Huffington Post
18.02.2015
Le borse europee, e quella di Atene in particolare, sono ottimiste su una possibile intesa tra il governo di Alexis Tsipras e l'Unione Europea. Il giorno dopo l'apertura del premier greco all'estensione del programma dei prestiti proposta, in un primo momento, dal commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, le borse europee aprono in rialzo. Atene apre a +3%. Londra avanza dello 0,24%. A Milano l'indice Ftse Mib cresce dell'1,04%. Francoforte sale dello 0,45% e Parigi dello 0,75%. Madrid guadagna lo 0,9%. Un'estensione, beninteso, del programma di prestiti e non del memorandum della Troika che include forti misure d'austerity. Oggi il governo di Atene ha confermato l'intenzione di chiederlo all'Eurogruppo: "Il Ministro delle Finanze Yanis Varoufakis invierà oggi la lettera", ha dichiarato il portavoce del governo Gavriil Sakellarides.
La missiva avrà come destinatario il presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. "Ci sediamo al tavolo per trovare una soluzione", ha aggiunto, sottolineando però che il governo greco non tornerà indietro su questioni che considera prioritarie e non negoziabili. Secondo quanto anticipato ieri dalla stampa locale, i contenuti della lettera si rifaranno in gran parte alle proposte della Commissione Europea, compreso il cosiddetto 'documento Moscovici'.
Una boccata d'ossigeno dopo i fallimenti registrati con l'Eurogruppo e il successivo Ecofin. L'intesa, questo l'obiettivo, deve arrivare entro la fine della settimana. Ma l'esito delle trattative resta comunque incerto, la partita si gioca anche sul filo della terminologia. Da un lato, infatti, la Grecia vuole ottenere un accordo che non sia una ratifica tout court degli impegni presi dai governi precedenti. Deve dimostrare di aver onorato, se non in tutto almeno in parte, le promesse fatte in campagna elettorale dal leader di Syriza.
Dall'altro, l'Unione non può far passare il messaggio che basti la nascita di un governo anti-austerity nei Paesi più indebitati per incrinare il fronte del rigore e del rispetto degli impegni presi. Per questo, a far da ago della bilancia potrebbe essere il documento "Moscovici": una proposta sul tavolo dell'Eurogruppo di lunedì scorso, ma "che Jeroen Dijsselbloem ha sostituito con la sua proposta irricevibile 15 minuti prima della riunione". Una strada, comunque, non ancora tramontata dato che è su questo possibile accordo che si sta lavorando sottotraccia tra Bruxelles e Atene. La Commissione europea è "in modalità di attesa e osservazione" rispetto alla scelta che farà la Grecia. Tuttavia, secondo fonti di Bruxelles in caso di un cambio delle condizioni del prestito "si ridurrebbero notevolmente le possibilità di accettazione dei partner".
Fondi d'emergenza BCE quasi esauriti. Il tempo scarseggia. I 65 miliardi di liquidità di emergenza, attraverso il meccanismo Ela (Emergency lending assistance), che la Bce metterà a disposizione delle banche elleniche potrebbero già non essere sufficienti. Gli istituti in forte sofferenza infatti pagano anche la riduzione dei depositi bancari, dopo la corsa agli sportelli. L'Ela, portato a 65 miliardi solo una settimana fa, potrebbe presto non essere sufficiente, dato che venerdì avevano già richiesto fondi per 57,5 miliardi, con un aumento di 51,7 miliardi in sette giorni, scrive il Sole 24 Ore. Non solo: secondo un'analisi di JpMorgan, il fondo d'emergenza sarebbe già esaurito. Di qui le voci di un possibile, ulteriore, incremento. Ipotesi prontamente scartata da Berlino: la Germania, dicono fonti vicine all'operazione, ha già detto no alla la concessione di nuovi prestiti di emergenza. Oggi il direttivo dell'Eurotower si riunisce per riesaminare l'assistenza tecnica agli istituti ellenici. I fondi dell'Ela, attualmente a 65 miliardi di euro, rischiano di rivelarsi insufficienti, non verranno ridotti ma Berlino non intende neanche incrementarli, finchè Atene non arriverà a un accordo con l'Eurogruppo.
Huffington Post
13 02 2015
Jamie Brewer, prima modella con sindrome di Down a sfilare alla New York Fashion Week: "È un esempio"
È stata la prima modella affetta da sindrome di Down a sfilare su una passerella della New York Fashion Week. Jamie Brewer, attrice trentenne, nota per il suo ruolo in "American Horror Story", ha sorpreso tutti, scrivendo una nuova pagina nella storia dell'evento. A chiederle di mettersi in gioco è stata la stilista Carrie Hammer, per la quale è importante che sfilino "modelli" ed esempi di vita piuttosto che semplici modelle. "È bello poter essere una fonte di ispirazione per le donne e incoraggiarle ad essere e a mostrare chi sono", ha spiegato la Brewer. "Ragazze, guardatemi e dite: 'Hey, se può farlo lei, posso farlo anch'io!".
Lo show della neo-modella fa parte della campagna, inaugurata dalla stilista, "Role Models Not Runway Models": invece di usare le tradizionali modelle, la designer invita a sfilare le sue clienti. Etnie diverse, caratteristiche fisiche differenti: secondo la Hammer, le donne in passerella devono portare il pubblico a riflettere. Da qui la decisione, lo scorso anno, di invitare la psicologa Danielle Sheypuk, prima modella a sfilare in sedia a rotelle. "Quando la vediamo in passerella, non pensiamo alla sua sedia a rotelle. Non la definiamo in questo modo".
Dopo il successo della sfilata della Sheypuk, la Hammer è stata incoraggiata a continuare nella sua iniziativa dalle migliaia di mail che riceveva ogni giorno. Fu proprio una di queste a portarla a scegliere la Brewer. Una mamma di una bambina affetta da sindrome di Down le suggeriva di invitare proprio l'attrice: "Penso che potrebbe essere un bellissimo esempio per la mia Grace. Jamie è meravigliosa. Ha una luce ed un entusiasmo incredibili".
La richiesta è stata soddisfatta. "Tutto è andato oltre ogni mia aspettativa - ha raccontato la stilista - quello che mi è piaciuto è che, durante lo show, tutti sorridevano".
Ilaria Betti
Il Fatto Quotidiano
13 02 2015
Che succede se una coppia di omogenitori litiga? Litiga di brutto, dico. Se litiga al punto da non riuscire più a portare avanti il progetto di crescere insieme un figlio. Se insomma si vuole separare. Un bel casino, succede. Infatti in Italia, a differenza che nelle famiglie normate, non è prevista la regolamentazione di una separazione, consenziente o unilaterale, per una coppia omosessuale, con o senza figli (diversamente sarebbe bislacco assai, non essendo legale l’omomatrimonio!). Quindi discutere di assegni familiari, tempi e modi per vedere il figlio, diritti e doveri di entrambi i genitori diventa un percorso talmente in salita da rischiare lo schianto. E naturalmente i figli ci vanno di mezzo.
Senza dubbio, non è un problema da poco, e vi spiego perché. Mentre il genitore riconosciuto (la madre o il padre biologici) ha tutti i diritti e tutti i doveri che il suo ruolo impone, l’altro (che in un paese civile sarebbe il padre o madre adottivi) in Italia non viene contemplato, quindi nemmeno il legame con il suo bambino – concepito e messo al mondo tanto quanto ha fatto il partner, seppure in modo diverso. Questo significa che, senza il consenso del genitore biologico, non c’è alcuna speranza di poter vedere il figlio, curarlo, prenderlo a scuola, ospitarlo in casa (saltuariamente o prevalentemente), portarlo in vacanza all’estero, e così via. Al contrario, il genitore biologico non potrà pretendere alcunchè dal co-genitore: aiuti economici in primis, ma anche tutto ciò che, in una separazione normale, viene stabilito tra le due parti.
Per capire meglio l’assurdo paradosso e il dramma che molti figli (molti di più dei 100 mila censiti quasi dieci anni fa) rischiano di dover subire per via di un governo che si ostina, nonostante i vari richiami, anche recentissimi, della Cassazione, a non legiferare in merito, ci ha pensato Rete Lenford, un gruppo di avvocati italiani uniti per difendere i diritti delle persone LGBTQI nel nostro vecchio paese. Che, qualche mese fa a Bergamo, ha organizzato, insieme all’Associazione Internazionale Mediatori sistemici, all’Università degli Studi di Bergamo, a Human Right Education, e ad Associazione Italiana Mediatori Familiari, un incontro chiamato Litigious Love con l’obiettivo di fornire una piattaforma di conoscenze pratiche e teoriche sul tema della mediazione familiare applicato alla risoluzione di controversie fra partner dello stesso sesso. Anche Sei come sei, il discussissimo romanzo di Melania Mazzucco aiuta a comprendere la drammaticità di questa situazione: è forse l’unica storia scritta in Italia sul tema, anche se la coppia in questione (due uomini con una bambina) si separa non per un conflitto ma per la morte di uno dei due partner.
Il fatto, insomma, è che una coppia omogenitoriale non può permettersi culturalmente di litigare. Sarà forse per questo che, secondo alcune statistiche, le omofamiglie sono più solide e meno litigiose? Oppure i conflitti restano dentro le mura di casa, danneggiando la vita del bambino, oltre quella dei due partner? Ha fatto molto discutere la separazione tra la figlia di Vecchioni, Francesca, e la sua compagna, coppia-simbolo, fino a poco tempo fa, delle Famiglie Arcobaleno. Renzi stesso aveva scelto Francesca per parlare dell’Italia che cambia, aperta ai diritti civili come il resto del mondo.
E allora viva i Tribunali e i Comuni, più svelti e coraggiosi dei legislatori, che a colpi di sentenze e trascrizioni cercano disperatamente di non perdere troppi passi coi tempi e di non lasciare troppe persone, troppi bambini (futuro della nostra Italia), irrimediabilmente indietro: esclusi.
Eugenia Romanelli
Huffington Post
12 02 2015
Jon ha 21 anni e Alex 25. Sono una coppia gay che vive a San Pietroburgo, in Russia. Il fotografo danese Mads Nissen li ha ritratti durante un momento intimo, e questo scatto di grande forza è la foto vincitrice del World Press Photo 2014. "È un momento storico per l'immagine...la foto vincente deve essere estetica per avere un impatto e deve avere potenziale per diventare iconica. Questa foto è esteticamente potente ed ha umanità", ha commentato il presidente della giuria del premio mondiale più importante di fotogiornalismo, Michele McNally, direttore della fotografia e assistente della direzione editoriale del New York Times.
La foto acquista ancora maggiore forza perché racconta un momento storico in cui la vita delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender è minacciata dal conservatorismo estremo e sempre più difficile in Russia, ancor più che nel resto del mondo.
Ogni anno il World Press Photo si conferma punto di riferimento per il fotogiornalismo. Sono i numeri a parlare: 5.692 fotoreporter, fotogiornalisti e fotografi documentaristi dislocati in 131 paesi che hanno inviato 97.912 immagini che raccontano il mondo e gli avvenimenti salienti recentemente vissuti: da Gaza all'Ucraina, dall'Ebola a Lampedusa, ma anche sport, ritratto e lifestyle.
Quest'anno i fotogiornalisti italiani premiati nelle diverse categorie sono parecchi: Michele Palazzi, Massimo Sestini, Gianfranco Tripodo, Paolo Verzone, Andy Rocchelli, Fulvio Bugani, Giovanni Troilo, Giulio Di Sturco, Paolo Marchetti.
Arianna Catania
Huffington Post
12 02 2015
Sabato 14 febbraio una quantità di personalità e di organizzazioni - Cgil, Fiom, Arci, Attac, Flc-Cgil, Fp-Cgil, Rete della conoscenza, Act, Tilt, Forum italiano dei movimenti per l'acqua, L'altraEuropa, partiti della sinistra ed esponenti della sinistra di partiti che fanno ormai fatica a connotarsi come tali - tutti quelli, insomma, che avevano firmato l'appello 'Cambia la Grecia Cambia l'Europa' a favore del nuovo governo greco, si ritroveranno in piazza a Roma.
Analoghe manifestazioni e sit in sono promossi in questi giorni in moltissime città italiane così come in altri paesi europei. Per dire che sarebbe fatale per l'Europa se a Bruxelles non capissero che occorre cambiare politica, a cominciare dal caso greco.
La novità è che oramai una parte importante dell'opinione pubblica - anche tedesca, come dimostra fra l'altro il sostegno offerto dai sindacati di quel paese alle proposte di Syriza - ha capito che le cose stanno assai diversamente da come i media l'hanno raccontata: non è la Grecia che deve chiedere un favore all'esecutivo dell'Ue, ma, al contrario, è questo esecutivo che deve chiedere scusa ai greci. Per aver sbagliato tutto: per essersi fidato - e per continuare a fidarsi - degli uomini che hanno fin qui governato la Grecia e per averli indotti a perseguire una linea che ha portato al disastro.
Deve infatti essere chiaro che la catastrofe greca non è stata provocata solo dalla crisi ma anche dalla dissennata politica di bilancio e fiscale promossa dal governo Samaras. Tutto questo era evidente già dal 2008. Sebbene la troika fosse ben consapevole - lo ha anche dichiarato pubblicamente - che quel governo di Atene non solo aveva consentito un'impensabile esenzione fiscale ai più ricchi ma aveva addirittura falsificato i bilanci statali, essa ha continuato a dire che se alle elezioni Samaras non fosse tornato a vincere sarebbe stato un disastro.
Dopo due anni di medicine "bruxellesi", nel 2010 il Pil del paese era già sceso di 10 punti. È allora intervenuta una consistente ristrutturazione del debito che però, anziché essere mirata alla ripresa dell'economia reale, è stata utilizzata sostanzialmente per ripagare i crediti privati detenuti dalle banche (quasi tutte tedesche), così ulteriormente allontanando ogni possibilità di ripresa. Il risultato: due anni dopo il Pil era crollato a meno 25 per cento e la disoccupazione a più 18, mentre nessuna, dico nessuna, riforma fiscale era stata avviata.
Che le cose stiano proprio così lo riconoscono ormai non solo un largo numero di economisti stranieri di fama (buon ultimo John Galbraith), ma lo stesso Fondo Monetario Internazionale nel suo più recente documento.
I veri colpevoli della drammatica situazione della Grecia sono dunque i suoi presunti salvatori e i loro complici ad Atene. Quelli che alla vigilia delle elezioni hanno gridato che se Syriza avesse vinto la Grecia sarebbe diventata come la Corea del Nord.
Le ragioni per manifestare e gridare queste verità come si vede sono molte. Anche se a Bruxelles sono sordi. O meglio: cercano di nascondere le scelte che hanno compiuto per difendere specifici interessi che non hanno nulla a che vedere con quelli del popolo greco e dell'Europa tutta con la predica filistea secondo cui chi ha preso in prestito danaro deve restituirlo. Ma se per ottenerlo prima ti ho strozzato è evidente che quel debito non potrò mai pagarlo. È come Melchisedech che se la prendeva col proprio asino perché, proprio quando gli aveva insegnato a non mangiare, era morto.
Quel che il governo Tsipras oggi chiede, e con lui tutti quelli che stanno manifestando, è di aver almeno sei mesi di tempo per riparare ai guasti prodotti in sei anni dalla troika e dai precedenti governi greci. Per poter restituire, non per non farlo, sapendo che se invece si subisce il diktat della troika quel debito non potrà mai essere pagato. Perché la Grecia sarà morta. Come è stato ripetuto ormai da molti il problema è politico, non finanziario: e così la soluzione possibile.
Luciana Castellina
Huffingtonpost
11 02 2015
Sarebbero circa 300 le persone morte nel naufragio di quattro gommoni avvenuto due giorni fa davanti alle coste libiche. A raccontarlo sono stati i nove superstiti raccolti da un mercantile italiano e giunti stamane a Lampedusa con una motovedetta della Guardia Costiera.
I migranti erano in 105 e 107 sui due gommoni che sono stati travolti dalle onde del mare in tempesta. Secondo l'Unhcr si tratta della peggiore strage in mare dal 3 ottobre 2013, quando al largo dell'isola delle Pelagie si inabissò un barcone con oltre 400 persone a bordo.
Terribili i racconti di due giovani del Mali che sono riusciti a salvarsi: i trafficanti li avrebbero costretti a salire sulle barche minacciandoli con le armi. "Da alcune settimane eravamo in 460 ammassati in un campo vicino Tripoli in attesa di partire. Sabato scorso i miliziani ci hanno detto di prepararci e ci hanno trasferito a Garbouli, una spiaggia non lontano dalla capitale libica. Eravamo circa 430, distribuiti su quattro gommoni con motori da 40 cavalli e con una decina di taniche di carburante". La traversata sarebbe costata mille dinari - 650 euro: ""Ci hanno assicurato che le condizioni del mare erano buone, ma in ogni caso nessuno avrebbe potuto rifiutarsi o tornare indietro: siamo stati costretti a forza a imbarcarci sotto la minaccia delle armi".
"Complessivamente erano quattro i gommoni con i migranti a bordo - ha spiegato Carlotta Sami dell'Unhcr all'Adnkronos - su uno c'erano anche i 29 profughi poi morti assiderati e i 76 superstiti. Su altri due gommoni c'erano più di 210 persone. Di queste ne sono state tratte in salvo solo nove". Secondo il racconto dei superstiti ai mediatori culturali su un gommone c'erano 105 immigrati e sull'altro 107. "Uno dei due gommoni è affondato - raccontano tra le lacrime - e l'altro si è sgonfiato davanti provocando il panico a bordo". I nove superstiti sono stati tratti in salvo dal rimorchiatore che poi li ha trasportati a Lampedusa.
Due dei superstiti erano a bordo del gommone su cui si trovavano i 29 immigrati morti per assideramento e i 76 tratti in salvo e che oggi sono ospiti del Centro d'accoglienza dell'isola di Lampedusa. Altri sette migranti si trovavano invece su un secondo gommone, con a bordo, secondo il loro racconto, 107 persone. Ai mediatori culturali hanno raccontato, in queste ore, con il terrore ancora negli occhi, che il gommone su cui si trovavano si è sgonfiato ed è affondato nel Canale di Sicilia, trascinando nel mare 100 profughi. "Abbiamo visto morire tante tante persone che erano a bordo del nostro gommone", hanno raccontato tra le lacrime.
Due dei quattro gommoni avrebbero fatto naufragio lunedì pomeriggio, tra le 15 e le 16, dopo essere stati capovolti dalle onde del mare forza 8. I nove superstiti sarebbero riusciti a salvarsi rimanendo aggrappati disperatamente ai tubolari prima di essere soccorsi da un rimorchiatore italiano. La Guardia Costiera, che negli ultimi due giorni ha partecipato con grande impegno e spirito di abnegazione alle operazioni di soccorso che si sono svolte al limite delle acque libiche, sta valutando il racconto dei nove superstiti. La zona del naufragio, nonostante le proibitive condizioni meteo, è già stata perlustrata dalle unità intervenute sul posto e da un aereo Atr 42 alla ricerca degli oltre 200 dispersi sulla cui sorte non vi sarebbero purtroppo speranze.
Inevitabili le polemiche delle associazioni umanitarie, Save The Children e Unhcr, che chiedono l'intervento urgente del governo italiano per ripristinare Mare Nostrum. "Chiediamo che il Governo Italiano si attivi immediatamente esigendo un incontro urgente e straordinario del Consiglio dei Ministri dell'Interno dell'Unione Europea per ripristinare l'operazione Mare Nostrum o un sistema di soccorso simile", ha dichiarato Valerio Neri, direttore generale di Save The Children.
Il ministro per gli Esteri, Paolo Gentiloni, ha ammesso: "Triton non è sufficiente".
L'operazione Triton, lanciata dall'agenzia europea Frontex, ha sostituito completamente Mare Nostrum alla fine del 2014 nonostante le forti critiche anche della Marina militare italiana, che metteva in guardia sulla possibilità che avvenissero nuove tragedie del mare come questa.
Il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) chiede che "l'Europa cambi strutturalmente il suo impegno" nei confronti dei salvataggi in mare.
Inoltre, i dati parlano chiaro: gli sbarchi sono aumentati. Nel solo mese di gennaio 2015, nonostante le condizioni climatiche avverse dell'inverno, sono giunti in Italia 3.528 migranti, di cui 195 donne e 374 minori (374 non accompagnati), circa il 60% in più rispetto allo stesso periodo del 2014 quando erano arrivati 2.171 migranti, di cui 91 donne e 342 minori (262 non accompagnati).
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10 02 2015
Si è concluso venerdì 6 febbraio il tour italiano dell'attivista e scrittrice canadese Naomi Klein, pluri insignita autrice di due testi divenuti pietre miliari nella scarna letteratura main stream che approccia ad una critica di sistema rispetto agli assetti dell'economia globale.
Dopo No Logo e Shock Economy, best seller da un milione di copie ciascuno tradotti in 30 lingue e distribuiti in tutto il mondo, la Klein è in giro per il pianeta per presentare la sua nuova fatica. Più di cinque anni di lavoro profuso in oltre 700 pagine Una rivoluzione ci salverà - Perchè il capitalismo non è sostenibile è appena uscito anche in Italia, edito da Rizzoli.
La Klein ha l'indiscusso merito di aver portato la questione del cambiamenti climatici all'attenzione di un pubblico molto più ampio dell'ambito dei tecnici e degli attivisti interessati a tali questioni. Dopo le presentazioni a Mantova e Venezia, la scrittrice è giunta a Roma per l'ultima data italiana tenutasi il 4 febbraio: un grande evento promosso da diverse realtà sociali in collaborazione con la Rizzoli: l'Associazione A Sud, Action e Spin Time, il cantiere di rigenerazione urbana ubicato a San Giovanni, recuperato ed autogestito da oltre un anno dopo 10 anni di abbandono, che ha ospitato il partecipatissimo evento per il quale sono giunte circa 1.000 persone.
Salvare il clima o il capitalismo?
Il titolo originale This change everything - Capitalism VS The Climate rendeva di certo maggior giustizia alla tesi di fondo contenuta nel libro: il 97% degli scienziati sono concordi nel ritenere che il clima sta cambiando in maniera rapida e irreversibile e che per farvi fronte è necessario ridurre le emissioni del 70% entro il 2050. Questi i numeri contenuti nell'ultimo rapporto dell'Ipcc, il panel delle Nazioni Unite creato nel 1988 con l'obiettivo di studiare le variazioni del clima, valutandone cause e soluzioni. Una tale riduzione sarebbe possibile soltanto con un radicale e repentino cambiamento di paradigma economico: transizione energetica, riconversione ecologica, rivoluzione dei modelli di consumo e di trasporto. Tutte misure che necessitano di pianificazione pubblica e di distogliere fondi dagli investimenti speculativi per investirli in politiche di decarbonizzazione, in netta rotta di collisione con il mantenimento delle regole di funzionamento del capitalismo deregolamentato, per dirla alla Klein, aiutato nella generazione di disuguaglianze da politiche di austerity, trattati di libero commercio e privatizzazioni.
In altre parole, scrive la Klein, siamo di fronte ad una scelta di campo: salvare il pianeta dai cambiamenti climatici salvando anche noi attraverso un immediato cambio di rotta, oppure salvare il capitalismo così come lo conosciamo, e assieme ad esso gli interessi delle èlite, delle multinazionali del petrolio e dei colossi economici e finanziari.
La rimozione della questione "clima" in Italia
Si tratta di un approccio radicale che non trova spazio nelle riflessioni e nelle proposte politiche che contraddistinguono il panorama italiano. Ne parlasse chiunque altro, in qualunque italico consesso, sarebbe additato quale pericoloso estremista. Ma siccome si tratta di un'icona mondiale, che raccoglie attorno a sé attenzione quasi morbosa, anche nel nostro paese per un paio di giorni il clima è sembrato essere una preoccupazione generale.
Inutile dire che in Italia il tema dei cambiamenti climatici è totalmente assente dall'agenda politica ed dal dibattito pubblico, nonostante sia alle porte l'attesa Cop 21 a Parigi, dove i governi si ritroveranno per siglare l'accordo destinato a sostituire il Protocollo di Kyoto. Ciononostante non vi è politico, giornalista, analista, imprenditore o semplice cittadino che abbia a mente o ritenga importante discutere della minaccia rappresentata dal riscaldamento globale. Minaccia tutt'altro che astratta, che per milioni di persone in tutto il mondo vuol dire possibilità o meno di futuro sotto forma di desertificazioni, inondazioni, innalzamento dei livelli del mare, eventi estremi, sfollamenti forzati, flussi migratori senza precedenti.
Solo a settembre il premier Renzi, partecipando al Climate Summit di New York aveva dichiarato che il clima deve essere "una priorità per la politica, la sfida principale da affrontare, come la scienza consiglia, e che dobbiamo garantire ai nostri figli che a Parigi gli impegni saranno vincolanti". Peccato che, neppure due mesi dopo, il suo governo condizionava con doppio voto di fiducia, alla Camera e al Senato, la conversione in legge del decreto Sblocca Italia, che condanna il paese a tutt'altro futuro: mega infrastrutture, perforazioni petrolifere off shore, raddoppio delle estrazioni on shore, incenerimento dei rifiuti, privatizzazioni, centralizzazione dei poteri concessori e di valutazione degli impatti presso i ministeri, a scapito degli enti locali e dunque delle comunità.
La Klein in Parlamento
Durante la mattinata del 4 febbraio la scrittrice è stata ricevuta in parlamento da una delegazione di parlamentari. A convocare l'incontro, cui hanno partecipato anche rappresentanti del Pd, del M5S e del gruppo misto, il gruppo parlamentare di Sel.
Dopo averne ascoltato le parole, Nichi Vendola ha ringraziato la scrittrice perché "svela cosa c'è dietro tanti discorsi: l'urgenza di intervenire sul modello di capitalismo distruttivo e sul concetto stesso di ricchezza". Il gruppo di Sel si è detto disponibile a lavorare verso Parigi per costruire strumenti di incidenza istituzionale, a partire dalle amministrazioni locali in cui hanno incarichi di governo e sostenere processi sociali di articolazione e mobilitazione. Ulteriore intenzione espressa, quella di lavorare affinché il governo arrivi a Parigi con proposte di riduzione ambiziose e sostanziate da politiche nazionali coerenti. Chiaro che in questo scenario, con lo Sblocca Italia in via di implementazione e un Ministro dell'Ambiente più preoccupato della crescita economica che della salvaguardia del territorio, la possibilità che quest'ultima evenienza si avveri è tutta da verificare.
Serena Pellegrino, deputata di Sel, membro della Commissione ambiente, ha riportato ai presenti notizia della creazione, a settembre scorso, di Globe Italia, l'intergruppo parlamentare Camera-Senato per i cambiamenti climatici. Entità nuova di cui nessuno dei presenti, comprese le realtà sociali operanti sul tema, avevano contezza. Del resto, come la stessa Pellegrino ha rilevato, sino ad ora i lavori del gruppo si sono risolti in un unico incontro e non vi è all'orizzonte la previsione di un piano strategico di lavoro in grado di condurre le istituzioni italiane con posizioni avanzate all'appuntamento parigino.
Presente all'incontro anche Stefano Fassina del Pd, che ha ribadito, come affermato dalla Klein, il ruolo dei Trattati di Libero Commercio nell'imposizione di regole stringenti che imbrigliano ogni anelito di cambiamento. Nel suo intervento ha accennato alle negoziazioni in corso per la sigla del Ttip, il Trattato transatlantico tra Usa e Ue, sollevando i rischi connessi a tale sigla. Tra essi, per citarne solo alcuni, l'implementazione in Europa di tecniche estrattive non convenzionali come il fracking, l'introduzione di Ogm e di enormi quantità di biocombustibile prodotto senza rispettare alcun criterio di compatibilità ambientale.
In Italia una rete sociale che raccoglie centinaia di gruppi locali sta portando avanti la campagna Stop Ttip Italia, con l'obiettivo di fare informazione e pressione contro questo trattato, che certo gode dell'appoggio incondizionato del partito di appartenenza di Fassina, a partire da Carlo Calenda, vice ministro dello Sviluppo Economico di Renzi e incaricato per l'Italia delle negoziazioni, che ha appena lasciato, notizia di ieri, Scelta Civica per ingrossare le fila del Partito democratico. Contro il Ttip è possibile firmare l'Ice, iniziativa dei cittadini europei, a questo link.
Che clima per l'informazione?
Ultima riflessione stimolata dalla presenza in Italia della Klein riguarda l'annoso tema dell'informazione. Oggetto di un'operazione di continua rimozione da parte dei media, soprattutto main stream, le questioni ambientali latitano nella percezione dell'opinione pubblica, e i cambiamenti climatici non fanno eccezione, anzi. Al di là di riviste specializzate e testate tematiche, neppure la pubblicazione dei report scientifici dell'Ipcc o gli stessi vertici internazionali riescono a bucare il velo di silenzio. In Italia si parla di clima soltanto quando, peraltro ormai ciclicamente, Genova finisce sott'acqua, o se un alluvione si porta via vite, case, attività economiche e speranze di interi territori. Ma anche in quel caso, il legame con l'emergenza climatica globale è tutt'altro che espressa.
Ospitata in diversi programmi Tv, da Ballarò, in cui un disguido tecnico ha interrotto bruscamente l'intervista, impedendo di ascoltarne le parole, a Pane Quotidiano, e su testate come Corriere della Sera, Repubblica, La Stampa, Il Fatto Quotidiano, Il Manifesto, L'Indro etc. la Klein ha riportato per 48 ore sui media main stream la questione connessa al contrasto ai cambiamenti climatici. Il che di per sé è già un merito enorme.
Merito che diverrebbe un miracolo se si riuscisse a passare dall'attenzione per il personaggio all'attenzione per i temi, sia da parte del mondo politico che dell'informazione, traducendo tale attenzione nel dare voce e seguito a chi, su questi temi, lavora tutti i giorni, non solo al passaggio della star di turno.
Huffingtonpost
09 02 2015
Mercoledì 4 febbraio, le due madri di Leon hanno finalmente avuto la gioia di vedere l'atto di nascita argentino del loro figlio trascritto nei registri dello stato civile italiano del comune di Roma. Leon ha sempre avuto due mamme e sicuramente capisce poco di ciò che succede davvero. Ma Sofia e Alejandra hanno ben chiaro che anche in Italia e non solo nel resto del mondo occidentale, Leon ha due mamme. Una bella e grande soddisfazione specie per Sofia, cittadina italiana che aveva a cuore di trasmettere al figlio la sua cittadinanza. È cosa fatta ormai.
Una bella vittoria per loro tre e per tutte le famiglie arcobaleno che vedono un'altra breccia nel muro che tra poco, speriamo, crollerà sulla testa di tutti gli omofobi nostrani.
Sofia è originaria di Salerno e proprio perché viene spesso a trovare i suoi genitori, ho avuto la fortuna di conoscerla quasi 7 anni fa. Le sere d'estate insieme a Alejandra parlavamo ore intere del desiderio di diventare mamme e della paura di fare il passo. La loro più grossa paura era in effetti non potere essere riconosciute entrambe come genitori e di vivere sempre in balia del caso, delle emozioni anche negative, dei rischi di vedersi un giorno allontanata dal figlio. Alejandra aveva già vissuto una storia precedente dolorosa dove la separazione dalla compagna. La separazioni infatti aveva significato anche l'allontanamento dai figli di lei che Alejandra aveva contribuito a crescere. In quel caso i figli c'erano prima di lei ma nel progetto che maturava in loro, il o i figli erano un progetto di coppia e l'impegno emotivo, personale richiesto era ancora più importante. Perciò erano legittime le paure e i dubbi.
Nel frattempo, estate dopo estate, noi continuavamo a vederci e discutere e sognare e vedere anche realizzati i nostri sogni. Lisa Marie, nostra primogenita, aveva già 5 anni quando Sofia e Alejandra sono diventate nostre amiche e ricordo come erano attente con lei e anche rassicurate nel vederla crescere serena e felice con due mamme.
In Argentina accedere alle Pma per le single e coppie lesbiche era già possibile e cosi un'estate Sofia arrivò col pancione. E poi nacque Leon e poi l'Argentina votò la legge sul matrimonio ugualitario e poi finalmente Leon divenne legalmente figlio di entrambe in Argentina.
Nel frattempo io e Raphaelle ci chiedevamo se a 48 anni era giusto mettere al mondo un secondo figlio e se fisicamente ce l'avremo fatta e passammo un'altra estate in giardino a discutere con Alejandra e Sofia se farlo o no. E devo dire che fu facile convincerci di si vedendo Ale a 56 anni correre dietro a Leon giornate intere. Così nacque Andrea, il nostro secondogenito.
E anche in Francia fu votata la legge sul matrimonio ugualitario. E io e Raphaelle ci sposammo e alcuni mesi dopo i nostri due figli hanno finalmente avuto anche loro due genitori legali. Così come noi sono centinaia le famiglie oggi che hanno figli con due madri o due padri legali all'estero. Famiglie riconosciute ovunque nel mondo occidentale tranne che in Italia. Perciò siamo pronti a fare valere il diritto dei nostri figli a non perdere un genitore passando un confine e presto ci saranno altri bimbi iscritti all'anagrafe italiana con due mamme o due papà.
Gli omofobi si chiedono se possono dirsi contro senza incorrere nei peggiori epiteti. Io rispondo decisa no. Se uno è contro non si deve stupire di essere tacciato come omofobo, reazionario, chiuso di mente, ma soprattutto irresponsabile.
Perché uno dovrebbe essere "contro"? Contro cosa esattamente? Contro il fatto che in questo caso il bimbo, figlio di italiana, sia diventato cittadino italiano? Contro il fatto che non perda una mamma entrando in italia? Contro il fatto che l'Argentina e quasi tutto il mondo occidentale abbiano legiferato a tutela dei minori figli di genitori omosessuali? Contro il fatto che il piccolo sia finalmente tutelato? Contro il fatto che nessuno mai potrà adesso togliergli una madre? Contro il fatto che sia sereno per sempre e abbia garantito la continuità dei suoi affetti e dei suoi beni? O infine contro il fatto che potrà ereditare dai 4 nonni anche senza fare testamento?
Chiunque è contro dice chiaramente di essere contro il benessere e la serenità di un bimbo nato dall'amore di due donne, cresciuto dall'impegno loro, quotidiano e continuo.
Non si può essere contro. Qualche mente ottusa può non gradire. Pazienza. Molti possono interrogarsi ed è giusto. Ma dirsi contro è soltanto fare prova di totale chiusura e cecità nei confronti dell'interesse di un minore. Nessuno può con decenza sostenere che sarebbe stato meglio per Leon, per Lisa e Andrea e per migliaia di altri bambini e ragazzi non vedere riconosciuto dalla legge il legame di filiazione che li colleghi per sempre al genitore intenzionale e alla sua parentela. Questo legame desiderato da noi genitori omosessuali testimonia essenzialmente la responsabilità che vogliamo assumerci di fronte alle scelte compiute e dà ai nostri figli la garanzia di potere contare sul sostegno, la presenza, l'affetto, la cura dei loro due genitori per sempre. E questo sarebbe male verso cui essere "contro"?
Huffingtonpost
09 02 2015
RIO DE JANEIRO - Non lo sapevo: anche la Colombia è punteggiata da un tappeto di mine che azzoppano e spesso uccidono i contadini impegnati nei campi. Oltre mezzo secolo di guerriglia, di raid militari, di assalti e violenze degli squadroni della morte hanno lasciato sotterrati migliaia di ordigni che le piogge, il tempo e l'assenza di mappe affidabili finiscono per fare scempio di ragazzini, donne, uomini, animali, famiglie intere.
Secondo la Campagna colombiana contra minas (Cccm), un'associazione civile che raccoglie le vittime storpiate da questo vero incubo, le persone colpite in tutto il paese sarebbero 11 mila. Qualcosa che ricorda da vicino l'Afghanistan i cui terreni, molti abbandonati e deserti, sono ancora costellati da milioni di mine. Nessuno conosce la loro esatta posizione. Signori della guerra, soldati dell'Armata rossa sovietica, mujihaddin, Taleban, militari americani e della Coalizione internazionale. Tutti si sono avvicendati negli ultimi quarant'anni tra scorribande e occupazioni. Le piogge incessanti, le mappe perdute o imprecise, la serie interminabile di bombardamenti e di lanci di artiglieria, rendono impossibile un serio inventario. Gli afgani si arrangiano come hanno sempre fatto: delimitano con pietre bianche le zone sicure e circondano con sassi punteggiati di rosso quelle proibite. Ma sono troppo vaste e costose per sminarle; le hanno abbandonate a loro stesse. Non sono pochi i ragazzini che saltano in aria mentre sfrecciano con i loro skateboard nelle periferie delle città.
In Colombia il governo ha iniziato a scandagliare i terreni per anni teatri di scontri e di incursioni tra le Farc e l'esercito. Ma i continui cambi di fronte, le conquiste e le sconfitte, mutano lo scenario e costringono i contadini a usare l'istinto per sopravvivere. L'ultima vittima, racconta Elisabeth Reyes sul Pais, è un ragazzo di 13 anni. Viveva a Caño Limón, un villaggio del dipartimento di Arauca, poco lontano da uno dei giacimenti petroliferi più importanti della Colombia. È saltato su una mina sotterrata nel giardino di casa. Nello scoppio ha perso una gamba, un braccio e un occhio. È sopravvissuto ma possiamo immaginare quale sarà la sua esistenza.
Non si sa come un ordigno simile possa essere scivolato nel pezzo di verde che circondava la fattoria della sua famiglia. Il padre ricorda che dietro la collina che sovrasta la zona si erano accampati per settimane delle pattuglie di soldati. "Quando se ne sono andati è arrivata la guerriglia e ha disseminato l'area di mine", racconta. "Fanno sempre così. Per difesa e per rendere inaccessibili i luoghi".
Auraca è una delle regioni che segue con ansia crescente i colloqui in corso da 18 mesi a L'Avana tra una delegazione delle Farc e quella del governo di Manuel Santos. Attende ciò che in Colombia tutti chiamano il "disimpegno del conflitto": la smilitarizzazione di intere aree adesso al centro della guerra di guerriglia. Guillermo Murcia, 32 anni, fa parte di un gruppo di 60 vittime delle mine, scelte in tutto il paese per incontrare le due delegazioni a Cuba. "Probabilmente", commenta, "finiranno per tacere i fucili ma le mine continueranno a mietere le loro vittime. Sono silenziose, subdole, nascoste. Pronte a colpire. Chi è responsabile di queste trappole deve provvedere a disinnescarle. Con le loro mappe e i loro strumenti".
Ma anche qui, come in Afghanistan, non sarà facile. Non sempre chi ha piazzato gli ordigni ha appuntato sulle carte l'esatta posizione; le piogge filtrano i terreni e l'acqua, con il fango, li rende mobili. Un contadino di 40 anni è saltato in aria il 27 dicembre scorso mentre arava un terreno come faceva da sempre. Nessuno si spiega come quella bomba sia potuta infiltrarsi tra le zolle. La sua proprietà sorge lungo il confine con il Venezuela diventata da anni zona di contrabbando per la benzina e altri generi di prima necessità. Il governo di Caracas ha provveduto a minarla. Ma questo più che frenare il florido commercio illegale ha finito per creare un deserto dove chi non ha nulla, se non il proprio campo, è costretto a zappare e spesso a saltare in aria.
Solo in quest'area ci sono state 28 vittime l'anno scorso; 40 nel Dipartimento di Murcia; 596 in tutto il paese. Il governo colombiano ha creato un battaglione di 394 artificieri che si alternano lungo le aree rurali smilitarizzate dalla guerriglia e dall'esercito. Ma quelle ancora contese non sono state toccate: si stima che almeno 57 località in dieci Dipartimenti sono a rischio. In realtà il numero è ben più alto: 688 municipi hanno chiesto l'intervento degli artificieri. Dovranno attendere. Ci vogliono soldi e più uomini. Ma soprattutto le mappe che una guerriglia vecchia di 60 anni, divisa e un po' desueta, deve fornire. Senza un accordo pieno tra Farc e governo niente bonifica. Il tempo scorre e la nuova classe dirigente colombiana è troppo giovane per attendere l'annuncio di una vera pace che tutti vogliono ma tarda ancora ad arrivare.
Huffingtonpost
03 02 2015
Arso vivo in una gabbia. È stato ucciso così il pilota giordano Muath Kasasbeh catturato dall'Isis alla vigilia di Natale. Lo riferisce Rita Katz, responsabile di Site, l'organizzazione che monitora i siti web jihadisti. La notizia dell'uccisione del giovane pilota è stata confermata dall'esercito giordano, che ha fatto sapere che la famiglia era stata avvertita prima della diffusione delle immagini. L'uomo, in realtà, sarebbe stato ucciso già il 3 gennaio scorso, notizia anche questa confermata da Amman. Il suo corpo sarebbe stato sepolto da un bulldozer sotto le macerie: la stessa fine - secondo la propaganda jihadista - delle vittime dei bombardamenti aerei della Coalizione internazionale, i cui resti compaiono nello stesso filmato.
Muath Kasasbeh, 26 anni, era stato catturato il 24 dicembre dai miliziani dell'Isis. L'organizzazione terroristica, dopo aver detto di averlo ucciso ai primi di gennaio, ultimamente aveva chiesto la liberazione della terrorista qaedista Rajada al Rishavi in cambio della vita del pilota. Amman era d'accordo, ma voleva prima la prova che fosse vivo. Prova che, evidentemente, non è mai arrivata, visto che l'uccisione era in realtà avvenuta già il 3 gennaio.
Le immagine sono di una crudezza senza eguali, oltre che "curatissime" dal punto di vista "scenografico". Le si vorrebbe credere uscite da un film, piuttosto che dalla volontà sadica di uomini in carne e ossa, senza scrupoli. In una foto appare il pilota giordano, vestito con la consueta tuta arancione, chiuso in gabbia con una lingua di fuoco che procede verso di lui. Subito dopo appare avvolto dalle fiamme; in un'altra immagine si vedono i resti del corpo carbonizzato. Manca ancora una verifica indipendente dell'attendibilità delle immagini. Al momento non è apparsa neanche la versione integrale del video ma solo alcuni fermo immagine. Secondo al Jazeera, il video sarebbe stato diffuso dalla casa di produzione dell'Is Furqan e intitolato in inglese 'Healing of the Believers' Chests'.
La responsabile di Site ha pubblicato un collage di immagini nelle quali appare Muath Kasasbeh circondato da miliziani armati e a mezzo busto con un occhio tumefatto, mentre pronuncia un monologo.
Le immagini mostrano l'ostaggio, vestito di arancione, con un ematoma sotto l'occhio destro mentre pronuncia alcune frasi, ripreso in primo piano con alle spalle uno sfondo nero su cui compaiono alcune bandiere dei Paesi della coalizione anti-Isis (tra cui Canada, Francia, Usa, Regno Unito, Emirati arabi e Giordania). In una seconda sequenza si vede poi il pilota giordano in piedi davanti a un gruppo di miliziani armati schierati col volto scoperto e in tuta mimetica. Nell'ultima sequenza si vede l'ostaggio in una gabbia col fuoco che avanza e lo circonda.
Il video dell'uccisione del pilota giordano, la cui autenticità non è ancora stata dimostrata, è un'indicazione della "brutalità dell'Isis" e rafforza la "nostra determinazione" a sconfiggere l'Isis, è il commento del presidente americano, Barack Obama.
La tv satellitare al Jazeera, che ha dato per prima la notizia, ha detto di aver visionato il filmato ma che non intendeva pubblicarne le immagini perché "sono raccapriccianti anche per gli standard dello Stato islamico".
Kasasbeah era caduto - abbattuto secondo Isis - sui cieli siriani di Raqqa, la capitale dello Stato Islamico, il 24 dicembre mentre sorvolava la zona a bordo del suo caccia F-16. Isis aveva immediatamente lanciato un concorso online per chiedere alla rete come uccidere il pilota e il 2 gennaio aveva dato notizia di averlo eliminato. Archiviato il suo nome con la sua presunta morte, era tornato fuori il 20 gennaio con la richiesta di riscatto di 200 milioni di dollari avanzata da Isis a Tokyo per liberare i due ostaggi giapponesi, Haruna Yukava e Kenji Goto. Il 24 gennaio venne ucciso il contractor Yukava e allora Isis, rinunciando ai 200 milioni di riscatto, chiese la liberazione della terrorista qaedista Sajida al Rishavi. Quest'ultima è considerata da Isis un simbolo perché nel 2005 aveva partecipato ad un attentato suicida ad Amman in cui tre suoi complici, tra cui il marito, si fecero saltare in aria ad un matrimonio uccidendo oltre 50 persone. Il suo giubetto esplosivo non si innescò e lei tentò di dileguarsi mischiandosi alla folla dei sopravvissuti in fuga. Riconosciuta venne arrestata e l'anno dopo condannato all'ergastolo.
Amman aveva in linea di principio accettato di liberare la terrorista ma prima voleva la prova che Kasasbeah fosse ancora vivo. Il secondo giapponese, il giornalista Kenji Goto, venne decapitato tre giorni fa e sempre Isis diffuse il video della macabra esecuzione. Oggi le immagini dell'orrenda esecuzione del pilota giordano arso vivo in una gabbia di ferro.
Ora in mano allo Stato islamico resterebbe come ostaggio 'occidentale' solo la volontaria americana di 26 anni rapita in Siria nel 2013 e per cui lo scorso agosto Isis chiese un riscatto di 6,6 milioni di dollari. Tutti gli altri ostaggi noti, dagli americani James Foley (il primo decapitato il 19 agosto scorso) seguito da Steven Sottloff, Peter Kassig, e i britannici David Haines e Alan Henning, sono stati eliminati.