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HUFFINGTON POST

Huffington Post
03 09 2015

Scrive una lettera alla figlia dopo le nozze, nella quale esprime tutta la sua commozione per il traguardo raggiunto dalla ragazza. Si tratta di un papà dell'Ohio, Paul Daugherty, genitore di una ragazza affetta dalla sindrome di down, che lo scorso 27 giugno ha sposato il suo fidanzato Ryan, con il quale era fidanzata da dieci anni.

"Ti ricordi tutte le cose che hanno detto che non avresti potuto fare Jills?" scrive il papà "Non avresti potuto guidare un veicolo a due ruote, o fare sport". E invece è proprio facendo sport che Jills ha conosciuto Ryan: giocavano insieme in una squadra di calcio per i ragazzi con disabilità. Poi prosegue nell'elenco "Non saresti potuta andare al college. Certamente non ti saresti sposata. Ora...guardati...".

"Quando hai un bambino con disabilità", racconta il padre di Jills ad ABC News, "quello che vorreste sentire i primi giorni è che tutto andrà bene. Noi questo non l'abbiamo mai sentito. Abbiamo avuto solo persone che ci raccontavano cosa Jillian non avrebbe potuto fare".

"Non so quali siano le probabilità che una donna nata con la sindrome di down sposi l'amore della sua vita. So solo che tu le hai battute". Poi spiega, sempre nella lettera, come tutti i genitori vogliano le stesse cose per i figli: la salute, la felicità, la possibilità di godersi il mondo. Ma la possibilità che questi desideri si avverino per i genitori di bambini affetti dalla sindrome di down sono ovviamente minori. "Ero preoccupato per te allora. Piansi profondamente una notte, avevi dodici anni ed eri scesa al piano di sotto per dire: 'io non ho amici'".

"Non avrei dovuto (preoccuparmi ndr). Sei naturale quando si tratta di socializzare. Ti hanno soprannominato 'il Sindaco' alle scuole elementari per la tua capacità di coinvolgere tutti. Hai ballato nella squadra di ballo alle superiori. Hai passato quattro anni a frequentare corsi universitari e hai fatto impressione per tutta la vita a tutti quelli che hai incontrato."

Quanto al giorno delle nozze, il papà ha dichiarato di non aver mai visto Jillian così felice e bella. "Perciò, posso dirlo a tutti, ai genitori con neonati o bambini piccoli con disabilità, tutto andrà migliorando".

Alessandra Teichner

Huffington Post
02 09 2015

Dopo la decisione di aprire le porte a tutti i siriani, la Germania continua a fare scuola sul fronte dell’accoglienza. Secondo quanto riporta il quotidiano Berliner Zeitung, la prestigiosa università berlinese Humboldt ha deciso di fare lo stesso con i rifugiati siriani, afgani e iracheni che desiderano frequentare l’ateneo pur non avendo le risorse economiche per farlo.

A partire dal semestre invernale 2015/2016, i rifugiati potranno partecipare a tutti i corsi e seminari organizzati dall’università registrandosi come “studenti visitatori” a titolo completamente gratuito. Questo il comunicato ufficiale dell’ateneo:

“Il prossimo semestre invernale l’università Humboldt di Berlino invita i rifugiati ad ascoltare letture e seminari come studenti ospiti. L’invito è a prendere dimestichezza con il sistema d’alta formazione tedesca, con l’esperienza della vita universitaria e a diventare membri della comunità Humboldt”.
L’università invita i richiedenti asilo a partecipare a un incontro introduttivo il prossimo 22 settembre. Per loro l’ateneo metterà a disposizione anche un servizio di assistenza linguistica e burocratica.

Si tratta solo di un esempio tra tanti di accoglienza. Come questo graffito in arabo apparso su un treno di Dresda: una scritta in arabo che recita “un sincero benvenuto”, a warm welcome, اهلًا وسهلاً. Piccoli gesti capaci di lanciare un grande messaggio.

La guerra che fa morire di sete

huffingtonpost
01 09 2015


In pochi sanno che ogni giorno un bambino, in Siria, rischia la vita per andare a raccogliere l'acqua per sé e per la propria famiglia. Il compito di riempire bottiglie e pesanti taniche dalle fontanelle pubbliche o dai punti di distribuzione in strada, aspettando per ore sotto il sole, spetta in quella terra devastata dalla guerra a loro, i più piccoli. Nelle ultime settimane, a causa dei continui attacchi ai rifornimenti idrici, tre bimbi sono stati uccisi mentre tornavano a casa.

E sono quasi cinque milioni le persone che soffrono per la carenza di questo bene vitale. Proviamo a immaginare cosa significhi aprire tutti i rubinetti di casa e non vedere cadere nemmeno una goccia d'acqua per più di due settimane, come è accaduto ad Aleppo e a Damasco, oppure addirittura per più di un mese, come è successo in altre zone. Pensiamo anche che, sotto un sole cocente e una temperatura che supera quasi costantemente i 40 gradi, il prezzo dell'acqua sia aumentato di oltre 30 volte dall'inizio del conflitto, in un momento in cui la guerra e i bombardamenti hanno raso al suolo, oltre alle case, anche i negozi, privando la popolazione di beni di sostentamento economico. Sembra un'immagine da apocalisse e invece è quello che succede oggi ad Aleppo, a Damasco e in molte altre città siriane soprattutto della zona nord.

Ora, forse, potremmo capire la frustrazione di una bambina che, qualche giorno fa a Damasco, dopo aver trascorso ore in fila insieme ai suoi coetanei per riempire due piccoli recipienti da una pompa d'acqua pubblica, è scoppiata in lacrime quando si è accorta che per lei erano troppo pesanti da trasportare. E ancora, possiamo immaginare la forza di un uomo anziano, probabilmente malato e solo, che è andato a fare rifornimento d'acqua stringendo in una mano una tanica vuota e nell'altra un kit medico. Con molte probabilità non aveva altra scelta. Il sistema idrico può saltare in qualsiasi momento perché a decidere, in modo arbitrario, se interrompere o meno le forniture di acqua sono i gruppi armati che ne hanno fatto una nuova arma.

Ancora una volta a subirne tutte le conseguenze è la popolazione. Quando riescono a fuggire dalla Siria la situazione non migliora. Quest'estate mentre noi eravamo al mare, sdraiati sulla spiaggia, a prendere il sole, a Zaatari in Giordania (il campo profughi che ospita il più grande numero di rifugiati siriani al mondo arrivando a contenerne oltre 250 mila, quasi quanto il numero dei migranti arrivati nel 2015 in Europa) su migliaia di bambini si abbatteva una tempesta di sabbia. Il problema e' che il numero degli sfollati continua ad aumentare e le risorse devono essere divise tra più persone.

Anche qui il rifornimento di acqua potabile è discontinuo perché, di tanto in tanto, i camion che trasportano quest'oro blu vanno in sciopero. Bisogna essere parsimoniosi e pazienti a Zaatari, attendere qualche giorno prima di poter tornare alla normalità, per bere, per lavarsi, per cucinare. La popolazione siriana fa parte di quei circa 750 milioni di persone nel mondo che ancora non hanno un accesso continuo alle risorse di acqua potabile, la guerra gli ha portato via anche questo e in Europa...be' è una storia che conoscete benissimo.

(Post redatto in collaborazione con Flavia Testorio)

Huffington Post
27 08 2015

"Sono musulmano e sono una drag queen, dovete accettarlo". La splendida risposta di Asifa Lahore alle minacce di morte ricevute dall'Islam

Il suo nome è Asif Quaraishi, in arte Asifa Lahore, ed è la prima drag queen musulmana del Regno Unito. Di origine pakistana, Asifa vive a Southall, nella provincia di Londra e si è affermata come personaggio cardine nella lotta per i diritti della comunità “Gaysian”, gli omosessuali asiatici.

A questo scopo si è raccontata nel documentario "Muslim Drag Queens" assieme a due dei suoi amici più cari. In onda su Channel 4, il film toccava temi quali l'integrazione degli omosessuali nei paesi di religione islamica, le scelte difficili che Asif ha dovuto compiere prima di decidere di trasformarsi in Asifa.

Dopo la messa in onda è scoppiata la polemica da parte del mondo musulmano che si è rivoltato contro la drag, con messaggi d'odio e minacce di violenze e di morte.

"Pensi che non so dove vivi? Pensi che non so dove siano tua mamma e tuo papà? Vai avanti e sarai ucciso". "Ti chiami musulmano? Dovresti vergognarti ed essere ammazzato". Questa la gravità degli attacchi rivolti ad Asif che ha manifestato il suo stato di disagio e di ansia, soprattutto per le implicazioni che potrebbero riguardare i membri della sua famiglia.

"Ho paura. Ho paura e sono costantemente preoccupato, ma noi gay musulmani abbiamo il diritto di essere ascoltati, condividere le nostre storie e non vergognarci di chi siamo" ha dichiarato la drag queen alla Thomson Reuters Foundation.

Una voce di sostegno arriva dal premio che Quaraishi ha ricevuto dal magazine britannico Attitude, che durante la cerimonia ha espresso tutta la sua ammirazione per il coraggio della drag, sottolineando l'importanza del lavoro di Asifa nel combattere per far sì che le 150 drag queen attive nel Regno Unito riconcilino la sessualità con la loro fede, qualsiasi essa sia. Ma soprattutto perché si liberino dalla minaccia dell'omofobia e dell'odio di genere.

Dopo aver ringraziato i suoi sostenitori e aver rassicurato il pubblico sull'incolumità sua e della sua famiglia, Asif ha commentato le minacce ricevute. Il messaggio d'integrazione e di uguaglianza dei diritti si rintraccia nitidamente nelle sue parole: "Sono pakistano, sono britannico, sono musulmano, sono gay, e sono una drag queen. Le persone pensano che queste cose non possano andare bene insieme, ma eccomi qui, questo sono io".

Alessandra Corsini

Huffington Post
27 08 2015

Vedono la foto di questo profugo siriano nei social, lo rintracciano a Beirut per aiutarlo a sfamare la figlia

Un profugo siriano è stato rintracciato a Beirut grazie al passaparola degli utenti Twitter che si sono mobilitati dopo aver visto una foto dell'uomo mentre vende penne Bic lungo la strada.

L'immagine è stata condivisa centinaia di volte anche su Facebook, provocando una intensa commozione soprattutto per il fatto che il profugo porta in braccio la figlioletta addormentata.

"Vorrei aiutarlo, chi sa come trovarlo?", propone a un certo punto un commentatore. Sul profilo di Sakir Khader improvvisamente un utente, molto probabilmente libanese, dichiara di avere già visto l'uomo e indica la strada dove pensa di averlo incontrato con la figlia. A quel punto nasce un account Twitter con il nome #BuyPens (compera le penne) per provare a rintracciare il protagonista della foto e aiutarlo.

In poche ore l'attivista di una ong di Beirut, "Lebanese for refugees", annuncia di aver trovato il richiedente asilo.

Laura Eduati


Huffington Post
26 08 2015

È nata nel 2004 per porre fine all'estrema frammentazione della sinistra ellenica, in contrapposizione a centrodestra e centrosinistra, "entrambi figli del neoliberismo". Il Pasok come Neo Democratia. A tale principio non è mai venuta meno. In greco significa "coalizione della sinistra radicale".

È diventata un partito unico soltanto dopo un lungo e farraginoso processo interno. E, soprattutto, alle elezioni di gennaio - rompendo con quel bipolarismo corrotto e screditato - ha rappresentato agli occhi dei greci l'unica alternativa credibile per uscire dai memorandum e dall'austerity. Grazie alla contaminazione coi movimenti, anche più radicali, e a significative pratiche di autorganizzazione e mutualismo dal basso (mense popolari, farmacie e ambulatori gratuiti, cooperative socio-lavorative, scuole popolari, riallacci delle utenze per i bisognosi) supplendo alle manchevolezze dello Stato, ha incarnato la speranza di cambiamento.

La forza di Syriza: un partito radicato socialmente, vicino ai movimenti, e coerente. Ecco, quella Syriza, presa come modello da molte sinistre europee, va a pezzi. In frantumi. La fine di un'esperienza, almeno quella conosciuta finora. Si apre per il partito una seconda fase, da scoprire. Dopo la pace punitiva inflitta ad Alexis Tsipras all'Eurogruppo del 12 luglio scorso, siamo ad un'altra schiacciante vittoria delle Istituzioni: la scissione di Syriza rientra, infatti, nei piani originari della Troika che ora ha da gioire.

Sarebbe riduttivo banalizzare il tutto come una divisione interna tra "duri e puri" e "moderati". Le cose, spesso e volentieri, sono più complesse. In Italia si tende purtroppo a banalizzare, tifare ed etichettare. Alexis Tsipras da nuovo Che Guevara è diventato, per qualcuno, un "traditore"; altri che prima lo definivano un "populista euroscettico" ora lo elogiano come politico responsabile. Tante parole, pochi ragionamenti e consapevolezza dei fatti. Andiamo con ordine.

Tsipras non è passato al soldo della Bilderberg né nel campo dei nemici, ma sicuramente - come lui stesso ammette - ha commesso gravi errori durante i 5 mesi di trattativa con l'Eurogruppo. Innanzitutto ha sottovalutato i rapporti di forza con quell'Europa che ha gettato (per suo merito, va detto) definitivamente la maschera e mostrato il proprio crudele volto; in qualche momento il leader ellenico ha ipotizzato, e sognato, che la piccola Grecia potesse cambiare l'Europa. Che Davide potesse sconfiggere Golia.

Una sottovalutazione dovuta dalla mancata consapevolezza del ruolo del Pse nella partita. Convinto che Francia e Italia, Hollande e Renzi, dopo la vittoria referendaria dell'OXI ad Atene, avessero sostenuto la sua posizione all'interno dell'Eurogruppo rompendo il proprio isolamento. Non è avvenuto, anzi. Il Pse si è schierato con Angela Merkel invitando la Grecia a rientrare nei ranghi. Infine, l'errore più grande: non aver mai ipotizzato un piano B. L'accusa mossa dall'ex ministro delle Finanze, dimissionario, Yannis Varoufakis il quale, in una recente intervista al giornale Journal du Dimanche oltre a criticare Tsipras, bacchetta Hollande:

"La logica di Schäuble è semplice: la disciplina è imposta alle nazioni in deficit. La Grecia non è poi così importante. Il motivo per cui l'Eurogruppo, la Troika, il Fondo monetario internazionale hanno speso così tanto tempo per imporre la propria volontà su una piccola nazione come la nostra, è che siamo un laboratorio di austerità. Ciò è stato sperimentato in Grecia, ma l'obiettivo è ovviamente quello di infliggerlo alla Francia, per il suo modello sociale, il suo diritto del lavoro".

Insomma, punire la Grecia per educare la Francia e l'Italia. I veri obiettivi.

Chiudendo l'accordo all'Eurogruppo e il recente piano di salvataggio, Tsipras ha eluso il programma elettorale di Salonicco deludendo le aspettative di quel popolo che si era schierato al referendum, col 63 per cento, contro un nuovo, ennesimo, memorandum. Ha dovuto ingoiare la cicuta e snaturare i suoi piani originari partendo da una fondamentale premessa: la maggioranza dei greci - sondaggi alla mano - vuole ancora rimanere nell'eurozona e nella moneta unica.

La sua partita è in chiave europeista, ad essa non vede vie di fuga, e adesso punta all'alleggerimento del debito e a politiche per tutelare i cittadini più deboli all'interno della cornice del memorandum. Cosa ardua. Quasi un'impresa. Ci riuscirà? Del sano riformismo sociale che si posizionerebbe sul crinale scivoloso lungo cui cercare di modificare da dentro l'Unione europea. Prospettiva che guarda alla possibilità di costruire un asse con altri Stati, in particolare con la Spagna di Podemos, l'Irlanda dello Sinn Fein e la Gran Bretagna di Corbyn. Si sarebbe persa una battaglia il 12 luglio, non la guerra.

Le divergenze in Syriza sono sul piano strategico. La minoranza di Panagiotis Lafazanis ha deciso di andarsene per fondare Unità Popolare pensando di rompere con l'Europa: "Non possiamo lasciare orfani i greci che non vogliono quest'Europa". La Grexit come piano B da giocarsi, mentre Tsipras avrebbe tradito il popolo ellenico. Una prospettiva no euro che guarda con simpatia al ritorno alla dracma.

Il vero tema - che interroga tutti noi - è quindi l'Europa e la sua capacità di modificarla dal suo interno o meno. Intanto si palesa, in Grecia, una terza fazione. Quella del segretario dimissionario del partito, Tasos Koronakis (così anche Varoufakis, per intenderci), che critica Tsipras ma non ha seguito la scissione di Lafazanis. Una visione europeista, ma più intransigente rispetto a quella di Tsipras.

E ora? Chi vincerà le elezioni? Proprio sull'Huffington Post, la direttrice Lucia Annunziata scriveva giustamente qualche giorno fa:

"Tsipras ha manovrato la leva elettorale con spericolatezza, sapienza, furbizia e cinismo. In pochi mesi ha vinto nelle urne con un programma di sfida all'Europa, poi ha fatto un referendum per avere dalla sua parte di nuovo i cittadini nel "no" alle condizioni poste dall'Europa, e oggi, dopo aver ottenuto un accordo con i creditori, va di nuovo alle urne per chiedere al popolo di esprimersi con lui o contro di lui. Una vera e propria partita a scacchi, una sorta di permanente guerra di posizione per via di ballottaggio. Su abilità e coraggio, nulla da dire".

Abilità e coraggio. Ma anche furbizia, decisionismo e strategia. Tsipras ha bruciato tutti sul tempo. Dando le dimissioni già in agosto, Lafazanis - seguito comunque da pezzi da 90 del partito come lo storico partigiano Manolis Glezos - è stato costretto ad anticipare i tempi della scissione. Neanche le forze contendenti (Neo Demokratia e Alba Dorata) sembrano pronte per una competizione elettorale, ancora alle prese con vicissitudini interne. Si voterà quasi certamente il 27 settembre, quel giorno dovrebbe essere rieletto Alexis Tsipras con l'Unità Popolare di Lafazanis - sostenuta da alcuni movimenti - data nei primi sondaggi tra il 5 e l'8 per cento.

Rivincerà Tsipras, un leader a cui i greci non vedono alternativa. Rivincerà Syriza, una Syriza 2.0, diversa da quella conosciuta finora. Perché la Syriza di "lotta e di governo" è durata soltanto 6 mesi al potere. Da gennaio a luglio. Ed è una sconfitta per tutti, che dovrebbe far riflettere. E una vittoria della Troika.

di Giacomo Russo Spena

 

Morire in viaggio, morire in una valigia

Melting Pot
07 08 2015

Prima di mettersi in viaggio ognuno di noi compie un rituale che nella nostra vita si ripete tante volte quante decidiamo, liberamente, di spostarci da un luogo ad un altro. Il periodo dell’anno preferito per viaggiare è senza ombra di dubbio questo. Viaggiamo per staccare, per riprendere fiato dopo mesi di lavoro e fatica, viaggiamo per conoscere, per visitare nuovi posti, viaggiamo per ricongiungerci con i propri cari e affetti, incontrare un vecchio amico… o semplicemente per il gusto di farlo. Giovanni De Mauro, su Internazionale, dà spazio a Chibundu Onuzo, una giovane scrittrice nigeriana, che descrive la bellezza del "mettersi in cammino verso l’ignoto" come lo descriverebbe qualsiasi suo coetaneo agiato e nato in un qualsiasi paese del mondo occidentale.

Se guardiamo al sud del Mondo, se rimaniamo lucidi ed osserviamo chi sta in basso, coloro che devono lasciare il loro paese a causa di guerre, di miseria, di catastrofi ambientali - tutti effetti di un modello di sviluppo insostenibile e di politiche economiche predatorie - ci renderemo conto che non tutti, oggi, viaggiano spensierati o per puro piacere. Ci sono uomini, donne e bambini che, probabilmente, preferirebbero non viaggiare, almeno non nelle condizioni cui sono costretti.

Il loro viaggio è un calvario, costernato di incognite e rischi, di violenze e sopraffazioni quotidiane. Nessuno è risparmiato, non vale nemmeno il più antico protocollo del mare associato al naufragio. Nella fuga che costringe migliaia di esseri umani ad abbandonare la loro terra, quel “prima le donne e bambini” non vale, anzi i più “deboli” sono i più indifesi, quelli che in mancanza di cibo e di acqua muoiono prima, coloro che di fronte a condizioni igieniche nulle si ammalano più facilmente.

Mettersi in viaggio è dunque una scelta radicale, nessuno può dire con certezza se sia l’unica possibile, se è la più lungimirante e consapevole; nessuno può permettersi di giudicare se ci siano tragitti meno impervi, strade più facili. Soprattutto se chi lo fa sta in alto e nel nord del mondo, soprattutto se chi apre la bocca e grida all’invasione propone o avvalla politiche di militarizzazione e chiusura dei confini, sopratutto se chi decide le politiche europee in tema d’immigrazione obbliga altri esseri umani a ricercare nuovi modi per oltrepassare le barriere, spingendo sempre più in là la resilienza umana.

Il viaggio è perciò una grande scommessa tra la vita e la morte, le informazioni tra le persone circolano, i racconti dei modi, anche i più pericolosi, per raggiungere la propria meta sono condivisi nei social network. Risulta dunque impensabile che i governi possano bloccare il desiderio e la volontà di sognare una vita migliore, l’istinto umano di vivere con maggiori opportunità e migliori condizioni materiali. Di fronte ad un viaggio così difficile provare a nascondersi in una valigia per oltrepassare i confini della fortezza Europa può essere visto come l’ultima ancora di salvezza.

Chi riesce ad approdare sulle coste europee trova sulla sua strada altri ostacoli, altri soprusi e violazioni. Dice bene Alessandro Portelli nel suo editoriale su il Manifesto “La nostra libertà comincia dai migranti”: le mani in faccia ai migranti a Ventimiglia, i lacrimogeni lanciati contro i richiedenti asilo a Calais, i vagoni dei treni chiusi con dentro ammassati i profughi in Ungheria, le recinzioni alte 6 metri e sormontate da reticolati di filo spinato altamente tagliente di Ceuta e Melilla - enclave spagnole in Marocco -, i muri che si stanno erigendo al confine tra Bul­ga­ria e Turchia o al con­fine tra Unghe­ria e Ser­bia, i troppi migranti lasciati morire in mare (sono oltre 2000 nel 2015 e nel mentre stiamo pubblicando l’editoriale assistiamo attoniti all’ennesima tragedia!), stanno ad indicare che “un pò per volta l’Europa sta ritro­vando le sue radici: con­fini invio­la­bili, egoi­smi e pre­giu­dizi nazio­nali e raz­ziali, l’eredità di un secolo e mezzo di colo­nia­li­smo”.

Tutto ciò è l’emblema più visibile di una violenza quotidiana che si perpetua ogniqualvolta un lavoratore sfruttato muore per fatica o mancanza di sicurezza, quando viene sgomberata una palazzina occupata e le persone si ritrovano senza un tetto, tutte le volte che il sistema d’accoglienza mostra il suo lato peggiore e fa business sulla pelle dei profughi.

Ma è anche vero un altro dato, un’altra narrazione: in quei luoghi di frontiera, in quelle “ferite aperte”, i migranti stanno lottando per forzare quelle barriere, dimostrano che la loro propensione ad avere una vita dignitosa viene messa in pratica fino in fondo, e che, tutti insieme, esercitano dal basso il diritto a muoversi liberamente e a conquistarsi un pezzettino del loro futuro.

Al loro fianco, con umiltà, ma con la legittimità di coloro che si sentono la parte "bassa", quella inascoltata, della società, è fondamentale far crescere l’intreccio solidale e la lotta per i diritti: più l’Europa li lascia soli, più l’egoismo degli Stati nazione li scarica, maggiore deve essere la risposta di solidarietà e di mutualismo che ognuno di noi dovrebbe mettere in campo.

E’ da tutti questi luoghi, dalle forzature soggettive prodotte dai migranti alle frontiere e nei territori, che dobbiamo trovare le nuovi basi per determinare delle spinte al cambiamento.

Questa è l’Europa cinica e spietata che abbiamo davanti, oggi sta a tutti i suoi cittadini ed ai nuovi cittadini trovare gli strumenti per riscrivere delle regole di funzionamento che non siano dominate da austerità, esclusione, disuguaglianza e sfruttamento. Ecco perché riteniamo che sia tempo di cambiare radicalmente le politiche europee, di avviare un nuovo processo culturale di fratellanza e solidarietà, dare la giusta centralità alla questione delle ridistribuzione della ricchezza allargandola allo spazio dell’Euromediterraneo.

Il viaggio più interessante che possiamo intraprendere sarà questo, in modo che nessuno debba più morire in mare o sentirsi costretto a fingersi un bagaglio.

Huffington Post
07 08 2015

I palestinesi proteggono una poliziotta israeliana dal lancio di pietre dei coloni: la foto simbolo di una pace possibile

A volte la solidarietà delle persone va decisamente al di là dei conflitti tra le nazioni di appartenenza: lo dimostra la vicenda riportata dall'Independent.

Una poliziotta delle forze israeliane in servizio nelle zone abitate dai coloni è stata coinvolta in una protesta dei coloni stessi, rischiando di essere ferita dalle pietre che lanciavano: a difenderla, invece dei suoi connazionali, due uomini palestinesi.

La scena è stata immortalata dallo scatto del fotografo del giornale israeliano Yedioth Ahronoth Shaul Golan, subito fuori dalla West Bank, parte del territorio occupato. Gli scontri tra attivisti contrari all'occupazione e estremisti israeliani sono avvenuti nella zona vicina all'insediamento di Aish Kedesh e al villaggio palestinese di Kusra.

L'agente, che stava subendo una pioggia di sassi lanciati proprio dai coloni, è stata protetta da due uomini palestinesi, uno dei quali è Zakaria Sadah, un collaboratore del gruppo Rabbis for Human Rights (RHR), un'associazione umanitaria israeliana.

"Pur essendo normale che le forze dell'ordine si identifichino più con i propri connazionali, le procedure che riguardano l'applicazione della legge in situazioni che coinvolgono israeliani violenti devono essere definite con chiarezza e implementate con coerenza", ha commentato RHR.

Huffington Post
06 08 2015

Quando il Segretario di Stato americano Colin Powell nell'agosto del 2004, tornando da una missione in Sudan, definì per la prima volta ciò che stava avvenendo in Darfur come "il primo genocidio del 21esimo secolo" si accesero all'istante i riflettori sul conflitto che dal febbraio del 2003 stava dilaniando la regione occidentale sudanese.

La presa di posizione statunitense apparve come il banco di prova per la comunità internazionale di essere in grado di fermare, compattamente, le atrocità di massa. Ma ben presto emerse l'ineluttabilità del fallimento dell'azione contro il regime del presidente Omar Hassan al-Bashir, ex generale giunto al potere nall'89 grazie a un colpo di stato.

Oggi, 11 anni dopo il viaggio di Powell, quei riflettori sono spenti e l'attenzione mediatica sul dramma del Darfur è finita da tempo. Non sono però finiti i massacri che in questo caldo agosto, alternato a piogge devastanti, in tutto il Darfur stanno stremando un popolo provato da anni di soprusi e di ogni genere di violazioni dei diritti umani.

Tutto ciò a fronte del dispiegamento nella regione di una forza di pace delle Nazioni Unite, composta da oltre 20mila cachi blu, che si è rivelata sin dal primo momento costosa e inefficace. Per non parlare della beffa di un presidente in carica, considerato dalla Corte penale dell'Aja un criminale di guerra e genocida, in grado di viaggiare con relativa libertà in Africa, come dimostra il recente viaggio in Sudafrica, e non solo nonostante un mandato di arresto internazionale.

E intanto in Darfur si continua a vivere nella paura e nella miseria. Gran parte della popolazione ormai è in condizioni al limite della sopravvivenza. A 12 anni dall'inizio del conflitto le stime Onu parlano di oltre 300mila vittime e di circa 6 milioni di persone bisognose di aiuti di ogni genere, di cui oltre il 30% ospitate nei campi gestiti dall'agenzia Ocha' (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs). Nel primo semestre del 2015 ben 385mila sono stati i nuovi profughi a causa della recrudescenza del conflitto in molte aree della regione, che ha registrato il flusso di sfollati più consistente dal 2006 a oggi.

Dall'inizio dell'anno le possibilità di assistenza delle centinaia di migliaia di nuovi rifugiati, per lo più donne e bambini, e a rischio in tutto il Darfur. Le minacce sono sempre le stesse: insufficiente disponibilità d'acqua e di cibo, condizioni igienico-sanitarie e sicurezza inadeguate. La mortalità continua a essere molto alta. In pochi superano i 50 anni mentre tra i bambini molti non raggiungono il sesto anno di vita. Malnutrizione e infezioni le principali cause di morte per i più piccoli. Il settore sanità è quello che registra la maggiore criticità ed è considerato addirittura cronico dagli operatori umanitari sul campo che continuano a operare in un contesto difficile come testimoniano le continue espulsioni.

La protezione della missione di peacekeeping è del tutto insufficiente. Continuano a registrarsi scontri armati che coinvolgono i civili soprattutto nel Nord Darfur ed episodi di crimini di massa, in particolare stupri, usati come arma di guerra.

Il 2 novembre del 2014, su segnalazione di alcuni rifugiati sudanesi in Italia, Italians for Darfur è stata la prima organizzazione a denunciare sul proprio blog lo stupro di massa a Tabit, un villaggio a nord di al-Fasher. Oltre 200 tra donne, adolescenti e bambine erano state violentate nella notte tra giovedì 30 ottobre e il primo novembre da militari governativi e milizie arabe, gli ex janjaweed.

Secondo i testimoni, il raid punitivo sarebbe stato conseguenza della scomparsa di un militare della guarnigione dell'esercito del Sudan di pattuglia nell'area. La forza Onu dispiegata in Darfur non ha potuto effettuare nell'immediato un sopralluogo e confermare, in un primo momento, l'episodio. Dopo aver parlato nuovamente con abitanti del posto, senza la presenza di militari governativi, i caschi blu hanno invece raccolto elementi che non hanno più lasciato dubbi su quanto fosse avvenuto a Tabit.

Human Rights Watch ha poi pubblicato l'11 febbraio di quest'anno una approfondita ricerca che ha evidenziato le responsabilità delle truppe dell'esercito del Sudan che avevano eseguito una serie di attacchi contro la popolazione civile della cittadina vicino al-Fasher, arbitrarie detenzioni, pestaggi e maltrattamenti di decine di persone oltre allo stupro di massa di donne e ragazze. I militari hanno giustificato gli abusi dichiarando che le vittime fornivano aiuti ai guerriglieri coinvolti nelle operazioni contro il governo.

Il mondo, nonostante le prove di questa come di altre atrocità perpetrate in Darfur, è rimasto e resta a guardare nel silenzio più colpevole e sconcertante che l'ignavia internazionale abbia mai manifestato.

Antonella Napoli

Huffington Post
31 07 2015

Calais, David Cameron invia più cani poliziotto e recinzioni per fermare il flusso di migranti dalla Manica 

Mille in una sola notte, forse 1400. I migranti che nella cittadina francese di Calais tentano di saltare la rete per passare il tunnel della Manica sono così numerosi che ormai la polizia francese ha smesso di contare. L'immagine più forte di queste ore è un uomo che scavalca la recinzione tenendo in braccio la figlia, pronto a tutto pur di raggiungere la Gran Bretagna.

Nonostante le autorità francesi abbiano rafforzato la catena di agenti incaricati di bloccare i richiedenti asilo - 120 uomini in aggiunta ai 300 già presenti, che hanno diminuito le fughe verso le coste britanniche - il premier David Cameron ha convocato venerdì una riunione della commissione Cobra per la risposta alle emergenze. Una delle opzioni è l'uso dell'esercito a protezione dell'Eurotunnel, tuttavia per il momento la decisione è quella di costruire nuove reti per impedire l'accesso e inviare un numero ancora più alto di cani poliziotto incaricati di scoprire i migranti nascosti spesso nei camion che passano la Manica.
Allo stesso tempo il governo inglese ha deciso che le caserme saranno usate come parcheggi temporanei per i tir rimasti in fila lungo l'autostrada M20 a causa dei disservizi creati dai tentativi di incursione.

"Non escludiamo nessuna misura per fronteggiare il problema, che durerà tutta l'estate", ha promesso Cameron. "La situazione è inaccettabile. Le persone che tentano di entrare illegalmente nel nostro Paese creano problemi ai viaggiatori e ai turisti".

Venerdì mattina sono state diffuse le immagini di due migranti aggrappati a un tir che usciva dall'Eurotunnel a Folkestone, nel Kent. Il tunnel, riportano i media britannici, è stato temporaneamente chiuso per consentire agli agenti di effettuare una serie di controlli.

La crisi dei migranti ha creato un effetto triangolo tra Francia, Gran Bretagna e la società che gestisce l'Eurotunnel. Quest'ultima chiede a entrambi i governi di fermare l'esodo per contenere i danni al traffico di merci e passeggeri. All'elenco delle doglianze si è aggiunta la sindaca di Calais, Natalie Bouchart, che accusa il governo di Londra di attirare migliaia di migranti illegali con la promessa di un welfare troppo generoso. Per questo Bouchart è pronta a chiedere 50 milioni di euro di danni alla Gran Bretagna, poiché ormai "l'immagine di Calais è compromessa".

Nei boschi e nelle periferie della cittadina portuale, infatti, si sono radunati migliaia di richiedenti asilo provenienti principalmente dalla Siria e dall'Eritrea. Tutti aspettano il momento giusto per scavalcare la recinzione e raggiungere le piattaforme di accesso all'Eurotunnel. Nei giorni scorsi un migrante è morto dopo essere stato investito durante il passaggio nel tunnel.

Laura Eduati

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