Luca Sofri, Il Post
9 settembre 2017
Il modo in cui molte delle maggiori testate giornalistiche hanno affrontato finora l'accusa di stupro contro due carabinieri a Firenze è sinceramente incredibile, nel 2017: è come se le pagine di denuncia contro la violenza sulle donne, contro il femminicidio, le pagine sull’equità per le donne, quelle del "Tempo delle donne" (già messe in quotidiano imbarazzo dal boccaccesco contenuto di alcune homepage degli stessi giornali) fossero state pubblicate da altre redazioni, in altri paesi, o come inserti di hobby e tempo libero.
Il Post.it
06 07 2015
Lo ha annunciato con un post sul suo blog a meno di 12 ore dalla vittoria al referendum del No, per rendere più facili le trattative
Yanis Varoufakis ha annunciato le sue dimissioni da ministro delle finanze della Grecia, a meno di 12 ore dalla vittoria del “No” al referendum sulle proposte dei creditori internazionali. Varoufakis, come il resto del governo Tsipras, aveva invitato la popolazione a votare contro e aveva detto annunciato che si sarebbe dimesso nel caso di una vittoria del “Sì”. In un post sul suo blog, Varoufakis spiega che l’esito del referendum di domenica 5 luglio “resterà nella storia come un momento unico in cui una piccola nazione europea si è ribellata alla stretta del debito”, ma di avere avuto notizie circa una “preferenza da parte di alcuni partecipanti all’Eurogruppo” della sua assenza dagli incontri previsti per i prossimi giorni, condivisa da Alexis Tsipras nell’ottica del raggiungimento di un nuovo accordo: “per questo motivo lascio il mio incarico di ministro delle Finanze oggi”.
Yanis Varoufakis ha 53 anni, è un economista e ha doppia nazionalità: greca e australiana. Ha studiato nel Regno Unito e ha insegnato in Australia, in Grecia e anche negli Stati Uniti: aveva lasciato la sua cattedra più recente, all’università di Austin, in Texas, per sostenere Tsipras nella campagna elettorale. Negli ultimi mesi più volte i giornali avevano scritto del nervosismo dei rappresentanti delle istituzioni europee per il suo comportamento durante i negoziati (a un certo punto venne fuori anche che aveva registrato degli incontri all’insaputa dei presenti) e sabato aveva definito «terroristi» i creditori internazionali.
Varoufakis è autore di diversi libri sulla crisi: in “The Global Minotaur”, per esempio, paragona il ruolo dell’economia degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo alla figura mitologica del Minotauro che si cibava di coloro che finivano nel labirinto. Molto attivo sui social network, è stato consigliere dell’ex primo ministro del Pasok George Papandreou (dal 2004 al 2006) e dal 2012 è stato anche consulente economico per Valve Corporation, un’importante società produttrice di videogiochi.
Varoufakis ha sempre criticato le politiche di austerità e il piano di salvataggio imposto dalla cosiddetta “troika” – Commissione europea, Fondo monetario e Banca centrale europea – sostenendo che ha causato innanzitutto una “crisi umanitaria” in Europa. Prima del suo insediamento a fine gennaio, aveva spiegato di voler mettere in atto importanti riforme per l’economia greca, «indipendentemente da quello che chiedono i creditori»: «Il nostro stato deve poter vivere con i soli propri mezzi, in un prossimo futuro. Siamo pronti a condurre una vita austera, cosa che è ben diversa dall’austerità».
La traduzione del messaggio di Yanis Varoufakis:
Non più ministro!
Il referendum del 5 luglio resterà nella storia come un momento unico per una piccola nazione che si è ribellata alla stretta del debito.
Come tutte le battaglie per i diritti democratici, lo storico rifiuto dell’ultimo Eurogruppo del 25 giugno porta con sé un caro prezzo. È quindi essenziale che il grande capitale ottenuto dal nostro governo con lo splendido risultato del “No” sia investito immediatamente in un “Sì” a una soluzione più consona: a un accordo che comprenda la ristrutturazione del debito, meno austerità, la redistribuzione per i più bisognosi e nuove riforme.
Poco dopo l’annuncio dei risultati del referendum, mi hanno fatto intendere che ci fosse una certa preferenza per una mia “assenza” da parte dei partecipanti all’Eurogruppo e di altri partner; un’idea che il primo ministro ha considerato potenzialmente favorevole per raggiungere un nuovo accordo. Per questo motivo lascio oggi l’incarico di ministro delle Finanze.
Considero un mio dovere quello di aiutare Alexis Tsipras, nel modo che ritiene più opportuno, per ottenere il massimo dal risultato che ci ha affidato ieri il popolo greco tramite il referendum.
Mi farò carico con orgoglio del disprezzo dei creditori.
Noi di sinistra sappiamo come agire insieme senza curarci dei privilegi che comportano i nostri incarichi. Per questo motivo sosterrò pienamente il primo ministro Tsipras, il nuovo ministro delle Finanze e il nostro governo.
Lo sforzo sovrumano per onorare il coraggioso popolo della Grecia, e il “No” che ha consegnato al mondo, è appena iniziato.
Il Post
25.02.2015
Due video saranno mostrati in tutte le prigioni dello stato di New York, dove il problema è molto diffuso: sono stati girati da un ex detenuto, stuprato in carcere
Nei prossimi mesi lo stato di New York mostrerà alle persone detenute nelle sue carceri un video orientativo, girato in due versioni diverse per uomini e donne, che offre consigli su come identificare ed evitare i “predatori sessuali” in prigione, per combattere gli stupri, la violenza e l’omertà in prigione.
I video, pubblicati sul sito del Marshall Project (una testata giornalistica no-profit e apolitica che racconta e analizza il sistema di giustizia penale degli Stati Uniti, il paese che ha più carcerati al mondo) sono stati finanziati dal governo federale grazie al Prison Rape Elimination Act (la prima legge americana che si occupa degli stupri dei carcerati) e diretti da T. J. Parsell, un ex-detenuto stuprato in prigione. Verranno mostrati inizialmente nelle prigioni in cui sono stati girati e poi in tutto lo stato. New York infatti ha un record negativo per quanto riguarda gli stupri in prigione: nel 2010 tre delle undici strutture americane in cui lo staff aveva abusato maggiormente dei detenuti si trovavano nello stato di New York. Soltanto dal 2009 tre agenti della prigione di Bedford Hills sono stati accusati di aver stuprato dei detenuti; e poi ci sono gli stupri compiuti dai detenuti ad altri detenuti.
In questa breve introduzione, dedicata ai detenuti uomini, T. J. Parsell racconta in breve lo scopo dei video – “non è per spaventarvi, ma per farvi affrontare meglio il periodo che dovrete passare in prigione” – e perché ha deciso di girarli (“avevo 17 anni quando sono arrivato in prigione, ero giovane e ingenuo, e non sono passate nemmeno 24 ore prima che venissi stuprato”).
Il video poi spiega anche che al giorno d’oggi le tattiche dei predatori sessuali sono diverse da quelle di trent’anni fa, quando si veniva stuprati tramite aggressione diretta; ora bisogna stare attenti alle persone che cercano di avvicinarsi troppo e guadagnarsi la fiducia di un carcerato per farlo sentire al sicuro e dipendente da lui.
Nel video, dedicato alle donne in carcere, una detenuta spiega che non bisogna stare attente soltanto alle altre carcerate ma anche allo staff, che può essere pericoloso quanto e più delle compagne di cella.
La guida spiega anche quali sono le situazioni da evitare, per non trovarsi in situazioni spiacevoli. La sicurezza di un detenuto dipende anche dal comportamento tenuto in alcuni momenti di interazione: per esempio sotto la doccia, dove non bisognerebbe mai togliersi la biancheria intima.
Il Post
29 01 2015
Clima sempre più teso nelle banche. Il settore infatti si ferma domani per lo sciopero proclamato dai sindacati di categoria. Una giornata di stop degli sportelli contro le condizioni poste dall’Abi sul rinnovo del contratto nazionale.
La protesta si aggiunge all’allarme lanciato in questi giorni da Assopopolari sul decreto che punta a trasformare le popolari più grandi in Spa. Secondo l’organizzazione il decreto determinerà una contrazione dell’occupazione stimata in una perdita di circa 20mila posti di lavoro (oltre che a una perdita di 80 miliardi di euro di crediti).
Il Post
16 12 2014
C’è stato un attentato contro una scuola di Peshawar, in Pakistan. Un gruppo di uomini armati è entrato e ha iniziato a sparare: secondo fonti ufficiali sono morte 104 persone tra cui 84 studenti. Decine di persone sono ferite, ma sono dati che potrebbero salire a giudicare dai racconti delle testate internazionali. L’attacco è stato rivendicato dai talebani ed è ancora in corso, come ha spiegato l’inviato della BBC: «Le strade di tutta Peshawar sono bloccate e i genitori degli studenti sono in panico».
La scuola si trova nel nord ovest del Pakistan. Ospita circa 500 ragazzini tra i 7 e i 14 anni, soprattutto figli di militari. Sembra che la maggior parte degli studenti sia stata evacuata. Alcuni testimoni che sono sopravvissuti e sono riusciti a fuggire hanno raccontato che gli aggressori erano sei o sette e che sono entrati all’interno dell’auditorium della scuola mentre diversi studenti erano riuniti per un corso di formazione al pronto soccorso. Il presidente del Pakistan Mamnoon Hussain ha condannato l’attentato e il governo ha annunciato tre giorni di lutto nazionale.
Nazione Indiana
09 07 2014
Questo articolo nasce in risposta a quello di Filippomaria Pontani apparso su Il Post. L’articolo di Pontani parte dall’assunto che occorra ‘raccontare gli immigrati’ dato che non lo si sta facendo bene, e quando lo si fa queste analisi ‘ricevono scarsa eco’. ‘Raccontare gli immigrati’ sarebbe necessario per via dello stillicidio che si sta consumando sul Mediterraneo, pur essendo meno urgente della necessità di salvare gli immigrati dal mare. L’articolo propone inoltre di fare i conti con la memoria coloniale per poter davvero cambiare le modalità narrative dell’immigrazione adottate finora. Sono felice che la questione sia stata sollevata: pensare che il modo di raccontare la realtà possa contribuire a cambiarla, vuole porre l’immigrazione in un discorso più ampio, in cui non si parla solo di sbarchi, ma anche delle opportunità da parte di un immigrato o di un’immigrata di progettare una vita in un paese refrattario a riconoscere il suo capitale sociale, umano, e culturale ma pronto a sfruttare la sua potenzialità economica (e sto parlando dei discorsi che ascolto sull’autobus, non solo di ciò che leggo nei libri e nei quotidiani). Non trovo nulla da ridire riguardo ad alcune affermazioni di Pontani, per quanto non siano esattamente una novità: pur ricevendo scarsa eco, già dieci anni fa il saggio Il cittadino che non c’è (Edup, 2004) di Ribka Sibhatu denunciava il modo in cui gli immigrati sono rappresentati nei media nazionali. Quello di Sibhatu era non soltanto il risultato di un lavoro di ricerca per il suo dottorato, ma anche una riflessione sulla condizione che la studiosa si trovava a vivere sulla propria pelle, essendo arrivata in Italia dall’Eritrea.
Altre questioni sollevate dall’articolo non mi trovano invece concorde. Pontani sostiene che l’immigrazione occupi ‘uno spazio tutto sommato modesto nella rappresentazione degli artisti e degli intellettuali’, e tra i pochi esempi virtuosi indica Terraferma di Emanuele Crialese (2011), un film che molti hanno criticato per la sua descrizione dei naufraghi nel Mediterraneo come presenze mostruose e minacciose. Indicare come priorità narrativa quella di ‘raccontare gli immigrati’ suggerisce che essi possano essere solo oggetti e non soggetti della propria narrazione, cancellando al contempo vent’anni di letteratura in lingua italiana realizzata da autori immigrati e relativa analisi critica. Quest’ultimo aspetto è accentuato dal frequente uso della dicotomia noi (italiani, soggetti narranti)/loro (immigrati, oggetti narrati) nell’articolo, e dalla scontatezza con cui quando si parla di artisti e intellettuali si presuppone che essi non siano immigrati a loro volta, ma intellettuali ‘italiani’ ‘puri’ ‘intenti a contemplare la grande bellezza della propria decadenza sulle indisturbate terrazze romane, o forse terrorizzati dal sempre incombente pericolo della retorica’. Pensare che ‘raccontare gli immigrati’ sia prioritario rispetto all’ascoltarne le voci è parte integrante del problema. Esiste addirittura un database, creato dall’Università La Sapienza di Roma, che elenca tutti i testi in lingua italiana realizzati da autori immigrati (http://www.disp.let.uniroma1.it/basili2001/). Mi si potrebbe obiettare che molti di quegli autori sono essi stessi intellettuali che scrivono di immigrazione, e che le loro voci non corrispondano esattamente a quelle ‘degli immigrati’ di cui si sente parlare sui giornali. È una critica sacrosanta, se non fosse che ‘gli immigrati’ esistono solo nella misura in cui non si ascolta ciascuna delle loro voci.
Solo per citare alcuni nomi, mi riferisco qui alle opere di Cristina Ali Farah, Amara Lakhous, Adrian Bravi, Gëzim Hajdari, Geneviève Makaping e Shirin Ramzanali Fazel. Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (E/O,2006) di Amara Lakhous ha vinto il premio Flaiano e il premio Racalmare-Leonardo Sciascia nel 2006, ed è stato tradotto in lingua inglese. Il poeta di origine albanese Gëzim Hajdari è considerato uno dei maggiori poeti italiani viventi, e ha vinto il premio Montale nel 1997. Lontano da Mogadiscio, uno dei primi testi a parlare del colonialismo italiano dalla prospettiva di un’autrice di origine somala è stato ripubblicato nel 2012 da Laurana in versione bilingue italiana-inglese. Come afferma lo scrittore e accademico italiano di origine brasiliana Julio Monteiro Martins nell’editoriale del numero 44 di Sagarana, rivista online sulla scrittura della migrazione da lui fondata, l’elenco dei riconoscimenti letterari o delle traduzioni ricevute non definisce certo la bravura di uno scrittore o di una scrittrice. Il valore di un’opera si misura piuttosto in relazione alla capacità di cogliere aspetti cruciali del mondo in cui viviamo, ed è precisamente quanto riconosco a questi autori e autrici (ma non sono i soli/le sole). Ciò nonostante, questi premi segnalano che non è possibile ignorare la portata dell’opera di alcuni di questi autori anche da parte dell’establishment culturale italiano (ma ciò accade puntualmente).
Lodando la Francia – ‘più sensibile di noi al tema dell’immigrazione’ – per avere aperto la Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration, Pontani chiude il suo articolo proponendo che ‘una delle tante architetture fasciste di Roma […] abbia a ospitare nel prossimo futuro non già l’ennesimo, inutile e costoso museo di arte contemporanea, bensì l’embrione di uno spazio espositivo dedicato a quanto sta avvenendo ormai da anni sotto i nostri occhi sempre più distratti’. Questa frase contiene due assunti. Il primo è gli immigrati non realizzino opere d’arte contemporanea, fornendo ulteriore conferma a quanto ho affermato in precedenza. Il secondo è che la creazione di un museo potrebbe ‘indirizzare una certa parte del mondo intellettuale e artistico verso questa problematica’ e portare a ‘un discorso pubblico condiviso’.
Pur apprezzando l’iniziativa francese ed essendo convinto che occorra fare i conti con l’ingombrante passato fascista risignificandone i simboli, non credo che la museificazione corrisponda necessariamente a un momento di riflessione istituzionale e collettiva. I musei possono anche servire a rinchiudere un vivo dibattito entro delle mura, o servire da giustificazione per l’introduzione di leggi sempre più restrittive (com’è accaduto del resto in Francia). Solo una riflessione pubblica può portare all’eventuale creazione di un museo e non viceversa. Se tuttavia vogliamo riflettere su quanto avviene ‘all’estero’, credo che questo esercizio possa essere utile nella misura in cui permetta di rintracciare sul territorio esperienze culturali che servano da modello per nuove modalità di racconto dell’immigrazione in Italia. Penso per esempio all’attenzione che il progetto di ricerca ‘Transnationalizing Modern Languages: Mobility, Identity and Translation in Modern Italian Cultures’ – finanziato dall’Art and Humanities Research Council e nato dalla sinergia tra i dipartimenti di Italian Studies di Warwick, St. Andrews e Bristol (in collaborazione con istituzioni di ricerca nazionali e internazionali) – ha dedicato alla vivissima realtà di associazioni che costituiscono da anni veri e propri cantieri di narrazioni resistenti dell’immigrazione. Oppure penso al numero sempre crescente di pubblicazioni in lingua inglese che sono state dedicate alla letteratura scritta da immigrati negli ultimi anni, tra cui (solo per citare i volumi più recenti) Postcolonial Italy: Challenging National Homogeneity (Palgrave Mc Millan, 2012), a cura di Cristina Lombardi-Diop e Caterina Romeo, Migrant Imaginaries: Figures in Italian Migration Literature (Peter Lang, 2013) di Jennifer Burns, e Shifting and Shaping a National Identity: Transnational Writers and Pluriculturalism in Italy Today Trobadour, 2014), a cura di Grace Russo Bullaro e Elena Benelli. Rivolgere l’attenzione al lavoro culturale svolto dalle associazioni e dagli intellettuali immigrati nel nostro paese potrebbe essere un buon inizio per raccontare il mondo in cui viviamo in maniera più consapevole, e per valutare il modo in cui la tradizione culturale a cui ci siamo affidati finora possa esserci davvero utile in quest’impresa.
Si è già detto e scritto molto in questi anni di immigrazione – quasi tutte le case editrici ‘maggiori’ hanno un titolo sull’argomento –, ma si è scritto spesso ‘al posto di’ o ‘su’, e molto poco ‘in prossimità di’ e ‘in dialogo con’ immigrati. Le narrazioni e gli studi sull’immigrazione che Pontani cita a ragione nel suo articolo non sono affatto casi isolati, né recenti: in Italia esiste una solida opposizione a quei ‘centri’ culturali in cui non si parla o si parla male di immigrazione. Un’opposizione che ha visto scrittrici e scrittori immigrati in prima linea, ma che è rimasta spesso inascoltata. Sarebbe forse ora di rendersi conto che queste voci sono numerose, e iniziare un dialogo che altri – in ‘periferia’, fuori dai musei, nelle strade e nelle piazze – hanno iniziato da anni. Prima dell’ascolto, credo tuttavia che sia doveroso chiedersi quali opportunità abbiano gli immigrati di potersi raccontare, di far sentire la loro voce, rispondendo alla domanda che poneva Gayatri Spivak in un famoso saggio del 1988: Can the Subaltern Speak? [Può parlare il subalterno?]. È questa assenza che evocano le bocche cucite degli immigrati del CIE di Ponte Galeria: la sintassi di un silenzio autoimposto descrive un ‘vuoto rappresentativo’ incolmabile, ma che forse si potrebbe meglio comprendere ribaltando le dinamiche tra chi racconta e chi è raccontato.
Simone Brioni
Il Post
17 06 2014
L’organizzazione ambientalista Greenpeace ha comunicato di aver perso circa 3,8 milioni di euro a causa di una speculazione finanziaria che non ha avuto il risultato auspicato da un dipendente del gruppo che, dice Greenpeace, «ha agito eccedendo i suoi poteri, senza rispettare le procedure e commettendo un grave errore di giudizio». L’identità del dipendente non è stata rivelata, tuttavia Greenpeace ha detto di averlo licenziato.
Come funzionava la speculazione è piuttosto semplice. Greenpeace, che ha formalmente sede ad Amsterdam ma opera in diversi paesi, aveva chiuso contratti impegnandosi ad acquistare valuta estera a tasso di scambio fisso, attendendosi che un indebolimento dell’Euro avrebbe reso l’operazione profittevole: in pratica, se io penso che tra un mese avrò bisogno di 1 dollaro e stimo che tra un mese il dollaro varrà più di oggi (ovvero mi serviranno più euro per comprarlo), posso impegnarmi a comprare tra un mese 1 dollaro al valore di oggi. Se ho ragione tra un mese comprerò il dollaro a un valore minore del valore di mercato, se ho torto comprerò il dollaro a un valore più alto del valore di mercato. Nel caso di Greenpeace l’euro è aumentato di valore (ovvero il dollaro è sceso) e quindi Greenpeace ha perso diversi milioni.
A causa della pesante perdita, ha comunicato Greenpeace, il bilancio del 2013 che sarà presentato nelle prossime settimane registrerà un passivo di 6,8 milioni di euro. Greenpeace, che si finanzia esclusivamente grazie a donazioni, si è scusata con i suoi sostenitori e ha detto che riuscirà a riassorbire la perdita nei prossimi due o tre anni di attività, ma che sarà costretta a rivedere alcuni investimenti programmati per il miglioramento delle sue infrastrutture e attività. I fondi destinati al finanziamento delle attività di campagna “di prima linea”, tuttavia, non verranno ritoccati per far fronte alle perdite inaspettate.
Per prevenire che una situazione simile possa ripetersi, Greenpeace ha detto di aver commissionato a un’agenzia indipendente una revisione completa dei suoi conti, di alcune procedure gestionali e di controllo, oltre a un’indagine per capire come sia stato possibile a un dipendente agire all’insaputa dei suoi superiori ed eludendo i sistemi di controllo.