primo volo per Istanbul. Prima di partire, riesce a lasciare un biglietto con il numero di telefono della sorella che vive in Germania ad un algerino in attesa di essere respinto. Quando la sorella di Aya e suo marito ricevono la chiamata, si mettono subito in marcia verso Roma. Guideranno per 15 ore, verso Fiumicino.
Dietro le sbarre a Civitavecchia. Nei due giorni che passa in carcere, Fady pensa sempre alla sua donna. "Siamo in Europa - riflette fra sé e sé - al massimo le prenderanno le impronte e le faranno chiedere asilo in Italia, hanno detto che la rimandano in Turchia solo per spaventarci". Quando esce dal carcere cerca un modo per raggiungerla. Chiede agli agenti di poter fare una telefonata, ma non gli viene concesso. Non ha un soldo. Non vuole prendere un treno senza biglietto, per timore dei controlli. Non gli resta che andare a piedi per fino a Fiumicino: 70 chilometri. "Ogni tanto chiedevo informazioni - racconta Fady - per sapere se ero sulla strada giusta e la gente mi prendeva in giro, pensavano fossi pazzo", ricorda. Dopo diciotto ore di cammino, arriva a Fiumicino e apprende dalla polizia che Aya è stata davvero rimandata in Turchia. All'aeroporto di Istanbul la ragazza ha rischiato di essere rispedita in Siria. Pericolo scampato per un soffio, grazie alla sorella che dall'Europa le ha comprato un biglietto aereo Istanbul - Beirut. Così Aya si ferma in Libano.
Il rientro in Italia di Aya. Riesce incredibilmente a rientrare in Italia un mese dopo, con un permesso per cure mediche, grazie all'intervento decisivo del senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, allertato da una rete di attivisti e dalla giornalista dell'Ansa Marinella Fiaschi. Manconi ha tenuto le fila tra il Ministero dell'Interno, l'Ambasciata italiana in Libano, la famiglia e l'Ospedale San Camillo, dove la prende in cura il professor Santoro, chirurgo oncologo.
La storia prende così una buona piega. Da questo momento in poi, la storia sembra andare in discesa. La coppia di sposi si riabbraccia in aeroporto. Grazie ad una biopsia, si scopre poi che la diagnosi dei medici siriani era sbagliata: le masse presenti nel calcagno non sono tumorali, per il momento. Aya deve sottoporsi a controlli periodici e continuare a monitorare la situazione. Fady è stato nel frattempo condannato ad un anno e mezzo di carcere, ma è libero con la condizionale. "Il giudice ha capito che non sono un trafficante ed ho falsificato il passaporto di Aya solo per ragioni umanitarie", spiega oggi dall'appartamento alla periferia di Roma, dove ora gli sposi sono bloccati. "Il problema è trovare un modo legale per farli arrivare entrambi in Svezia", specifica l'Associazione A Buon Diritto del senatore Manconi. Lui potrebbe partire subito. Ma non vuole lasciare qui sua moglie. Le pratiche per il ricongiungimento familiare sono state avviate dall'ambasciata svedese in Italia. Non si sa quanto tempo ci vorrà.
Intanto a Fady gli bloccano lo stipendio. Nel frattempo, Fady si vede bloccare il suo stipendio da rifugiato in Svezia, perché non è presente sul territorio. A Roma, la coppia si sostiene grazie alla solidarietà ricevuta da Marinella Fiaschi, che li ha ospitati in casa, poi ha attivato una colletta per pagare le spese legali e per prender loro un appartamento in affitto. Migliaia di euro sono ancora necessari per la parcella dell'avvocato. "I soldi possono darteli tutti, l'amore no. L'amore è molto più costoso - dice Fady - Marinella per me è come una seconda madre italiana. L'affetto che tutte queste persone ci hanno dato in Italia è straordinario. Ora sappiamo che a Fiumicino l'errore è stato commesso da un funzionario, non da tutto un Paese". Parole di un uomo che conosce bene il prezzo dell'amore. In fuga e in lotta contro le frontiere e i tribunali per strappare alla morte la donna che ha sposato.
Raffaella Cosentino
La Repubblica
08 04 2015
Dopo lo scandalo della carne di cavallo trovata negli hamburger, è la volta di scatolette e patè per animali domestici
di AGNESE FERRARA
Dopo lo scandalo della carne di cavallo trovata negli hamburger venduti nei supermarket inglesi e irlandesi, risalente al 2013, è la volta delle scatolette e dei cibi umidi, paté gourmet e pappe dietetiche per cani e gatti. Residui di animali, tessuti e proteine differenti da quelli dichiarati sulle etichette sono stati trovati in 14 tipi di cibi umidi su 17 fra i più noti venduti nei supermarket inglesi dai ricercatori dell'università di Notthingam in uno studio pubblicato su Acta Veterinaria Scandinavica.
La scoperta sta facendo indignare ancora una volta gli inglesi, proprietari di cani e gatti "ma deve far riflettere tutti i cittadini europei e le industrie che producono cibi per animali affinché ci sia una maggiore trasparenza sulle etichette", dichiarano gli studiosi.
I ricercatori hanno acquistato 17 prodotti fra i più popolari e li hanno sottoposti all'analisi del Dna. Ben 14 contenevano residui di Dna bovini, di maiale e di pollo in proporzioni variabili non elencati sulle etichette. Su sette cibi etichettati con la dicitura 'con manzo' solo due contenevano più Dna di carne bovina che di maiale e pollo, gli altri contenevano soprattutto maiale. In sei prodotti 'al pollo' la percentuale di Dna di pollo contenuta è risultata variare dall'1 al 100 % e in due prodotti quella di carne di maiale e manzo superava quella di derivazione ovina. Sulle etichette nessuna informazione in merito.
"Il problema deve interessare tutti i consumatori dell'Unione perché la legge europea non impone la tracciabilità completa dei cibi per animali e sull'etichettatura lascia margini decisionali. Non si tratta solo di mancanza di trasparenza per chi sceglie i cibi pronti per i propri animali, diviene particolarmente importante se si possiedono animali con allergie alimentari", precisano gli autori dello studio. "Esistono delle linee guida e dei codici di buona pratica intrapresi in modo volontario dalla Federazione delle industrie europee dei cibi per gli animali domestici (Fediaf) ma, alla luce della nostra ricerca, non tutte le seguono. Ci vuole più chiarezza perché i consumatori possano fare scelte informate".
La condanna non riguarda solo le violenze, ma anche il fatto di non avere una legislazione sul reato di tortura
Quanto compiuto dalle forze dell' ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 "deve essere qualificato come tortura". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per quanto fatto ad uno dei manifestanti durante il G8 di Genova , ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura.
All'origine del procedimento c'è un ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, manifestante veneto che all'epoca aveva 61 anni e che rimase vittima del brutale pestaggio da parte della polizia durante l'irruzione nella sede del Genova Social Forum. I giudici hanno deciso all'unanimità che lo stato italiano ha violato l'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo, che recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti".
Cestaro, che durante l'irruzione fu brutalmente picchiato, ha accusato le autorità italiane di aver violato l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani - che proibisce la tortura e ogni trattamento degradante e umiliante - e l'articolo 13 perché è mancata un'inchiesta efficace per determinare la verità. L'azione avviata da Cestaro assume particolare rilevanza poiché è destinata a fare da precedente per un gruppo di ricorsi pendenti.
L'Ialia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro